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4. - relazione alla Società di Colonia

 Khartum, 15 febbraio 1879

 Egregi Signori,

 Già più volte ho spiegato nelle mie relazioni per gli Annali della benemerita Società di Colonia che le opere di Dio nascono sempre ai piedi del Calvario e che hanno impresso il contrassegno della Croce.

La buona Provvidenza ci mostra in ciò una disposizione di sapienza, che in generale noi troviamo confermata nella storia della Chiesa, che ci prova nella prospettiva della più luminosa verità che tutte le opere di Dio, che servono alla sua glorificazione, possono essere intraprese soltanto attraverso grandi prove e continui ostacoli e sulle vie del dolore, cose che richiedono sacrifici straordinari e il martirio. Le missioni apostoliche sono tali opere di Dio, che per questo sono per lo più contrassegnate dal sigillo della Croce, perché esse si dedicano all'alto compito di annientare le potenze delle tenebre e intendono espandervi invece il regno di Cristo.

Per cui è cosa naturale che esse urtino contro continue ostilità e persecuzioni di ogni genere; poiché le potenze delle tenebre non vogliono abbandonare così facilmente il loro dominio e il loro trono, e ci preparano ardui combattimenti e vogliono farci sentire tutta la forza della loro potenza, apportatrice di rovine.

Per questo nessuna missione apostolica fu mai fondata e potè con­seguire risultati senza croci e sofferenze, senza sacrificio, sangue e martirio. La vicenda delle missioni cattoliche rassomiglia alla glo­riosa storia della Chiesa cattolica e del Papato: la prima fu fondata e crebbe col sangue dei suoi martiri e continua piena di coraggio, no­nostante le furibonde tempeste, la sua sublime marcia attraverso le impetuose onde dei secoli per raggiungere sicura e trionfante il porto dell'eternità, per cui è stabilita.

Se dunque questa via regale e gloriosa di tutte le Missioni cattoliche della Chiesa si è prospettata così, perché dunque la missione di gran lunga più difficile e faticosa di tutta la terra, che ha per scopo la promozione dell'uomo e che comprende un territorio così esteso e in­tensamente popolato, dovrebbe battere una strada diversa da quella delle altre missioni e delle altre sante imprese ad onore di Dio? No, i suoi sentieri non possono essere cosparsi che di spine e di tribola­zioni d'ogni specie; essa deve passare per il crogiolo dei dolori, delle sofferenze, e del martirio; la Croce è ciò che essa deve aspettarsi.

Il demonio dell'empietà e della inimicizia di Dio deve essere com­battuto senza paura della morte e sarà scacciato dall'Africa. Speriamo che con l'aiuto di Dio sia concesso al nostro tempo di compiere la conversione di questo popolo il più abbandonato e il più infelice della terra. Sì, sembra proprio che Dio così abbia deciso!

Ed ora, miei cari signori, Loro che hanno dato il primo impulso, il primo appoggio a questa sublime opera di salvezza delle anime, Loro che sono stati i primi che hanno sostenuto l'opera della rigenerazione dell'Africa Centrale attraverso uno zelo degno di ammirazione ed una costanza senza pari, affinché questi cento e più milioni di poveri in­felici venissero condotti alla fede e alla civiltà; Loro che attraverso la loro Società e la loro carità hanno infiammato la Germania cattolica, considerino ora i frutti della loro così benemerita attività; Loro ve­dono come gli occhi di tutto il mondo attuale si rivolgono verso l'Africa. Gli uni vogliono portare colà la civiltà, gli altri la religione. Altri ancora hanno per scopo l'abolizione della tratta degli schiavi, e si interessano della possibilità produttiva del terreno e delle ricchezze del paese; taluni prendono precise notazioni sotto l'aspetto geografico, ecc.

Sembra così che la scienza, l'industria e la filantropia si debbano unire per fare ivi delle scoperte, e risolvere il problema in qualche modo al fine che l'Africa Centrale possa essere civilizzata e conver­tita al Cristianesimo.

Loro non si sono meno meravigliati, miei signori, degli sforzi grandiosi che America, Inghilterra, Germania, e Italia compiono in riguardo all'Africa Centrale. Davanti ai loro occhi si presenta l'impresa di Sua Maestà il vivente Re dei Belgi, che dà una splendida testimonianza delle giuste cognizioni e dei nobili ideali di questo mo­narca, per cui vari stati d'Europa e l'America furono stimolati ad oc­cuparsi dell'Africa ed a puntare là la loro mira, per fare il tentativo di introdurvi i benefici di una civilizzazione cristiana.

