Terra di nessuno?

Il campo estivo in Albania

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Inseriamo l'articolo avvincente di Beatrice, con la sua immersione breve ma intensa in Albania e l'esperienza di Convivialità delle differenze fatta dal gruppo di Lecce. Buona lettura!

Terra di nessuno?

 Dove le nostre verità diventano fragili e mostrano le rughe, si apre uno spazio in cui coloro che provengono da case, religioni e culture diverse possono incontrarsi.
In questa terra di nessuno, dove le stelle sono più delle costellazioni e le domande più delle risposte, invece di combattersi e inseguirsi nel buio si potrebbe accendere un fuoco.
Dopo essersi seduti in cerchio attorno ad esso, tutti potrebbero a turno raccontare le proprie storie, ascoltare quelle degli altri e scoprire una possibile fraternità nella comune lotta contro la paura. All’alba ognuno potrebbe tornare nella sua capanna, ma senza aver più il bisogno di chiudersi il mondo alle spalle e con il desiderio di tornare all’aperto, a incontrare gli altri nella notte, nella terra di nessuno.

                                                         Franco Cassano, “Modernizzare stanca”

  Se la terra di nessuno di cui parla Cassano potesse avere uno spazio preciso, un nome e un tempo nella mia storia, la chiamerei Albania.
  Ci sono stata quest’estate, partecipando ad un campo organizzato dai Comboniani e dall’associazione italo-albanese Agimi. Faccio una gran fatica a parlarne, e a mettere ordine in quel guazzabuglio caotico di suoni, volti, sapori, storie che quest’esperienza rievoca dentro di me.
  La mia prima immagine dell’Albania mi riporta al vecchio traghetto che da Brindisi ci ha condotti fino al porto di Valona; un groviglio caotico e variopinto di bambini, donne e uomini stipati un po’ dovunque, alla buona, e l’impressione di ritrovarsi catapultati in un altro mondo, magari indietro nel tempo.
Seduta su una grossa cima arrotolata e sporca di grasso, ho trascorso l’intera nottata ad ascoltare le storie di Menelao, poeta migrante, vibrante d’amore per la sua terra.

  A qualche ora di distanza, appena reduci da un viaggio rocambolesco, ci siamo ritrovati immersi nelle maestose montagne albanesi, accolti a sorsi di raki dagli uomini di Velcë, il piccolo e sperduto villaggio a sud di Valona che ci ha ospitato per tredici giorni.

  La vecchia scuola del villaggio era lì, ad aspettarci con il piccolo muretto a secco, la porta di legno verde sgangherata, le finestre rotte da cui gli asini ci osservavano incuriositi, i cartelloni impolverati appesi sulle pareti crepate, il cortile sassoso che dava l’impressione di esser stato abbandonato da tempo, e sulla facciata i resti di una scritta rossa sbiadita, a caratteri cubitali, “Enver Hoxha”, capo del governo dittatoriale durato in Albania per quarant’anni, fino al 1985.
  Non riuscivamo a capacitarci di come quell’edificio così poco accogliente ai nostri occhi potesse ospitare d’inverno tutti i bambini del villaggio, da quelli di scuola materna, fino ai più grandi di undici, dodici anni.
  I piccoli abitanti della scuola, proprio loro, incuriositi e affascinati dalla nostra presenza, sono stati i primi a venirci incontro e a colorare intensamente le nostre giornate con le risate, gli occhietti vispi e svegli, le canzoncine in albanese suonate con la chitarra, i battiti di mani, calorosi, con cui festeggiavano il nostro arrivo, i silenzi, la paura e insieme la voglia di conoscerci.
  I primi ad uscire dalla loro “capanna” pronti a sedersi in cerchio insieme a noi, a raccontarci le loro storie, e noi le nostre. È bastato qualche giorno perché la loro presenza gioiosa e chiassosa attirasse anche i più grandi, fratelli, sorelle e mamme, alcuni dei quali perfettamente capaci di comunicare in italiano.
  Molti, quelli che hanno in casa una televisione, fanno scorpacciate dei programmi Rai, altri conoscono l’Italia perché hanno il padre o il fratello che ci lavora o c’è già stato per qualche tempo, prima d’essere scoperto senza documenti e rispedito a casa. Le case degli emigrati sono le più belle, perché anche in un villaggio così piccolo come Velcë i prodotti che vengono dalla terra e dall’allevamento non bastano più, e chi riesce a lavorare all’estero (magari in Italia o in Grecia) assicura alla sua famiglia una vita più dignitosa.
  Di “modernizzazione”, lì, non trovi traccia. Camminando per le strade sterrate e senza illuminazione elettrica ti ritrovi tacchini, capre e asini un po’ dovunque, ordinati in fila o liberi per i campi, che si perdono a vista d’occhio.
  I velcioti sono contadini amabili, veraci dalle guance rosse, amanti della buona compagnia e capaci di un’ospitalità che ti sa lasciare a bocca aperta.

