clicca qui per tornare alla pagina degli scritti di Comboni dividi per temi

 

6. a suo padre

 Dalla tribù dei Kich nell'Africa Centrale

29 marzo 1858

 

Carissimo Padre!

Fino al giorno 26 corr.te a tutti quelli a cui scrissi in Europa, io attestai sempre con verità, che noi tutti godiamo della più perfetta salute; e già ne ringraziavamo il cielo. Ora bisogna che io muti scena, e che adoperi diverso linguaggio, perché il Signore, Dio delle misericordie, veramente cominciò a trattarci da veri suoi servi ed apostoli. Oh! sia benedetto in eterno il Signore.

Taccio che il primo colpito dalla febbre terribile africana fui io nella tribù degli Scelluk, mentr'era in barca; e dopo sei giorni rimasi guarito: taccio che ne furono colpiti D. Giovanni, ed il fabbro ferraio Isidoro, i quali pure felicemente la superarono: e noi fummo fortunati, mentre molti Missionari dell'Africa Centrale della Società di Maria perirono al primo assalto di febbre, che generalmente è il più fatale. Ma a Dio piacque di visitarci più davvicino.

Non vi spaventate, caro Padre; la bell'anima di D. Fran.co Oliboni volò a congiungersi al suo Dio, pel quale avea abbandonato e padre, ed una delle più cospicue cattedre del Liceo di Verona, e la patria. Sia benedetto in eterno il Signore. La sera del giorno 19 dedicato a S. Giuseppe, egli si sentì aggravata la testa ed un insolito disturbo allo stomaco; parea cosa piccola; e non si risolse che a prendere un po' di magnesia e tamarindo. Il 20 non sentendosi punto sollevato, fu ridotto a prendere un po' di olio di ricino, dopo il quale si sentì guarito. Il suo polso però nulla mi piaceva, così pure il suo respiro.

Egli fin dal 19 sentì che doveva assolutamente morire; e dispose tutte le sue cose, e tutte le sue faccende come se avesse il giorno dopo a morire. Il giorno 22 fu colpito da terribilissima febbre, che lo portò sulle ultime; per cui veggendo il suo male aggravato domandò i SS.mi Sacramenti.

Fin dal mattino si era confessato e comunicato: prima però di prendere l'estrema unzione, chiamati tutti noi al suo piccolo angareb (che ci serve di letto) con quell'eloquenza che è sua propria, e con quella forza e veemenza che gli dettava lo spirito di Dio sul punto di morte, ci fece una parlata; una raccomandazione di star saldi e forti nella grande impresa, di realizzare il gran piano del Superiore, di amare il Superiore col non venir meno a suoi disegni per la gloria di Dio, di non risparmiare fatica per redimere anime al cielo etc. etc.

Addio! diceva; sulla terra non ci vedremo più, ma io sarò sempre con voi unito collo spirito, pregherò Iddio per voi, per la nostra Missione, e saremo sempre fratelli indivisibili collo spirito; Addio! Poi intrepido, egli stesso rispose alle preci della chiesa, e ricevette l'olio santo, dopo il quale poco a poco in men di due ore passò la febbre e stette assai bene. Egli non aveva avuto mai salasso in sua vita e quindi non cedette mai alle nostre preghiere di farsi trar sangue, credendo di restare sotto il salasso. Appena venne a star male il giorno 22, egli stesso lo domandò; ma prima volle l'olio santo.

Io, avendo conosciuto che avea da tempo una piccola infiammazione di petto, acquistata specialmente dai disagi del viaggio, unitamente ad un gastricismo che avea da molt'anni, acconsentii benché fosse un po' tardi, e gli diedi, subito dopo l'olio santo, il primo salasso, dopo il quale cessò la febbre, ed alla mattina seguente, il secondo.

Il giorno 23 lo passò assai bene; e noi non eravamo capaci di persuaderci che dovesse morire: ma egli, sarà, dicea, ma debbo morire. Il giorno 24 venne colpito di nuovo dalla febbre con maggior veemenza che nel 22, e sulla sera gli demmo la benedizione Papale, dopo la quale si trovò meglio, ma la febbre non cessò più, anzi cominciò un'irruzione di migliara, la quale io favorii con tutti i mezzi che suggerisce l'arte medica; ma l'infermo continuava sempre in un'alternativa di bene e male, finché la mattina del 26 si sentì addosso tutti i mali possibili. Ma come fare qui a portargli sollievo, a ristorare il suo ardore, che manca il ghiaccio, che solo mi sarebbe bastato per governare la migliara?