Siano convinti che il lavoro compiuto dalla loro Società in unione agli sforzi dell'intera Germania Cattolica per la liberazione e educazione cristiana dei negri, con cui il mio "Piano per la rigenerazione dell'Africa" potè essere portato ad esecuzione, ha avuto non piccola parte nel movimento degli spiriti, nei provvedimenti, che si manifestano da tutta la terra a favore dell'Africa, non solo nel mondo della scienza, ma soprattutto nelle molte diverse associazioni della Chiesa Cattolica.

Prendano da ciò grande conforto, miei signori, poiché è stato Dio che ha destato nel loro cuore quest'amore cristiano, questo zelo per i popoli neri; e senza dubbio anche i loro Annali vi hanno contribuito potentemente: rivelando le grandi necessità di questi popoli e la loro sconfinata miseria, hanno suscitato vivissimo interesse nell'umanità per loro.

Anche la Sede Apostolica si vede spinta per questo a fare tutto ciò che è a sua disposizione per espandere il Regno di Gesù Cristo nell'Africa Centrale, e fondare le missioni su solide basi. Prendano pertanto in considerazione la grande verità che le aspirazioni scientifiche e civilizzatrici delle potenze europee, e le loro intenzioni umanistiche riusciranno alla fine tutte a vantaggio della Chiesa cattolica e dell'apostolato cattolico con l'esercizio della sua opera di salvezza, per la quale la loro Società per l'Africa Centrale svolge la sua attività da ben 25 anni.

Ora si aggiunga che una Società di magnanimi missionari di Algeri, fondata dall'energico ed eminente Arcivescovo Mons. Carlo Marziale Allemand Lavigerie per l'apostolato della Prefettura apostolica del Sahara, volge ora la propria assidua cura verso l'Africa Equatoriale; questa si estende verso la parte meridionale del Vicariato apostolico dell'Africa Centrale, la quale al presente, dato che costituisce una parte dell'Africa Centrale, in forza del Breve del 3 aprile di santa memoria, appartiene alla mia giurisdizione.

Poiché il Signore mi ha posto nel mio ufficio per la salvezza delle anime, per questo mi stimo felice di cedere alla nuova Congregazione di Algeri, che dispone di molto personale, i territori che si estendono intorno al lago Tanganica e nel regno Muati-Yanvo, come pure tutta la regione che si estende dal Vittoria Nyanza lungo la linea dell'Equatore, poiché a causa della mancanza di missionari, non potrei evangelizzare subito tali zone.

Inoltre devono prender nota della zelante opera dei pii Padri della eccellente Congregazione dello Spirito Santo e del Cuore di Maria, fondati dal R.mo P. Libermann per l'apostolato d'Africa. Questi estendono le loro conquiste all'interno della Prefettura Apostolica del Congo. E poi abbiamo da registrare, prima di tutto, i felicissimi risultati del P. Antonio Horner, al quale riuscì, dopo grandi fatiche, di annunziare il Vangelo da Bagamoyo fin nell'interno di Nguron e di Mihonda e nell'Onssigna.

Considerino infine la recente fondazione missionaria allo Zambesi Superiore, affidata da Leone XIII ai Reverendi Padri Gesuiti d'Inghilterra. Vi è a capo un eccellente e valoroso veterano delle missioni apostoliche indiane, il R.mo Padre Depelchin, che dal Capo si porta, con altri sei missionari, verso lo Zambesi per fondarvi la prima stazione missionaria tra i Matabèle e il Betchuara; da qui ha intenzione di procedere verso le rive del lago Banguelo dove Livingstone spirò.

Dopo aver premesso questo, come introduzione alla mia relazione, voglio metter a loro conoscenza gli avvenimenti della nostra Missione nel corso degli ultimi mesi e dell'inizio, pieno di spine, del mio apostolato come primo Vescovo e Vicario apostolico dell'Africa Centrale. Un così breve spazio di tempo racchiude una serie di ter­ribili e paurose pene, che costituiscono per l'esistenza della Missione, del resto già oltremodo faticosa, una dura prova.