Non mancano mai di invitarti a bere un sorso di raki con loro la sera, ed è entusiasmante sentire le loro voci vigorose unirsi ad intonare canti polifonici che sanno farti vibrare. Di donne, però, non se ne vedono: ci sono spazi e tempi a cui non possono assolutamente accedere e che sono espressione di una forte subordinazione all’universo maschile.
  La condizione femminile a Velcë mi ha generato dentro perplessità, a tratti sgomento, e tutta una serie di domande e interrogativi che sono rimasti senza risposta.
  Le donne le incontri per strada, solo di giorno, magari intente a guidare una fila ben ordinata di tacchini, o alla sorgente a pulire le pelli di capra. Serbano quasi sempre un bel sorriso accogliente per chi incrocia il loro sguardo e amano parlare tra di loro, sedute nel salotto, sorseggiando caffè alla turca di cui sanno leggere i fondi. Molte tra loro non lavorano, hanno una “vita sociale” limitata agli scambi con le altre donne del villaggio e si dedicano completamente alla casa, ai figli e al marito.
  La “questione femminile”, tranne che per rare eccezioni, non sembra affatto sentita e c’è da chiedersi oltretutto quanto sia corretto applicare in un contesto simile schemi e categorie interpretative che appartengono all’emancipazione delle donne in Europa occidentale.

  Mi auguro, al di là di tutto, che a quel cerchio di popoli immaginato da Cassano possano prender parte anche le donne albanesi, raccontandosi, e raccontando le proprie storie, il proprio universo, la propria femminilità in un sistema sociale che spesso le relega ai margini.

       Non ho ancora fatto cenno ai miei compagni di viaggio, e forse preferirei non parlarne per non dover fare i conti con la nostalgia e per la mia incapacità di raccontare tutta la bellezza del nostro incontro.
  La convivialità delle differenze, tema portante del nostro campo, l’abbiamo vissuta gomito a gomito nell’incontro gioioso dei nostri cammini profondamente diversi, nella condivisione quotidiana del lavoro per la scuola e dell’incontro con i velcioti, nel far fronte insieme alla mancanza dell’acqua, dei bagni,  e ai vari malesseri fisici e psicologici a cui alcuni di noi sono andati incontro.
  L’intensità della nostra condivisione è stato il fondo comune a cui attingere per vivere ognuno il proprio “carisma”, il proprio contributo speciale e irripetibile da portare agli altri.

  Oggi, a tre mesi di distanza dal campo, l’Albania non è un capitolo chiuso, ma anzi continua a legare le nostre storie alimentando il viaggio di ognuno verso la propria autenticità.
  L’Albania, con le sue contraddizioni, le sue bellezze, le sue povertà continua ad interpellarci, ci chiede ancora di uscire dalle nostre capanne ed avventurarci in quella terra di nessuno dov’è possibile incontrare gli altri popoli.
                    
Beatrice