Ma Dio lo chiamava a sé. Noi dolenti cominciammo a rassegnarlo a Dio, quantunque la sua perdita ci recasse il più gran danno; dovendo ora la grande impresa affidataci da Dio, riposare sopra le inferme spalle di soli tre: ma Dio può tutto: sia benedetto. Crescendo il male a mezzogiorno, mentre tutti tre lo assistevamo, egli fu trasportato al delirio, nel quale perdurò circa due ore: poi cadde in mortale agonia, e alla vista di tutti e tre, dopo mille conforti datogli, mille lagrime sparse, spirò nel bacio di Dio alle 5 pomeridiane del giorno 26 marzo nell'età di 33 anni, meno tre giorni.

Perfetta rassegnazione, viva fede, ferma fiducia, pietà ammirabile, ardente brama di congiungersi indivisibilmente al suo Dio, furono i sentimenti e gli affetti, con cui si dispose all'estremo passaggio. Chi lo conobbe vivente, chi sa quali doti e virtù adornavano lo spirito di Lui, può immaginare quanto dolore e quanto danno ci abbia recato la sua perdita. Pure sia fatta in eterno la divina volontà!

Egli non dormì quasi mai, che tre ore alla notte, il resto della quale impiegava nell'orazione e nella meditazione; digiunava aspramente: passò tutto il deserto della Nubia col bere un semplice caffè senza zucchero alla mattina; e colla sola cena alla sera, senza altro gustare né acqua né cibo di sorta. Oltre il proprio Ufficio Divino, recitava ogni giorno i Salmi Penitenziali, i Salmi graduali, l'ufficio della feria, senza mettere il resto dell'orazione che faceva in comune con noi; era il più pacifico fra noi, sempre mite, sempre dolce, insomma era un santo. Anzi ebbe la sorte di morire, come G. C. nacque, nella stalla, perché giunti alla tribù dei Kich altro non ci fu dato, che una stalla destinata per le vacche, ove stemmo tutti cinque dal 18 Febbraio fino al 26 marzo.

Alla mattina del 27 D. Angelo ed io lo lavammo e lo vestimmo, lo ponemmo in cassa, e l'inchiodammo; fatti i funerali lo accompagnammo al sepolcro, che facemmo scavare nella vicina foresta, e fatta una breve biografia la ponemmo in una bottiglia ben sigillata, e questa in altra più grande e ben sigillata, lo seppellimmo, apponendo sul sepolcro una Croce. Dopo qualche notte la iena scavò fino alla cassa due volte per divorarlo; ma la cassa essendo durissima non poté far nulla. E' morto adunque un nostro fratello, padre carissimo, e la sua morte lungi dall'intimorirci, ci porge anzi maggior coraggio per istar saldi nella grande impresa.

Non dubitate; caro Padre, io sono venuto Missionario per faticare alla gloria di Dio e consumare la vita pel bene delle anime: se anche mirassi caduti tutti i miei compagni, quando la prudenza od altre cause non mi consigliassero il contrario, io starò saldo e metterò ogni sforzo per realizzare il gran piano del Superiore. Vi prometto peraltro, ed è regola che abbiam noi Missionari, che qualora scorgiamo apertamente che è impossibile alle nostre forze fisiche resistere sotto questi climi, con qualche spedizione ritorneremo a faticare nelle patrie contrade. Ma faccia il Signore. Voi frattanto state allegro, non temete; una vittima fra noi quattro la si prevedeva: sia fatta la volontà di Dio.

Abbiamo mandato a chiamare il capo della tribù dei Tuit, affine di risciacquarlo e tastarlo per istabilirci nella sua tribù; gli abbiamo fatto dei doni, ed egli rispose che andiamo nella sua tribù quando vogliamo, e per tutte le capanne, fuorché nelle sue. E perché rispon­demmo non vuoi che entriam nelle tue? perché, rispose, nelle mie vi è uno spirito che divora gli uomini. Noi tel cacceremo, soggiungemmo; è impossibile, disse, ei divora tutto. Vedremo. Ho cominciato fin da quando giunsi ai Kich l'esercizio della medicina; e sapete il complimento che mi tocca ogni momento con questa gente*? Appena bevuta la medicina questi neri mi prendono le mani e vi spu­tano dentro, poi gentilmente e graziosamente mi sputacchiano le spalle e le braccia; ed una volta che rifiutai, una donna mi piantò gli occhi nel viso che parea volesse mangiarmi.

Questi sputacchiamenti è il segno più vivo di gratitudine fra questo popolo*. Qui v'è un'immensa quantità di zanzare che tormentano as­sai, ma peggio sarà al tempo delle piogge. E' una cosa meravigliosa il guasto che qui recano le formiche; una capanna non può durar più di un anno, perché distrutta dalle formiche. Il primo giorno che po­nemmo le nostre casse nella capanna, vennero subito investite dalle formiche e se non fosse una continua diligenza in noi che distruggiamo le loro case fabbricate entro il legno, esse a quest'ora ci avrebbero divorato le casse. Basta che vi dica che in tutte le pianure dei Kich, per lo spazio di più di 400 miglia vi sono monticelli di terra, della grandezza della camera ove voi dormite, formati da formiche, e ve ne sono centinaia di migliaia e più, perché uno ogni 10 passi.

