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GESÙ DI NAZARETH PER IL XXI SECOLO

di José Arregui (tratto da Adista, 17 novembre 2010)

GESÙ DI NAZARETH PER IL XXI SECOLO
di José Arregui


Intendo sottolineare alcuni elementi centrali del messaggio e della prassi di Gesù, a partire da una convinzione profonda: rappresentano un’alternativa per il mondo in cui viviamo e per il futuro che vogliamo ricostruire. J. Moltmann ha scritto: “Chi crede nel vangelo sperimenta le forze del mondo futuro ed entra nella primavera della nuova creazione. (...)”. (...).

1. Imparare ad essere buoni e felici
Se dovessi restare con un’unica parola del vangelo, rinunciando a tutte le altre, sceglierei questa: “Beati!”. Con questa parola Gesù ha inaugurato e riassunto tutto il suo messaggio. Ardeva in lui la fiamma di tutti i profeti, salì al monte come Mosè in altri tempi, ma, invece degli antichi dieci comandamenti scritti in tavole di pietra, proclamò ai quattri venti otto allegri decreti: “Felici voi!”.
Annunciò la beatitudine ai poveri, agli infermi, ai perseguitati e a tutti i derelitti: “Beati voi, non perché siete poveri, ma perché smetterete di esserlo. Beati voi, non perché piangete, ma perché invece del pianto vi giungerà la gioia. Beati voi, non perché siete perseguitati, ma perché è vicina la vostra liberazione. Dio vi libererà. Liberatevi dalla miseria gli uni con gli altri, perché Dio vi liberi. Siate felici, perché anche Dio sia felice. È tempo di essere felici”.
Così parlò Gesù dalla cima del monte, e con questa parola riassunse quanto aveva da dire: “Beati!”. Cosa sono i quattro vangeli e tutto il Nuovo Testamento se non un’eco prolungata di questa parola? Sapete quante volte appare nel NT la parola “beato”? 50 volte. Avrebbe dovuto farci capire cos’è che è più importante per Dio, cos’è l’essenziale nel cristianesimo, cosa dovrebbe essere l’aspetto principale per la Chiesa. La felicità è la forza inarrestabile che sospinge il mondo. (...). La felicità è il sogno primo e il comandamento supremo di Dio per tutti gli esseri. Sii, dunque felice!
Ci siamo molto allontanati da questo messaggio centrale del NT. Ci siamo molto allontanati dal nostro stesso cuore. Tutto indica che abbiamo totalmente invertito la logica della beatitudine che è la logica di Gesù. Sembra come che abbiamo seppellito, seppellito e affogato, la logica della felicità di Gesù sotto le pesanti tavole della morale, sotto dogmi incomprensibili, sotto rigide istituzioni. Sentiamo parlare di altre cose, di leggi e di accuse, molto più che di felicità: difesa dell’insegnamento della religione cattolica a scuola, critica del matrimonio omosessuale, denuncia della legge sull’aborto... Le cose di sempre.
“Beati!”. Le beatitudini sono il nucleo del vangelo, e dovremmo farne il lievito della vita, della società, della Chiesa, del mondo, energia trasformatrice capace di rendere tutto buono e felice. (...). Non è questa la legge della vita? Non è questa la legge di Dio? Cos’è che può renderci felici se non la bontà? E cosa può farci buoni se non la felicità?
Non ti renderanno buono delle leggi di pietra, né delle dottrine fatte di concetti. La felicità, nient’altro, ti farà buono. La felicità ti renderà umile e mite, misericordioso e pacifico. La felicità farà di te il consolatore di chi piange e ti darà vera fame e sete di giustizia. Quanto più sarai felice, tanto più sarai mite e misericordioso e dispensatore di felicità. E anche quando arriveranno la tribolazione e la persecuzione – ed è sicuro che arriveranno –, la felicità ti manterrà sano e in piedi, saldo nella bontà malgrado tutto.
E cos’è che ci renderà felici? (...). L’umiltà, non la grandezza né l’arroganza. La misericordia nei confronti di chi piange, non l’indifferenza, non la severità. Il desiderio di pace, non l’odio, non la forza, non la violenza.
Le due cose insieme, dunque. E puoi cominciare dal lato che vuoi, poiché in fondo sono una cosa sola. Inutilmente ti impegnerai ad essere buono senza essere felice e anche ad essere felice senza essere buono. Invano ci impegneremo ad essere buoni a forza di leggi morali e di dogmi religiosi, e, ugualmente, ad essere felici a forza di avere, di sapere, di potere. (...).

