Resistenza e Resa

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Pubblichiamo in questa pagina una riflessione su Bonhoeffer e il suo testo più significativo: "Resistenza e Resa". Il testo è di Marina Monego, che ringraziamo.

La stessa pubblicazione si trova sul sito Piazza Liberazione e su Lankelot.

 

PREMESSA

 

Le pagine che seguono non possono e non vogliono costituire una trattazione esauriente del pensiero di Bonhoeffer, ma vogliono essere soltanto un modesto contributo alla semplice conoscenza di questo importante testimone del nostro tempo e oppositore al nazismo.

 

IL LIBRO

 

“Resistenza e Resa” raccoglie le lettere ed altri testi scritti da Bonhoeffer nel carcere berlinese di Tegel, dove fu detenuto dall’aprile ’43 all’ottobre ’44, per poi essere trasferito nel carcere sotterraneo della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse.

Di lì i contatti furono molto difficili e rari, il 7 febbraio ’45 fu trasferito al campo di concentramento di Buchenwald, il 3 aprile fu a Regensburg, l’8 aprile passò da Schönberg a Flossenbürg, dove verrà giustiziato.

La presente edizione alterna le lettere di Bonhoeffer a quelle inviatigli da parenti ed amici, suoi interlocutori sono i genitori, il nipote quattordicenne Christoph von Dohnanyi, il fratello Karl-Friedrich, l’amico fraterno e pastore egli stesso Eberhard Bethge (che diverrà il suo biografo) con sua moglie Renate, nipote di Bonhoeffer e qualche altro parente. Non vi sono le lettere alla fidanzata Maria von Wedermeyer con la quale Bonhoeffer progettava di sposarsi, rimaste a lungo inedite (esiste ora il volume Lettere alla fidanzata-Cella 92. Dietrich Bonhoeffer-Maria von Wedermeyer 1943-45, Bologna, Queriniana) .

In carcere Bonhoeffer riesce a leggere, scrivere, riflettere, pregare, riceve pacchi dai familiari e lettere, sia ufficialmente, sia clandestinamente.

La corrispondenza con Bethge, che contiene le più importanti riflessioni teologiche di Bonhoeffer, inizia il 18 novembre ’43 durante la prima licenza di Bethge, militare in Italia, a Berlino, ed è clandestina. Sulle vicissitudini dei testi vi è comunque il saggio finale del biografo.

 

Il libro inizia con un prologo: si tratta di pagine offerte agli amici nel Natale ’42, nelle quali Bonhoeffer traccia un bilancio degli ultimi dieci anni.

Alcune riflessioni appaiono già straordinariamente profonde ed interessanti, fin da subito l’Autore si delinea come persona che sa compromettersi, agire nella storia con coerenza, accettare anche il pericolo: “Attendere inattivi e restare ottusamente alla finestra non sono atteggiamenti cristiani” (p. 71).

Vi è l’accettazione della sofferenza, solo se inevitabile, in piena libertà sulle orme di Cristo.

 

Le lettere sono poi suddivise in quattro parti: periodo degli interrogatori. Aprile-luglio 1943; In attesa del processo. Agosto 1943-aprile 1944; Sopravvivere fino al colpo di stato. Aprile-luglio 1944; Dopo il fallimento. Luglio 1944-febbraio 1945.

 

Inframmezzati vi sono altri testi: il sermone scritto dal carcere per il matrimonio di E. Bethge con Renate, nozze celebrate lo stesso giorno del ventesimo anniversario di matrimonio di Ursel e Rüdiger Schleicher (sorella e cognato di Bonhoeffer, lui verrà giustiziato dai nazisti insieme a Klaus Bonhoeffer, fratello di Dietrich, il 23 aprile ’45), il sermone per il battesimo del primo figlio di Renate e Eberhard, pagine di appunti, poesie, minute di lettere di Bonhoeffer del giugno-agosto ’43 al consigliere capo del tribunale di guerra nell’intervallo tra gli interrogatori, un paio di brevi testamenti di Bonhoeffer scritti in occasione dell’intensificarsi dei bombardamenti su Berlino, un rapporto sul carcere dopo un anno di permanenza, un racconto, il progetto di uno studio in tre capitoli in cui avrebbe voluto esporre le proprie idee innovative che viene sviluppando nel carteggio con Bethge.

 

IL TITOLO

 

Nella lettera del 21 febbraio ’44 Bonhoeffer si chiede dove sia il confine tra la “necessaria resistenza” e la altrettanto necessaria resa al «destino», assumendo ad emblema dell’una Don Chisciotte e dell’altra Sancho Panza.