Ma proprio per il fatto che il Signore ha voluto imprimere il sigillo della sua Croce all'apostolato dell'Africa Centrale, è assicurata la promessa della sua durata, santità e riuscita. Tutte le disgrazie e gli avvenimenti dolorosi non poterono tuttavia né scoraggiare né abbattere, nemmeno per un istante, lo spirito degli operai evangelici, che hanno ricevuto da Dio la vocazione a questo apostolato difficile e pieno di sacrifici; ma in forza di ciò il nostro zelo è aumentato, e le nostre speranze si sono di nuovo ravvivate, e noi rimaniamo, senza tentennamenti, ben saldi sulla via intrapresa, fedeli al nostro grido di guerra: "O Nigrizia o Morte!"

Ma più di tutto mi riempì di indicibile dolore e mi straziò il cuore l'alta mortalità tra i principali membri della missione. Tutti i membri della missione di Chartum furono colpiti, in settembre, da febbri violente ed assaliti da altre gravi malattie; oltre a me, tutti i missionari, tutti i fratelli laici provenienti dall'Europa, tutti gli allievi indigeni ad eccezione di due neri, tutte le Suore di S. Giuseppe, oltre a Suor Germana Assuad di Aleppo, la quale tanto a Chartum, come pure nel Cordofan ed a Gebel Nuba si era ammalata spesso fino al punto di morte, ed alla quale io stesso amministrai il Santo Viatico. Inoltre anche tutte le maestre nere, le cucitrici, le alunne e le schiave dell'Istituto femminile ad eccezione di due.

Fino a tre mesi durarono presso tutti le febbri e le altre terribili malattie, delle quali prima non se ne aveva avuto alcun sentore. Molti per questo furono portati fino sull'orlo del sepolcro. Nel mese di ottobre io ero l'unico Sacerdote, che coll'aiuto di Suor Germana, di giorno e di notte, dentro e fuori la missione, prestava soccorso ai malati e ai morenti. Tutte e due le maestose case della missione in Chartum si erano trasformate in due ospedali; e non solo io dovevo attendere ai doveri del mio ministero di Vescovo, ma anche dovevo essere superiore, parroco, cappellano, amministratore, medico, chirurgo ed infermiere, fuori e dentro la missione talvolta anche becchino.

Mi trovavo sempre in movimento, così camminavo di giorno e di notte, e per quattro mesi non potei dormire che soltanto un'ora su ventiquattro. L'inappetenza e la nausea avevano raggiunto in me un tale grado, che ne soffrivo indicibilmente, e quando dovevo prendere cibo, era come se andassi alla morte. In certi giorni mi mancava il brodo di carne per gli ammalati e i morenti, che, come i missionari e le Suore, appartenevano alla missione; provvidi allora vari servitori di molto denaro perché procurassero una gallina od un piccione, per poter così preparare un po' di minestra. Prima i volatili costavano pochissimo a Chartum. Ma né a Chartum né nei villaggi dei dintorni era possibile avere qualcosa. Mandai pure in località lontane un giorno di viaggio, verso Ondurman, Karari e a Tamariet, ma tutto fu vano. I servitori tornarono senza aver combinato nulla. Era un caso veramente disperato, di cui non potrei dar loro una pallida idea.

Il sacerdote Don Policarpo Genoud morì in venti minuti, colpito improvvisamente dal tifo; perdetti pure il mio bravo e pio Ferdinando Bassanetti dell'Istituto Africano di Verona; egli aveva, nella missione, l'ufficio di giardiniere, e con le sue considerevoli conoscenze economico-agrarie e con le sue selezioni riuscì a portare il grande giardino della nostra missione in Chartum ad una meravigliosa produttività. Tuttavia negli ultimi anni vi era solo erba per i buoi che tra­sportavano acqua dal fiume per irrigare il terreno, e giardino, che per l'assidua cura del generoso missionario tirolese, l'impareggiabile Augusto Wiesnewky, della diocesi di Ermeland, ora defunto, era stato portato prima nella migliore situazione di grande utilità della missione, non dovesse andare in rovina per la siccità.

Inoltre morì l'abile agricoltore Lazzaro di Verona, poi morì il fabbro ferraio Augusto Serrarcangeli di Roma e il veramente santo, moderato macchinista e bravo meccanico Antonio Iseppi che avevo condotto con me da Verona, per poter installare una macchina a vapore per l'irrigazione del giardino, perché potesse far a meno degli animali.