2. Resistere e immaginare un altro mondo

Nella buona notizia di Gesù non mancano detti che suonano come cattiva notizia: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). Si direbbe che Gesù stia fomentando la violenza di strada. E non solo quella, ma anche il conflitto familiare: “D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (vv. 52-53). E non solo violenza di strada e conflitto familiare, ma addirittura la guerra universale: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10,34).
Forse ci costa immaginare che Gesù parli in questo modo. Ma Gesù parlò anche così, non esiste il minimo dubbio. (...).
Gesù era buono, sì, ma anche passionale. Era tenero, sì, ma anche sovversivo. Era poeta, sì, ma anche profeta. (...). Annunciò una rivoluzione, chiamò a una rivoluzione. Non certamente prendendo le armi, né appiccando il fuoco, né sterminando i romani e i potenti oppressori. Ma, certamente, Gesù annunciò un’autentica “rivoluzione dei valori” e la promosse.
Era convinto che, al pari degli antichi profeti, doveva dar fuoco alla società, all’economia, alla religione del suo tempo, e così fece. Ruppe con la famiglia e le sue strutture patriarcali, intraprese una vita itinerante con uomini e donne insieme, cosa insolita e scandalosa; fece sì che la donna non si limitasse ad ascoltare, ma fosse anche soggetto, soggetto profetico, cosa ugualmente scandalosa che la Chiesa ha dimenticato molto presto e che giace dimenticata nel fondo dei primi secoli. Sovvertì tutte le convenzioni sociali, trasgredì le sacre leggi della religione, denunciò tutti i poteri sociali, si scontrò con tutti i poteri religiosi. Portò il fuoco. E, come è facile comprendere, quel suo fuoco provocò un altro fuoco distruttore che presto lo divorò: il potere del denaro, dell’impero e della religione bruciarono Gesù. Ma la brace di Gesù non si è spenta.
E oggi? Resta ancora accesa in noi la brace di Gesù? Dove arde la sua fiamma nella nostra società? Dove che fa luce la sua torcia nella nostra Chiesa? L’impressione è che la maggior parte di noi viva soddisfatta e comoda con ciò che ha, in una società conformista, docile e sottomessa agli ordini del sistema economico vigente nel mondo.
Inaspettatamente, la crisi economica ha fatto crollare tutto il sistema, ma, invece di inventarne un altro, continuiamo a impegnarci a salvare lo stesso modello, facendo pagare i piatti rotti a quelli di sempre. Le banche e gli speculatori ci hanno venduto senza pietà e, quando sono caduti in rovina, ci hanno obbligato a comprarli. Siamo corsi a soccorrere quanti ci avevano gettato a fondo e continuiamo così, e, più di chiunque altro, le società cosiddette cristiane stanno sostenendo il vecchio modello. Dove sono la resistenza e l’immaginazione? Dov’è il fuoco sovversivo di Gesù, la vampata che ha voluto suscitare nella società, nel pianeta, nella Chiesa?
Difficilmente posso immaginare Gesù in questa società come un cittadino docile, un servo sottomesso. Sicuro che tornerebbe a rischiare con passione a favore di un’altra realtà. Sicuro che anche oggi, se tornasse, appiccherebbe il fuoco. Sicuro che provocherebbe conflitti nella nostra società, non diciamo nella nostra Chiesa, e che alcuni lo etichetterebbero come idealista illuso, altri come provocatore insolente, altri ancora come pericoloso eretico. E sicuro che la paura del fuoco di Gesù tornerebbe a provocare anche oggi un incendio distruttore, che finirebbe presto o tardi per bruciarlo.
Il fuoco di Gesù non vuole distruggere e consumare nessuno, ma trasformare tutti con la sua luce e il suo calore. Il fuoco della buona notizia vuole illuminare l’oscurità, curare l’infermo. Dio è buona notizia per tutti e ci vuole tutti come commensali nel banchetto delle sue nozze. Senza esclusi. Senza sconfitti. Vuole che tutti siano commensali, cominciando dagli ultimi, dai perdenti della società e di tutte le religioni.

