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 1. al card. Alessandro Barnabo'

 Cairo, 12 marzo 1868

E.mo Principe,

 

Parendomi che Dio nella sua infinita misericordia si degni di spargere la sua benedizione sull'Opera testé iniziata per la Rigenerazione della Nigrizia in base al mio Piano, trovo conveniente di porgere all'E. V. R.ma un breve ragguaglio sull'andamento e sulle speranze dei suoi primordi.

Sul cadere del passato novembre io lasciava Marsiglia con tre Missionari, tre Suore di S. Giuseppe, e sedici morette, in tutti N° 23 persone. Ottenuto dal Pascià d'Alessandria il passaggio gratuito sulle strade ferrate egiziane, arrivammo felicemente al Cairo la vigilia dell'Imm.ta Concezione. Nel compiere questa numerosa spedizione che avea seco N° 46 colli di bagagli e provvigioni, il Governo francese mi recò il risparmio di Scudi 2168, e il Governo egiziano di 324: in tutto N° 2492 Scudi.

Ho preso a pigione per N° 336 Scudi all'anno il Convento dei Maroniti a Cairo Vecchio che ha annessa una casa antica, a cento passi dalla grotta della B. V. M., ove è tradizione che abbia dimorato la S. Famiglia durante il suo esilio in Egitto. Nelle due case che divide una Chiesa abbastanza comoda ho aperto ed iniziato due piccoli Istituti, che camminano per grazia di Dio assai bene. I missionari si occupano della direzione soprattutto spirituale dei due incominciati stabilimenti, dello studio delle lingue africane e  dei costumi d'oriente, e dell'esercizio della carità verso gli infermi. Attese le attuali vertenze abbastanza complicate di alcuni corpi morali, che forse riuscirà a comporre il sagace nostro Monsig. Delegato, ho stabilito che la nostra azione non esca mai dalla sfera dei nostri intendimenti.

Il nostro scopo è marcatissimo: l'apostolato della razza negra. L'Istituto femminile si va sviluppando egregiamente; e per opera di alcune fra le morette, che sono vere Figlie di Carità, si è già fatta qualche conquista pel cielo. E' noto all'E. V. R.ma come lo scopo principale di questi nostri Istituti è di allevare ed istruire nella fede e nelle arti dei moretti e delle morette, perché ad educazione compiuta s'internino nei paesi della Nigrizia per essere apostoli di fede e civiltà ai loro connazionali.

A questo fine primario sembra che la Provvidenza voglia annettervi uno scopo accessorio di non lieve importanza, cioè la conversione di buon numero di anime. L'esistenza di due Corpi di Negri al Cairo educati nella fede e nella civiltà cristiana, è un importante elemento di apostolato a favore dei negri acattolici dimoranti in Egitto. Dal solo vedere le nostre buone morette, dal solo conversare con esse o sentirle cantare, molte altre ancora infedeli s'invogliarono a quest'ora di farsi cattoliche.

E siccome è d'uopo procedere con grande cautela e prudenza, attese le suscettibilità del fanatismo musulmano, e la vigilanza della Framassoneria che guidata da tre logge è riuscita a spargere in questa capitale il suo pestifero veleno tra ogni classe e razza di persone in odio alla nostra santa religione, ci è d'uopo studiare e cogliere il momento provvidenziale per ammettere le aspiranti alla comunione cattolica.

Frattanto pel momento io sono d'avviso che non ci riuscirà gran fatto difficile di guadagnare a G. C. molti di quei negri, che in qualità di schiavi o di servi dimorano nelle case dei buoni cattolici, ove è naturale che una volta convertiti sia più facile che perseverino nella fede. Nel metter mano a quest'operazione importantissima, ho rilevato con piena certezza essere quivi ancora costume, che la servitù anche nelle famiglie cristianissime è per poco abbandonata a se stessa: l'interessarsi di lei è stimata cosa umiliante; e ad eccezione di qualche famiglia singolare tra le poche, vige tuttavia il lagrimevole abuso di trascurare l'istruzione religiosa dei neri, che appunto perché non hanno che un abbozzo miserabile di religione sarebbero i più atti a ricevere la Fede.