Quanto a questa tribù, vi dirò che è sommamente paurosa, indolente, bizzarra; le sue pianure hanno un terreno feracissimo, e potrebbero in mano d'una colonia europea essere un paradiso terrestre, ma invece non produce che spine, perché gli abitanti non le colti­vano: i Kich si contentano invece di patire una fame indicibile piuttosto che lavorare. Le mandre di vacche non sono che di pochi proprietari: essi, cioè i Kich vivono solo di frutti di alberi, assai più rozzi delle nostre more. Stanno sotto questi calori i tre i quattro giorni senza mangiare, e poi si saziano di questi frutti, e di qualche ladroneggio praticato. Vedete a' quali miserie van soggetti coloro, che non vennero illuminati dalla fede. Quindi vedete sempre questa gente senza far nulla colla sua lancia in mano.

Qui v'è poi una quantità di ragni e scorpioni. Anzi il giorno che morì D. Francesco, mi cadde dal tetto uno scorpione, e mi diè una solenne beccata nel dito. Io presi la lancetta, feci un taglio nel luogo ove fui beccato dallo scorpione, vi apposi l'ammoniaca, ed in dieci minuti guarii. Vi devo ancora dire, che a me che piace tanto il latte, non son capace di mangiarne che qualche rara volta, perché tante migliaia di vacche, che son qui, appena appena possono dare il latte alle loro vitelle, che stanno alla poppa un anno e mezzo. La causa io dico esser questa: la scarsezza dell'erba: sono tutte spine; e di queste si nutrono le vacche.

E' una cosa stupenda qui nel Centro dell'Africa i temporali e le bufere. Sono tanto terribili i temporali che si formano tutto in un colpo, che atterrano alle volte capanne, alberi etc. Così pure compariscono nell'aria dei vortici di polvere fatti a cilindro, che girano rapidamente. Ma basta. Caro Padre; pregate il Signore per me, e per noi; Dio vi benedirà certo. Sapete che il Signore non premia se non coloro che sono suoi servi. Voi lo siete, perché avete abbracciata la sua Croce. Abbracciatela, stringetevela al seno, baciatela, che è il più prezioso tesoro. Del resto state allegro, tranquillo, divertitevi. Anzi voglio assolutamente che continuiate a suonare, perché quando io ritorno a Verona, se non muoio, voglio sentirvi a suonare.

Furono cinque le febbri da me superate, le quali, a dire il vero, mi furono poco care: ma sia fatta la volontà di Dio. Vi avverto poi a star allegro, quantunque forse dovrò star molto tempo senza poter mandarvi lettere per mancanza di occasione. Forse la troverò, se qualche barca nubiana verrà da queste parti: ma potrebbe darsi di no. Dunque faccia il Signore; io leggo sempre le vostre lettere scritte fin dal principio per sollevare lo spirito; voi leggete le passate mie, e così sarà come se presentemente le riceveste.

Godo moltissimo che abbiate provato gran gioia per essere io stato a visitare la terra Santa. Oh! anch'io, caro Padre, l'ho sempre in mente quella terra di misteri, e col mio pensiero passeggio sempre in quei luoghi; e specialmente ora, che è la settimana Santa, io ha dinanzi allo spirito il luogo di tutti i misteri della Passione di Gesù Cristo.

Basta che vi dica che non si possono esprimere a parole i sentimenti che si provano nel calcare quella terra santificata dalla presenza adorabile del Redentore! Ma basta caro Padre. Addio! State sempre allegro, pensate a me, che io penso sempre a voi, ed al vostro bel sacrifizio. Leggete le lettere che vi spedisco, e poi sigillatele e speditele al loro destino. Per non [.......] gravarvi la spesa della posta, molte lettere le ho spedite a Verona, da dove vi capiteranno.

Le spedii alla Sig.ra Rosina Faccioli in Sartori in Cittadella in Verona, che può pagare, e paga volentieri. Il resto a voi, e mi dispiace che sorte un plico troppo grosso. Ma sia fatta la volontà di Dio. Addio, carissimo Padre; salutatemi tutti i Parenti, gli amici; riveritemi il Consigliere, l'Economo Spirituale etc. etc. e mentre a tutti e due io do la santa benedizione, vi do anche mille baci di amore

 

Vostro affez.mo figlio

D. Daniele Comboni

Miss.o Apost.co nell'Africa Centrale

NB. Vi partecipo che noi tre stiamo egregiamente bene di salute, e speriamo d'esserlo in avvenire perché già cominciarono le piogge. Finora non avete veduto vostro figlio che come semplice viaggiatore; in avvenire lo vedrete missionario, e vi darà continue notizie della nostra missione. Addio.