3. Curare ferite come il buon samaritano

Gesù è stato guaritore. Se volete, fisioterapeuta, e, se volete, psicoterapeuta. O, se volete, sciamano. Le sue guarigioni furono considerate dagli uni miracoli e dagli altri magia. Se volete, chiamatele trasmissione di energia positiva. Non erano miracoli nel senso della rottura delle leggi naturali, perché questi miracoli non esistono. Ma la guarigione, invece, esiste. E Gesù guariva. Gli spiriti tormentati si avvicinavano a lui e si sentivano consolati. I corpi colpiti da mali che erano, e continuano ad essere sempre, fisici e psichici allo stesso tempo si sentivano alleggeriti. Cosa c’era in Gesù che guariva? Gesù guariva “toccando e raccontando”, avvicinandosi ai proscritti e dicendo loro belle parabole liberatrici. Gesù curava con il suo sguardo, con la sua parola, con la sua accoglienza cordiale. Gesù curava infondendo coraggio, restituendo la fiducia, trasmettendo pace, restaurando l’autostima di coloro che erano disprezzati dagli altri e da se stessi.
È questo. Essere cristiani non consiste nel credere in dogmi, né nel credere che Dio esiste e neppure nel rispettare i dieci comandamenti senza macchia dal primo all’ultimo. Essere cristiani è seguire Gesù, e seguire Gesù è fondamentalmente curare il prossimo come il buon samaritano della parabola.
Curare l’infermo e amare Dio non sono cose differenti. Non è diverso curare con compassione, provvedere al ferito sul ciglio della strada e amare Dio con tutto il cuore. Perché cos’altro è Dio se non l’infinita compassione nei confronti di tutti gli esseri feriti? E a che serve la Chiesa se non per essere immagine della compassione vicina e guaritrice di Dio? (...).
Essere o non essere il buon samaritano: questo è il problema. E dobbiamo confessarlo: noi che ci definiamo credenti, che frequentiamo le chiese, che costituiamo la Chiesa cristiana non siamo in questo meglio degli altri. Quante persone che non vengono alle nostre liturgie sono un esempio, come il samaritano per il sacerdote e per il levita nella parabola di Gesù!

4. Al di là del castigo e del perdono

Questa logica e questo primato della guarigione Gesù li applica a una dimensione fondamentale della vita che le religioni, in particolare il cristianesimo, hanno gestito in chiave di colpa e perdono. È stata davvero questa la chiave di Gesù?
Una volta che passava di lì Gesù vide Matteo seduto al banco delle imposte e gli disse: “Vieni con noi”. Matteo era un esattore delle tasse per l’odiata Roma. Era, pertanto, ladro d’ufficio. E Gesù lo chiama. Matteo non ci può credere: “Io? Sul serio io? Per caso non intendi formare un nuovo movimento di liberazione degli ebrei? Perché vuoi me? Io non sono che un povero ladro; i cittadini per bene e i tuoi stessi discepoli mi guardano con disprezzo”. “È uguale – gli dice Gesù –. Vieni con noi anche tu. Abbiamo un bel sogno da sognare insieme. Dobbiamo sognare insieme e insieme trasformare in realtà la vera liberazione del nostro popolo e di tutti i popoli”. Matteo si sentì come se gli fosse caduto un gran peso dalle spalle, come se gli fossero spuntate le ali. Lasciò il tavolo delle imposte e, pieno di consolazione, andò a sognare con Gesù.
Si sentiva così felice che gli si allargò il cuore, il cuore e la borsa e la mensa. E offrì in casa sua una cena aperta a chiunque volesse: non c’erano etichette, non c’erano divieti, non c’erano condizioni (...).
È chiaro che il sogno di Gesù non piaceva a tutti. Cominciarono immediatamente a mormorare quei giusti che si consideravano tali: “Ma come, giusti e peccatori mescolati alla stessa tavola?” Ardevano d’ira gli scribi e le autorità religiose: “È intollerabile! Questo nazareno oltrepassa tutti i limiti della legge. Chi condivide la mensa con peccatori diventa lui stesso peccatore. E la legge di Dio lo dice chiaramente: il peccatore è peccatore e il giusto è giusto. L’innocente è innocente, e il colpevole è colpevole. E al colpevole restano due opzioni: il pentimento o il castigo”. Tale era il discorso dei maestri della religione e dei giusti. Continua ad essere questo il discorso del moralista arrabbiato, la logica della religione senza consolazione.
E che dice Gesù? Non ha bisogno di grandi discorsi, risponde con una semplice frase: “Non hanno bisogno di medico i sani, ma i malati”. I maestri della legge e i farisei parlano di “peccato”; Gesù parla di “sani” e “malati”, parla di medici. È un’altra religione. La maggior parte di noi ha assorbito fin nel midollo il discorso della legge e del peccato. Ci hanno detto e noi ripetiamo: “Il peccato è colpa, e la colpa merita il castigo o richiede alcune condizioni perché si ottenga il perdono”. E abbiamo inventato il timore di Dio, e abbiamo messo sacerdoti e confessioni per ottenere il perdono dei peccati. Ma non è questa la prospettiva di Gesù. A Gesù non importa chi è innocente e chi è colpevole. A Gesù non importa il peccato, ma l’infermità. Non importa il perdono, ma la salute. La questione non è chi è colpevole, ma chi è ferito e come curarlo, e come farci del bene e guarirci gli uni con gli altri.
(...) Lasciamo, allora, il registro della colpa, del peccato, del castigo. Sediamoci alla mensa di Matteo e di Gesù, per curare ferite proprie e altrui, per mangiare e sognare insieme allegramente. Apriamo il cuore alla consolazione, la porta al prossimo. Conficchiamo nelle viscere delle istituzioni religiose e politiche il principio consolatore e rivoluzionario di Gesù: “Preferisco la misericordia alla legge e al castigo”. (...).