Ne deduce che il destino va affrontato e, in caso, ci si debba sottomettere ad esso. “Possiamo parlare di «guida» solo al di là di questo duplice processo; Dio non ci incontra solo nel «tu», ma si «maschera» anche nell’«esso», ed il mio problema in sostanza è come in questo «esso» («destino») possiamo trovare il «tu» o, in altre parole,come dal «destino» nasca effettivamente la «guida».

I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l’una e l’altra devono essere presenti e assunte con decisione. La fede esige questo agire mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta” (p. 289).

 

ETSI DEUS NON DARETUR

 

Nel fitto carteggio con Bethge, a partire dalla lettera fondamentale del 30 aprile ’44, Bonhoeffer inizia a sviluppare alcune idee innovative, che riappaiono da una missiva all’altra, a volte in modo frammentario; avrebbero dovuto confluire in uno studio in tre capitoli, del quale ci è rimasto solo il progetto.

 

Dapprima Bonhoeffer si pone una lunga serie d’interrogativi aventi al centro: chi è Cristo per noi oggi e cos’è il cristianesimo?

Egli considera che ormai il mondo è diventato adulto e può proseguire benissimo senza la presenza di Dio. Le varie scienze, filosofie, il diritto, la politica si sono sganciati, nel corso del loro sviluppo, dall’idea di Dio e sono divenute autonome, di conseguenza sono valide «etsi Deus non daretur», come se Dio non ci fosse. L’uomo basta a sé stesso e sembra cavarsela benissimo.

Dio “viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno” (p. 399).

Bonhoeffer osserva che l’apologetica cristiana si è sempre schierata contro questa sicurezza del mondo, mettendo in campo le «questioni ultime» (la morte, la colpa) cui solo Dio può dare una risposta.

Bonhoeffer ritiene che il progredire delle scienze umane relega sempre più tali questioni in sottofondo, un giorno anch’esse verranno risolte senza la presenza di Dio.

A questo punto sopraggiungono quelli che Bonhoeffer chiama “gli epigoni secolarizzati della teologia cristiana, cioè i filosofi esistenzialisti e gli psicoterapeuti, e dimostrano all’uomo sicuro, soddisfatto, felice, che in realtà è infelice e disperato, solo che non vuole riconoscere di trovarsi in una situazione sventurata, di cui non sapeva nulla e da cui solo loro possono salvarlo”(p. 399).

Questi attacchi al mondo adulto vengono fortemente criticati da Bonhoeffer.

Il risultato è una visione di Dio come «tappabuchi», che interviene nelle condizioni di debolezza dell’uomo e sembra approfittarne per insinuarsi nel mondo, accontentandosi così di una posizione marginale, defilata e legata non alla pienezza dell’essere umano, ma ai suoi aspetti più precari.

“Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie forze non spingono i limiti un po’ più avanti, e il Dio inteso come deus ex machina non diventa superfluo […] …io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile. La fede nella resurrezione non è la «soluzione» del problema della morte. L’«aldilà» di Dio non è l’aldilà delle capacità della nostra conoscenza! La trascendenza gnoseologica non ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio.

È al centro della nostra vita che Dio è aldilà. La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio” (pp. 350-51).

 

A questo punto rimane la questione: Cristo e il mondo adulto, e cioè: ha ancora senso un cristianesimo in questa situazione? Quale messaggio rimane? Esiste un cristianesimo «non religioso» proponibile all’uomo moderno?

La religione lavora molto sulla sola interiorità umana, sui limiti, invece per Bonhoeffer conta molto la liberazione della storia, la religione è legata all’apologetica, ai limiti umani, a un Dio depotenziatore dell’uomo, onnipotente, un Dio che il mondo, ormai indipendente, rifiuta sempre più. Che cosa proporre allora, se non si vuole eliminare totalmente Dio dall’orizzonte umano?

Il discorso passa attraverso Gesù Cristo. “La speranza cristiana della resurrezione si distingue da quelle mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra in modo del tutto nuovo e ancora più forte che nell’Antico Testamento. Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo («mio Dio, perché mi hai abbandonato?») e solo così facendo il crocifisso e risorto è con lui ed egli è crocifisso e risorto con Cristo. L’aldiquà non deve essere soppresso prematuramente. Nuovo e Antico Testamento restano concordi. I miti della redenzione nascono dalle esperienze umane del limite. Cristo invece afferra l’uomo al centro della sua vita” (p. 412).

 

La proposta è quella di un cristianesimo molto umano, calato nella terra e nell’uomo, totalizzante. Alle volte sembra che la «pars destruens » del discorso bonhoefferiano sia più forte di quella «costruens», in realtà Bonhoeffer non ha mai smesso di essere un credente, a costo di risultare scomodo e ne ha dato profonda testimonianza con la sua vita.

 

Lasciando a studiosi più preparati i possibili confronti che Bonhoeffer stesso sviluppa tra sé stesso e altri pensatori coevi, appurato che “con Dio e davanti a Dio dobbiamo vivere senza Dio”, la risposta, come accennato, passa attraverso la croce.

“Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. […] Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio, solo il Dio sofferente può aiutare” (p. 440).

Bonhoeffer constata che Gesù ha “chiamato fuori” gli uomini dai loro peccati, non “ve li ha fatti entrare”, si è preso cura di emarginati, di poveri, di prostitute e pubblicani, ma non solo di loro, non ha mai messo in questione salute e felicità, né le ha condannate,ma anzi ha sempre guarito. Ha voluto per sé la vita umana tutt’intera, completa.

 

Il discorso sull’ “antropos teleios”, l’uomo intero, era stato accennato da Bonhoeffer ancora nel gennaio ’44, basandosi sul versetto di Matteo 5, 48 “Dovete essere completi, come è «completo» il Padre vostro nei cieli”, sottolineando come, per un cristiano, tutti i vari eventi dovessero essere riportati a un comune denominatore, non ci dev’essere una frammentazione, un fermarsi al dato contingente, ma un rivolgersi sempre a una dimensione unitaria, a un grande progetto del quale si vedrà lo scopo.

Nel maggio ’44, sotto i bombardamenti che si facevano sempre più frequenti, egli osserva come la maggioranza dei suoi compagni si soffermi di solito agli affanni immediati (fame, paura, disperazione), ma non è quella la direzione giusta per affrontare la situazione.

“Nella misura in cui ad esempio nel corso di un allarme veniamo spinti in una direzione diversa da quella della preoccupazione per la nostra sicurezza personale, cioè ad esempio nell’impegno di diffondere tranquillità intorno a noi, la situazione diventa completamente diversa; la vita non viene ridotta ad una sola dimensione, ma resta pluridimensionale-polifonica. Quale liberazione è poter pensare e conservare nel pensiero la pluridimensionalità!” (pp. 381-82).

 

Caduta la religione, viene da chiedersi a questo punto che cosa possa distinguere i cristiani nel mondo, essi devono vivere «mondanamente», non tralasciare alcun aspetto della vita, godere e soffrire considerando ogni evento un dono di Dio: “Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo” (p. 441).

Il cristiano si fa trascinare da Cristo “nella sofferenza messianica di Dio in Gesù Cristo nel Nuovo Testamento”: essere cristiani è condividere con Dio la sua “sofferenza” nel mondo.

 

Dio vuol essere trovato in ciò che conosciamo, nell’uomo intero, nella sua pienezza di gioia o nella sua sofferenza, attraverso Cristo che fu l’uomo per gli altri.

È evidente che queste riflessioni furono e sono assai attuali, innovative per il cristianesimo e che fecero guardare talvolta al loro autore come a un mistico visionario o a un rivoluzionario. In realtà egli, per questo suo calarsi pienamente nell’umano e nel valorizzarlo dall’interno, offre spunti e motivi d’innovazione a tutti i cristiani: la stessa chiesa cattolica lo studia e ne ha tratto suggerimenti.

 

In conclusione, nel suo “Progetto” per uno studio, Bonhoeffer guarda al futuro della Chiesa: “La chiesa è chiesa solo se e in quanto esiste per gli altri. Per cominciare, deve donare ogni suo avere agli indigenti. I pastori devono vivere esclusivamente dei contributi volontari della comunità, eventualmente devono esercitare una professione laica.

La chiesa deve collaborare ai doveri profani della vita sociale, non dominando, ma aiutando e servendo. Deve dire agli uomini di tutte le professioni che cosa è una vita con Cristo, che cosa significa «esserci-per-gli-altri». In modo particolare la nostra chiesa dovrà opporsi ai vizi della hybris, dell’adorazione della forza, dell’invidia e dell’illusionismo in quanto radici di tutti i mali. Dovrà parlare di misura, autenticità, fiducia, fedeltà, costanza, pazienza, disciplina, umiltà, sobrietà, modestia. Non dovrà sottovalutare l’importanza e il significato del «modello» umano (che ha origine nell’umanità di Gesù ed è così importante in Paolo!): non per il tramite dei concetti, ma nel «modello» la sua parola troverà risonanza e forza” (pp. 463-64).

O ancora, in tono profetico, a conclusione del sermone per il battesimo del figlio di Renate ed Eberhard Bethge: “La nostra chiesa, che in questi anni ha lottato solo per la sua sopravvivenza, quasi essa fosse il suo proprio fine, è incapace di farsi portatrice della parola riconciliatrice e redentrice per gli uomini. Ed è per questo che le antiche parole devono svigorirsi e ammutolire e il nostro essere cristiano si riduce oggi a due cose: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia…sarà un linguaggio nuovo, probabilmente un linguaggio non del tutto religioso, ma liberatore e redentore, come quello di Cristo, tale che gli uomini ne avranno spavento e saranno, tuttavia, sopraffatti dalla sua violenza, il linguaggio di una nuova giustizia e verità, il linguaggio che annuncia la pace di Dio con gli uomini e l’avvicinarsi del suo regno… Fino a quel momento il dovere del cristiano sarà di restare silenzioso e appartato; ma ci saranno uomini che pregheranno e opereranno secondo giustizia e attenderanno il tempo di Dio” (p. 370).