Avviene invece sovente che essi abbiano la sventura di capitare sotto il dispotismo di qualche vecchia servente fanatica musulmana, la quale facilmente impone loro le proprie superstizioni, senza che i padroni se ne dieno gran fatto pensiero. Noi conosciamo alcuni di questi schiavi divenuti per tal guisa maomettani nella casa stessa dei loro eminentemente d'altronde cattolici padroni. In seguito a queste osservazioni ci sorride la speranza che si aprirà forse un bel campo all'azione secondaria degli Istituti dei negri; in conferma di che mi permetto di accennare all'E. V. R. la recente conquista di una negra diciottenne, che è come il primo fiore, che il nostro Stabilimento è santamente felice di aver dato alla Chiesa e al Paradiso.

Giunse in Cairo cinque anni fa una robusta giovanetta negra per nome Mahbuba rapita con molte altre dalla disumana avidità dei Giallabi alla tribù dei Denka. Colui che il solo possiede il gran segreto di trarre dal male il bene, fin d'allora calcolava sull'Opera di questo nostro femminile Istituto africano, affine di predestinare ad una eterna felicità la povera Mahhbuba quando appunto allo sguardo umano parea divenuta sopra la terra una delle più infelici creature. Dopo essere stata venduta e rivenduta più volte a padroni musul­mani, Dio disponeva che ella venisse comperata da una pia signora greca cattolica di Cairo, da cui apprese la prima volta a sillabare quei cari nome di Gesù e di Maria, nei quali ci è dato unicamente di sperare salvezza.

E' a dire che lo Sp. S. prendesse egli fin d'allora ad operare in quest'anima, mentre ella apparve ben tosto invaghita di qualche informe idea del cristianesimo, che così quasi a caso veniva esponendole la sua padrona: e ciò d'altronde non era bastante a crearle quella fortezza che ebbe tosto a dimostrare nella lotta che sostenne contro le tentazioni fanatiche dell'Islamismo. Passò qualche tempo, e Mahabuba cadde inferma di un morbo, che lentamente degenerò in una tisi. Ciò contribuì a ricadere più immediatamente in preda ai musulmani, che impresero con maggior vigore ad informarla e farle praticare i falsi dogmi. Dio però vegliava sopra quest'anima. Ella non sapeva dalla sua padrona che qualche nome isolato della nostra Fede: eppure ella comprese da sé che alla santità di questa non corrispondeva per nulla l'istruzione che riceveva dal resto della servitù musulmana; e quindi non poté mai accondiscendere e dirsi paga dei loro insegnamenti; ma nessuno gliene dava di migliori, ed essa era mesta e sconsolata.

I suoi maestri cominciarono ad indispettirne, presero a trattarla duramente, a minacciarla e percuoterla: ed al ricorrere di qualche osservanza del Corano, la costringevano a compirne con loro gli atti. Benché il morbo inesorabile della consunzione fossesi già in lei manifestato, pure al sopravvenire del Ramadan essa dovea serbare fino al tramonto del sole il digiuno naturale. La infelice Mahbuba sentiva il gran vuoto del Dio della verità: l'anima sua senza saperlo sospirava a lui incessantemente, e a quando a quando metteva nella sua lingua le poche parole che avea apprese dalla padrona "Gesù, Maria, cristiana, battesimo, paradiso etc.": quantunque ignorasse i divini oggetti che adombravano, pure in ripeterle provava una sensibile consolazione. Come può ben credersi, tali espressioni erano tante spine per coloro che la volevano musulmana ad ogni costo: pensarono pertanto che isolandola affatto, l'avrebbero finita di vincere. Ciò non era punto difficile, dacché la tisi da cui essa era affetta, è un morbo che in oriente estremamente si teme quasi come una specie di peste: sotto questo riguardo essi persuasero la padrona a rimetterla in una sua villa, dove Mahbuba si trovò in balia di nuovi carnefici musulmani già officiati a dovere dai primi.