5. Liberarci dalle nostre paure
Gesù lo dice ripetutamente nel vangelo: “Non temere!”. Ed è quanto anche noi dovremmo ripetutamente ascoltare e annunciare. Abbiamo troppe paure. C’è troppa paura nel nostro mondo e in questa società nostra di qui. Ha troppa paura la Chiesa.
Naturalmente, la paura non è un male in sé, se è in una giusta dose. (...). Abbiamo paura perché siamo esseri vivi e sensibili. La paura è un sistema che protegge l’essere vivente e mortale. Se non avessimo mai avuto alcuna paura dalla nostra nascita, saremmo morti da parecchio tempo. Dobbiamo ringraziare per il fatto di conoscere la paura.
Ma spesso, troppo spesso, è la stessa paura che diventa il pericolo maggiore. La paura ci porta a vederci in pericolo in ogni parte e in ogni momento. Spesso fa sì che si sollevino davanti a noi neri fantasmi senza fondamento. E ci spinge ad erigere muri e baluardi, a rinchiuderci in noi stessi, a vedere nemici ovunque, a difendere noi stessi costi quel che costi, ad essere nemici. La paura aumenta il numero di nemici e, di conseguenza, aumenta le minacce. È così che va il nostro mondo. Per pura paura, abbiamo costruito sistemi di sicurezza più sicuri che mai e viviamo in un mondo più insicuro che mai. (...). Anche nella Chiesa di oggi il maggior pericolo è la paura.
Se Gesù fosse tra noi – e realmente lo è – a ciascuno di noi direbbe – e realmente lo dice – come ai suoi discepoli: “Non temere!”. Lo Spirito di Dio sta costruendo un futuro nuovo, e la vita che ora è nascosta si manifesterà, si dispiegherà. Non abbiate paura del futuro, non abbiate paura della vita, non abbiate paura della cultura moderna né della cultura postmoderna, non abbiate paura neppure dei poteri che castigano e perseguitano e uccidono. Il bene è più forte, ponetevi dalla sua parte. Lo Spirito è più forte, e respira in voi. In tutti i pericoli, in tutte le limitazioni, anche in tutti i dolori, Dio è con voi. Non temete.

6. Dio è solo grazia

Dio è. Dio è grazia. Dio è solo grazia.
Gesù non ha parlato molto di Dio. Noi ne parliamo troppo. Gesù parlava del Regno di Dio: non tanto del fatto che Dio esiste e che bisogna credere in lui e neppure di cosa è Dio, quanto di quello che Dio fa. Gesù parlava della presenza buona e benefica di Dio. Dio è vicino, ed è solo bontà. Dio non è una cattiva notizia. Neppure è una notizia al tempo stesso buona e cattiva. “Solo bene, sommo bene, bene totale”, direbbe Francesco d’Assisi. (...).
Ma che succede allora con la Bibbia, piena di paura di Dio? Troviamo in essa un’infinità di affermazioni su terribili vendette e castighi di Dio. Nella Bibbia troviamo di tutto, tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento. I testi ci parlano ininterrottamente del castigo di Dio, perché li hanno scritti esseri umani, e gli esseri umani non possono parlare di Dio se non a partire dall’esperienza umana. E l’ira, la vendetta, il castigo sono esperienze umane, o se si vuole antiumane; sono le esperienze umane più oscure. Ma queste esperienze non sono l’esperienza di Dio, perché in Dio non possono esistere. (...).
La bontà e la beatitudine, non la paura e il castigo, potranno renderci radicalmente buoni. Così ha creduto Gesù, e così lo ha proclamato nella sinagoga di Nazareth, annunciando l’anno di grazia di Dio, l’anno che nasce e dura eternamente, l’eternità della grazia che Dio è, la bontà smisurata che curerà tutte le ferite e renderà buoni tutti i malfattori. Nella sinagoga di Nazareth, Gesù cancellò il castigo dall’immagine di Dio, lasciando solamente la grazia, la grazia universalmente trasformatrice, la bontà onnipotente che annuncia la buona notizia ai poveri, la vista ai ciechi e l’amnistia a tutti i carcerati.