 

ALCUNE CONSIDERAZIONI SPARSE

 

La ponderosa testimonianza rappresentata dal carteggio di Bonhoeffer può venir letta su piani diversi: teologicamente rivela idee innovative, profonde, che purtroppo non hanno potuto venir riunite in una trattazione organica come l’Autore aveva progettato, umanamente costituiscono un documento molto toccante sul modo in cui Bonhoeffer ha vissuto l’esperienza tragica del nazismo e della prigionia, alla luce sempre della sua fede, con un impegno convinto, costante, coraggioso che l’ha portato ad affrontare anche il patibolo con serenità, secondo quanto riferito dal medico del campo: “Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio” (p. 502).

 

Quella che si delinea nell’epistolario è la figura di un uomo giusto e retto, fedele fino alla fine al proprio ideale, capace di coltivare rapporti umani bellissimi e di livello molto alto, basti vedere la fraterna amicizia con Bethge, un uomo colto e raffinato, dotato di straordinaria profondità di pensiero e di enorme forza morale, che ha saputo resistere alla barbarie e al male.

Una resistenza, quella di Bonhoeffer, immersa nella storia (prese parte al complotto contro Hitler e si offrì personalmente per uccidere il tiranno, disposto poi a renderne conto a Dio), ma costituita anche dalla precisa volontà di non lasciarsi travolgere dallo sconforto e dall’abbattimento della prigionia, cercando sempre un significato più alto nei fatti contingenti e conservando, pur nella sofferenza, la speranza nonostante la nostalgia e l’isolamento.

Nella grande «polifonia» della vita esiste un «cantus firmus» costituito da Dio, che non toglie nulla all’esperienza terrena o all’amore umano, ma lo valorizza e ne fa il suo contrappunto, “anche il dolore e la gioia appartengono alla polifonia della vita nel suo complesso, e possono sussistere autonomamente l’uno a fianco all’altra” (p. 375).

 

Il percorso epistolare ci rivela svariate sfumature della vita di Bonhoeffer. I forti legami familiari, la catena di solidarietà e affetto che unisce i vari membri della famiglia, le premure e sollecitudini reciproche, il rapporto fraterno con Bethge, la nostalgia lacerante che però non si muta mai in disperazione e avvilimento, la fiducia in Dio e nella sua azione, la rivisitazione continua che il prigioniero fa del passato, soprattutto dei momenti lieti trascorsi in compagnia, per attingervi forza per il presente.

Il passato non va perduto e quando ci coglie la nostalgia dobbiamo sapere che essa costituisce uno dei «momenti» che Dio ci riserva, “dobbiamo rivisitare il passato non da soli, ma in compagnia di Dio” (p. 238).

Non si tratta qui di sterile rievocazione fine a se stessa, ma di accettazione di ogni fatto, di ogni evento in una luce differente, senza ripiegamenti o autocommiserazione. Da tali presupposti e dall’insieme del suo pensiero scaturisce che anche la sofferenza può diventare una via verso la libertà: “La liberazione nella sofferenza consiste in questo, che all’uomo è possibile rinunciare totalmente a tenere la propria causa nelle proprie mani, e riporla in quelle di Dio. In questo senso la morte è il coronamento della libertà umana. Comprendere o meno la propria sofferenza come prosecuzione della propria azione, come compimento della libertà, questo determina se l’azione umana sia o non sia un affare di fede. Trovo tutto questo molto importante e molto consolante” (p. 453).

 

In sintesi, la lettura di Bonhoeffer è decisamente impegnativa sia per gli argomenti trattati, sia per gli innumerevoli spunti di riflessione e gli interrogativi che essa pone, sia per la mole dell’epistolario (circa 500 pagine), è una lettura da farsi gradualmente interiorizzandone i contenuti poco per volta.

Bonhoeffer è stato sicuramente un uomo che ha saputo pensare in grande, senza fermarsi ad un orizzonte ristretto, nella convinzione che, pur nell’infinita frammentarietà dell’esistenza, vi sia alla fine uno scopo e un compimento più alto capace di dare un senso a tutti gli eventi ,anche ai più negativi.

Di fronte alle sue parole rimane il rimpianto che un’umanità così autentica e un’intelligenza così brillante siano state spente anzitempo dal male e dalla barbarie.