Avevo anche l'intenzione di far costruire un mulino per macinare il grano per le missioni di Chartum, Berber e del Cordofan, dato che in questi paesi il grano viene sempre macinato ancora tra due pietre piatte, chiamate "marhhacca", viene ricavata una farina non pulita né buona, e questo metodo richiede molto personale femminile. Questa brava persona terminò la macchina e la installò in un luogo adatto. Dato poi che anche nel resto era molto istruito, egli era molto utile anche come catechista e faceva molto bene con il suo esempio. In seguito però soffrì di calcoli biliari e di altre malattie per 4 mesi; poi ebbe il tifo e infine se ne andò all'eterno riposo a ricevere la palma per le sue virtù.

La reverenda Superiora del Cordofan, in seguito a straordinarie privazioni, fu parimenti colpita dal tifo e morì. Suor Enrichetta in età di 26 anni, fino allora forte e sana, la quale si distingueva per le eccellenti qualità e per la sua innocenza angelica e che era la direttrice dell'istituto delle orfanelle in Chartum, ebbe la febbre tifoidea dopo aver curato molti malati che soffrivano di malattie contagiose. Del tutto serena e contenta riconsegnò al Signore la sua anima e in tutti i momenti della sua penosa malattia la si sentiva esclamare: "Tout pour Vous, mon Jésus" (tutto per voi, mio Gesù). Era francese e si tro­vava a Chartum da soli 18 mesi.

Passo sotto silenzio i molti tristissimi casi di morte tra gli allievi d'ambo i sessi nei nostri Istituti pei negri in Chartum, che Loro, me­diante la loro Società, avevano riscattato. Essi andarono in cielo con il viso sorridente, per impetrare dal Signore delle misericordie grazie per tutti i membri della Società, per il cui aiuto essi erano stati liberati dalle tenebre del paganesimo e dai tormenti della schiavitù e, quali figli di Dio, accolti nel seno della Chiesa Cattolica.

Io voglio ancora menzionare la grave e irreparabile perdita che mi ha colpito nella persona di colui che era il braccio destro della mia opera, che mi stava al fianco come un angelo e un saggio consigliere, un uomo di fedeltà e di sincerità senza pari, che per otto anni ha diretto il mio Istituto Veronese, che sotto la sua direzione ha pro­sperato in modo straordinario.

Nell'anno 1877 lo presi nel mio Vicariato come Amministratore generale del settore finanziario della missione dell'Africa Centrale, coll'intenzione, qualora avesse resistito al clima africano, di eleggerlo Vicario Generale e, più tardi, di farlo nominare dalla S. Sede a Vescovo e a mio coadiutore e successore. Questi è il pio, erudito e bravo Don Antonio Squaranti. Sebbene egli non fosse stato ancora colpito da febbri, di quando in quando, in luglio e agosto, in quei giorni di estrema calura tropicale, era preso da una estrema debo­lezza. Questo però non rappresentava nulla di straordinario, dato che tutti gli europei, soprattutto nei primi tempi della loro residenza in Chartum, sono esposti a parecchie indisposizioni fisiche. Anche noi tutti ogni anno ne soffriamo, specie nel periodo delle piogge (Kharif). Quando la pioggia cadde in così grande quantità, pensai subito che ciò avrebbe prodotto febbri e malattie. A Chartum le febbri del Kharif sono più micidiali che non in qualsiasi altro luogo dell'Africa Centrale.

Poiché Don Squaranti era esposto a queste pericolose febbri di Chartum per la prima volta, pensai che sarebbe stato meglio un cambiamento d'aria e lo inviai a Berber per visitare quella stazione, dove lavoravano cinque Suore Pie Madri della Nigrizia, che vi si trova­vano da alcuni mesi e in questa missione così lontana avevano, per una volta, giustamente bisogno di consolazione e di aiuto, dato che anch'esse erano colpite da febbri. Gli dissi che doveva rimanere là finché non l'avessi richiamato indietro. Egli non si accorse della mia intenzione con la quale combinai di allontanarlo per quella volta da Chartum, e da figlio obbediente si mise in viaggio su una barca araba verso  Berber, dove giunse dopo 13 giorni.

Qui egli si riprese perfettamente e ricuperò la sua primitiva gagliardia, tanto che mi scrisse di sentirsi più forte e sano di quando si trovava in Europa. Durante la sua assenza giunsero le terribili febbri e le altre malattie che ho loro già descritte. Ma appena egli venne a sapere che nella missione di Chartum i casi di morte erano così frequenti che vi si moriva come le mosche, e che io ero del tutto solo e non avevo nessuno, oltre a me, che amministrasse i Sacramenti, non esitò nemmeno un istante ad accorrere in aiuto di me e di una missione così duramente provata. In compagnia di un membro di quella missione, egli salì su una barca araba stracarica di uomini, tra i quali v'erano molti poveri musulmani.