7. Trascendere ogni confessionalismo

La fama di guaritore di Gesù si estese rapidamente, e più di uno prese ad imitare Gesù, tentando di espellere “demoni o spiriti maligni”, cioè di sciogliere gli oscuri e aggrovigliati nodi dell’anima e del corpo che legano i poveri esseri umani.
In un’occasione, alcuni discepoli di Gesù si incontrarono con uno di questi apprendisti guaritori e provarono gelosia. E Giovanni Zebedeo disse a Gesù: “Non è dei nostri. Non ha il diritto di usare il tuo nome per espellere demoni”. Sono così le nostre povere gelosie, le nostre povere invidie. È triste che ci faccia male il bene altrui; è un autentico male dei nostri occhi il fatto che non siamo capaci di vedere e di godere del bene degli altri.
Esistono anche gelosie collettive, come ci rivelano le parole di Giovanni il Zebedeo: “Non è dei nostri – dice a Gesù –, e non ha il diritto di servirsi del tuo nome come talismano per curare chicchessia. Non è dei nostri, e non dovrebbe possedere il potere di liberare nessuno. Tu lo hai concesso solamente a noi e solamente noi possediamo il potere e la facoltà di ricorrere al tuo nome per curare, per sciogliere i nodi, per rendere libere e felici le persone. Non è dei nostri: devi impedirgli di guarire in tuo nome”.
Nello stesso gruppo di Gesù ci troviamo di fronte, dunque, alla gelosia collettiva. Questa disgraziata frontiera tra “noi e loro” che appare in tutti i gruppi. (...).
E la gelosia collettiva diventa ancora più meschina e pericolosa quando viene giustificata in nome di Dio, della religione, del vangelo. Ed è quello che fa Giovanni, pur essendo apostolo e forse proprio per questo. Noi contro gli altri: noi abbiamo la verità, gli altri sbagliano; a noi ce lo ha rivelato Dio, agli altri no, almeno non tanto come a noi; noi siamo stati scelti da Dio, gli altri no, almeno non nella stessa misura. Nei discorsi di certi uomini di Chiesa si ascolta spesso, per esempio: “(...) L’etica senza la religione non ha fondamento, e un’etica senza fondamento presto degenera. Se il nostro mondo è tanto degenerato è perché si è allontanato dalla religione. Solo la religione può salvare l’etica, l’umanesimo, il futuro del mondo. Solo noi lo possiamo salvare. Noi siamo la vera religione”.
Così diciamo spesso. Ma credo che il vangelo rompa tutti questi schemi e tutte queste frontiere: quelli che hanno Dio e quelli che non lo hanno, i credenti e i non credenti. E credo che il mondo di oggi, cosiddetto non credente, non sia peggio del mondo di ieri, cosiddetto credente. Credo che, nel corso della storia, la più grande barbarie sia stata commessa in nome di Dio e della fede. Credo che siano i Paesi e i governi che si definiscono cristiani quelli che hanno trascinato il mondo nella situazione insostenibile in cui ci troviamo. Credo che, 50 anni fa, la nostra società sia diventata non credente nonostante abbia studiato religione a scuola, o forse proprio per averla studiata.
E credo che anche oggi Gesù ci direbbe: “Non impediteglielo”. Non negate a nessuno il sacro diritto, la divina e santa facoltà di essere buono e di fare il bene. Non obbligate nessuno a usare il nome di Dio alla vostra maniera, non proibite a nessuno di utilizzarlo in modo diverso da voi. Rallegratevi del bene che fanno gli altri, anche se non sono dei vostri. E sappiatelo: Dio non è presente quando pronunciate il suo nome, ma quando vi curate e quando curate gli altri. Dove c’è la bontà, lì è Dio, con qualunque nome e anche senza nome alcuno”.