Col pretesto di guarirla a mezzo di certi loro prestigi, ma infatti per accelerarle la morte prima che potesse divenire cristiana, accendevano dei gran fuochi e l'obbligavano a starvi dappresso delle ore; e a quando a quando la seppellivano sotto mucchi di sabbia infuocata per buona parte della giornata. Così in poco tempo Mahbuba fu ridotta agli estremi: allora i suoi nemici poterono col medesimo pretesto della tisi ottener dalla padrona di trasferirla nell'Ospitale turco. Esultavano essi dell'infernale trionfo; ma Iddio appunto allora li voleva confusi; e però dispose che la signora greca venisse a sapere in quei dì del recentemente fondato nostro Istituto di negre. La sua coscienza, che non poteva essere e non era tranquilla, la determinò a farmi tosto richiedere di accettarla.

Il medesimo giorno in cui mi fu fatto parola, io la visitai all'ospital turco, e la padrona me l'ebbe poi spedita. Mahbuba era delle nostre. L'anima sua parea travedesse la sorte che Dio le serbava in mezzo a noi: al vedere le morette, che le ho messe al fianco per istruirla ed assisterla, farsi il segno della croce, e portare la medaglia ricevuta dal S. Padre, anch'io, disse, anch'io voglio essere come voi cristiana. Siccome essa era della tribù dei Denka, le ho posta fra le altre una moretta denka; e in pochi giorni ebbe a ripetermi in arabo ed in dincaico linguaggio i misteri principali delle fede e i sacramenti. Mahbuba beveva con avidità la scienza della sua eterna salute; non trovava la minima difficoltà nel credere, e ripeteva ad ogni tratto colle sue compagne sorelle i dogmi della nostra religione.

Conosciuto l'amabile obbietto che racchiudevasi nei santi nomi di Gesù e di Maria e di Giuseppe, non si finiva di baciarne le venerate immagini, e di domandare a loro ed a noi il santo battesimo: laonde consultati gli altri compagni, ho deciso di non differire tal grazia oltre la sera dell'11 febbraio. Erano le 9  di sera, e la stanza di Mahbuba apparve illuminata dalle faci dell'altarino che le morette avevano improvvisato. Quando io ho indossato le sacerdotali divise, tutti si prostrarono in divote preghiere. La giovane comprese ch'era giunto il sospirato momento, e lo salutò con un straordinario sorriso di gioia, che noi riscontrammo nel suo volto, ne' suoi occhi, nelle sue labbra. Era una commozione, una tenerezza il vederla concentrata e raccolta accompagnare la nostra preghiera.

Quando sentì scorrersi sul capo l'acqua della rigenerazione, il suo volto era straordinariamente lieto, e con un senso di gioia grande esclamò: ana Maryam: io sono Maria, che un tal nome difatti volemmo imporle per consacrare alla Madre Divina dell'Opera nostra quel primo fiore della medesima. In breve: la giovane soffrì dolori da martire: ma quanto è potente la operazione della grazia! Ella volea soffrire di più, e trovava un conforto indicibile nel baciare il crocifisso; ai 14 febbraio ella volò in paradiso a pregare per la conversione dei negri.

S. Ecc. Monsig.r Delegato ap.lico ci tratta con ispeciale bontà, ci ha fatto l'onore di venire a trovarci: egli verrà ancora dopo S. Giuseppe a tenervi alcune cresime nella parrocchia di Cairo vecchio, ove è un pio e buon francescano parroco, col quale mi son messo nella debita intelligenza rapporto al battesimo della felice Mahbuba.

Io non ho parole sufficienti per ringraziare l'E. V. R.ma della paterna assistenza che mi prestò nella terribile vertenza che io m'ebbi a Roma con Mons. V. G. Dopo Dio devo all'E. V. la buona riuscita di quell'affaraccio, che spero colla grazia di Dio non me ne toccheranno altri di simil genere.

Baciandole la sacra porpora, mi dichiaro dell'E. V. R.ma

 

um.o e dev.o ed osseq.

D. Daniele Comboni