Questa barca impiegò 14 giorni per arrivare a Chartum. Ma già nei primi giorni di viaggio incominciò a sentire i primi sintomi delle febbri, e si aggiunga che si era esaurita la sua provvista di chinino, avendola donata per via ai malati. Al dodicesimo giorno, la febbre aveva già raggiunto un'alta temperatura e al quattordicesimo si trovò ormai sull'orlo della tomba. Poi la febbre diminuì alquanto; ma quando giunse a Chartum, riconobbi subito, per lunga esperienza, che la sua febbre si sarebbe mutata in tifo, che qui fa strage. Lo accogliemmo nel modo più caritatevole possibile e gli prestammo per dodici giorni tutte le cure fisiche e spirituali meglio che potevamo. Ma tutto fu vano! La sera del 16 novembre, alle ore 18,30, spirò felice nel Signore, in pace e pieno di fiducia nell'eterna ricompensa, mentre noi trattenevamo a stento le nostre lacrime. La sua grande bontà e carità fraterna lo condussero alla morte, che addolorò indicibilmente noi, ma soprattutto colpì molto duramente me.

La sua carità fraterna, la sua rettitudine e lo spirito apostolico che l'animavano, erano superiori a ogni elogio. La sua perdita è per me irreparabile. Ma il Sacratissimo Cuore di Gesù mi manderà nuovo aiuto, così io spero, per la salvezza della infelice Nigrizia. L'oltremodo enorme fatica, che io da più di dieci mesi ho da sopportare, le molte emozioni, le afflizioni, le preoccupazioni che il Signore, nei Suoi decreti imperscrutabili, ma sempre ricchi di benedizione, volle mandare su di me, hanno intaccato alla fine anche la mia salute pur così vigorosa. In Boure, a due miglia da Chartum, dove ero andato per visitare i nostri malati, mi prese una febbre violentissima, le cui conseguenze mi fanno ancora sempre soffrire; e le mie forze si sono straordinariamente indebolite. Chi sa se e quando riuscirò a ricuperare del tutto la mia salute.

Di fronte a tante afflizioni, fra montagne di croci e di dolore, che io ho loro già descritto e che mi restano ancora da descrivere, per queste enormi complicazioni, il cuore del missionario cattolico è rimasto scosso; tuttavia egli non deve per questo perdersi d'animo; la forza, il coraggio e la speranza non possono mai abbandonarlo. E' mai possibile che il cuore di un vero apostolo possa abbattersi e intimorirsi per tutti questi ostacoli e straordinarie difficoltà? No, questo non è possibile, giammai! Solo nella Croce sta il trionfo.

Il Sacro Cuore di Gesù ha palpitato anche per i popoli neri dell'Africa Centrale e Gesù Cristo è morto anche per gli Africani. Anche l'Africa Centrale verrà accolta da Gesù Cristo, il Buon Pastore, nell'ovile, e il missionario apostolico non può percorrere che la via della Croce del divin Maestro, cosparsa di spine e di fati­che di ogni genere. "Non pervenitur ad magna praemia nisi per ma­gnos labores". Il vero apostolo quindi non può aver paura di nessuna difficoltà e nemmeno della morte. La croce e il martirio sono il suo trionfo.

Anche i missionari dell'Africa Centrale, i quali vengono sottoposti a un lento martirio per le privazioni d'ogni genere, per il lavoro sovrumano, e per il clima infuocato, seguiranno l'esempio di S. Bonifacio, Apostolo della Germania, e dei nostri cari confratelli della Cina e dell'India, che non temono i più terribili martirii. Davanti allo stendardo della Croce, l'Africa Centrale deve piegare il capo e sarà conquistata a Gesù Cristo.

Dopo che ho informato loro, miei signori, delle perdite e delle sventure di questa importante e difficile missione, mi resta da aggiungere che i risultati ottenuti e i buoni successi, dei quali, attraverso le nostre straordinarie fatiche, ci possiamo gloriare, sono stati in questo anno molto abbondanti, nonostante le grandi necessità, e che hanno anche superato quelli che abbiamo ottenuto negli anni scorsi.

 

C Daniele Comboni

Traduzione dal tedesco