8. Inventare un nuovo linguaggio
O una nuova teologia. Difficilmente possiamo annunciare la buona notizia con un linguaggio superato. E risulta che il nostro linguaggio sia di gran lunga superato. Le nostre immagini di Dio, le nostre preghiere, i nostri dogmi, tutta la nostra teologia sono diventati terribilmente superati.
Non dico che ciò che vi era prima non andasse bene, ma semplicemente che oggi non vale più. Non dico che noi siamo i primi credenti moderni, ma se non attualizziamo il nostro linguaggio e le nostre istituzioni, nessuno ci capirà, e non sarà una buona notizia per nessuno. Neppure dico che la nuova teologia sarà per sempre – come potrebbe esserlo? –: i credenti del futuro avranno il loro compito, come noi il nostro.
Gesù non si è limitato a ripetere, ma ha innovato profondamente. “È scritto questo o quello – diceva ai suoi perplessi ascoltatori –, ma io vi dico quest’altro. Finora avete sentito questo o quello, ma io vi dico quest’altro”. (...).
Manuel Guerra Campos, fratello del vescovo franchista di Cuenca, ha scritto: “La Chiesa è malata. (...). Si è addormentata nella Storia. Impegnata a racchiudere la fede in formule che erano valide per altri tempi, vuole che gli uomini e le donne di oggi credano a qualsiasi cosa”. E dà un consiglio ai vescovi: “Che prendano il libro in cui fondano in maniera vincolante il proprio lavoro, il Catechismo della Chiesa cattolica; che gli diano un rispettoso bacio e lo chiudano nel tabernacolo di una cappella abbandonata; e dopo gettino la chiave (...). Di seguito, senza avere il tempo di pentirsi, che facciano esercizi spirituali in qualcuno dei molti monasteri che conoscono (...)…, e cerchino di formulare la Buona Notizia con parole e concetti adeguati alla cultura in cui viviamo” (Confesiones de un creyente no crédulo).
(...). Immaginiamo che una persona educata lontano dalle nostre istituzioni religiose vada un giorno a messa per mera curiosità. Cosa penserebbe? Me lo chiedo spesso: cosa penserebbe sentendo quello che si ascolta a messa?
Non smettiamo, per esempio, di riconoscerci peccatori e di chiedere perdono, come se ci trovassimo di fronte a un Signore Supremo, onnipotente e severo, come se dubitassimo che ci perdonerà. Non è questo, no. Dio non ci guarda mai come colpevoli, ma guarda pieno di compassione come soffriamo e ci provochiamo sofferenza. Dio non ha nulla da perdonarci. Non ha nulla da perdonarti. Dio è pura compassione e ti protegge con il suo sguardo tenero. E solo una cosa vuole da te, come Gesù da Zaccheo: “Non restare lì sopra, così lontano – ti dice –, nel castello delle tue ferite e delle tue catene. Scendi, aprimi le porte della tua casa, invitami alla tua mensa, e viviamo la gioia insieme”.
Oppure, per tutta la messa non facciamo che chiedere:  chiedere misericordia, chiedere perdono, chiedere salute, chiedere pane, chiedere pace, chiedere per gli uni e per gli altri, chiedere e supplicare che ci ascolti. Che penserebbe qualcuno che viene da fuori? Forse Dio ha bisogno che gli si chieda? Forse sono le nostre richieste a fargli dare qualcosa che altrimenti non darebbe? Forse Dio è un signore capriccioso che concede quello che vuole solo quando vuole e solo a chi vuole?
Perché allora chiedere? Dovremmo chiedere, in caso, solo di prendere coscienza della nostra necessità. O, meglio, di esprimere la nostra fiducia. O, ancor meglio, di imparare a ricevere. O,  forse ancora meglio, a dare, a noi stessi e agli altri, tutto quello che chiediamo a Dio. Sì, è questo che dobbiamo chiedere a Dio, se vogliamo chiedere: di prendere coscienza della nostra necessità, di esprimere la nostra fiducia e di imparare ad accogliere quello che Dio ci sta dando ininterrottamente, e, insomma, di essere portatori di Dio, di essere Dio. Se non è per questo, la nostra preghiera di petizione è pura magia, un modo maldestro di ottenere cose da un Dio indegno di fede.
E, a dire il vero, credo vi sia molta magia e goffaggine nelle nostre preghiere. E credo che, se Gesù ci insegnasse oggi, ci insegnerebbe a pregare senza chiedere nulla. (...).
Alla fine, credo che Gesù ci insegnerebbe ad essere per noi e per il mondo pane e consolazione di Dio, ad essere per noi stessi e per il prossimo portatori di Dio e ad essere Dio stesso, e ad aiutare Dio a essere.

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