Essere cristiani in una società plurale e laica
di José Maria Castillo
ESSERE CRISTIANI
IN UNA SOCIETÀ PLURALE E LAICA
di José María Castillo
Introduzione: la radice del problema
Per cominciare, andiamo direttamente al cuore del problema. A mio
giudizio, tale problema si può (e credo si debba) porre in questi
termini: la condizione necessaria e indispensabile per poter
comprendere il cristianesimo è che questo si possa vivere e
praticare non nella (o a partire dalla) sfera religiosa, non nel (o
a partire dal) sacro, ma nel (e a partire dal) profano, nella (o a
partire dalla) laicità.
Ebbene, oggi ci rendiamo conto che, in questo momento, siamo
nelle condizioni di affermare che Gesù è stato un uomo
profondamente religioso (per la sua costante relazione con il Padre
del cielo e per la sua intensa vita di preghiera), ma al tempo
stesso un laico, che ha vissuto e presentato la sua religiosità
entrando in conflitto con la religione (con la Legge, con il Tempio
e con i Sacerdoti). E sappiamo che quel conflitto ha finito per
essere mortale, nel senso più letterale della parola. Gesù, in
effetti, è stato perseguitato, giudicato, condannato e assassinato
dalla Religione. Pertanto (...) ci si pongono due problemi di grande
portata, a cui molti cristiani non pensano: la grande difficoltà a
comprendere Cristo e la gravità del problema religioso e cristiano
che stiamo vivendo.
1. La nostra comprensione di Cristo. Se Gesù è vissuto
come sappiamo ed è morto per quello che sappiamo, abbiamo il
diritto e il dovere di chiederci come sia possibile, a partire dalla
Religione, comprendere un uomo (Gesù) che è stato rifiutato e
assassinato dalla Religione. E pertanto come possiamo, a partire
dalla nostra identificazione con la Religione, vivere e praticare un
progetto e un messaggio respinto così brutalmente dalla Religione.
A questo riguardo, è importante tenere conto del fatto che, quando
parliamo della nostra identificazione con la Religione, ci riferiamo
prima di tutto a un fatto culturale e sociologico: siamo nati e
siamo stati educati in una cultura religiosa e in una società
segnata dalla Religione. (...).
2. Il problema religioso-cristiano che stiamo vivendo.
La Religione è rappresentata ed è gestita, nella nostra società,
da un’istituzione, che è la Chiesa. (...). In questo momento, il
problema è che il cristianesimo sta uscendo dalla Chiesa. Il
cristianesimo è vissuto nella società laica, tollerante, plurale,
difensora dei diritti e della dignità delle persone. La religione
resta nella Chiesa, nella sua sacralità, nella sua dignità, nei
suoi poteri e privilegi. Ma ora comprendiamo, meglio che mai, che a
partire dalla religione, dal potere della religione, dalla dignità
del sacro, non è possibile né comprendere né vivere il
cristianesimo, il messaggio di un uomo (Gesù) che, insisto, è
stato perseguitato dalla religione, condannato dalla religione,
assassinato dalla religione (...).
II. Il cristianesimo “ufficiale” nella società attuale
1. Il cristianesimo come Religione
Per quello che ci riferiscono i vangeli, possiamo affermare con certezza che Gesù non pensò di fondare una Chiesa. Né pensò di fondare una nuova Religione. Gesù fu un e-breo che si rese conto come la Religione non fosse quello che vuole Dio né quello di cui il mondo ha bisogno. (...). Mi riferisco alla Religione come Gesù poté vederla e viverla nel suo popolo e nel suo tempo. Mi riferisco, cioè, a una Religione monoteista e pertanto escludente; nazionalista; centrata su tre pilastri fondamentali: la legge, il tempio, i sacerdoti. Naturalmente, Gesù si relazionò con il Padre del cielo e parlò del Padre del cielo. Ma non parlò mai di un Padre “escludente” nei confronti di popoli con altre fedi o appartenenti ad altre culture. E neppure di un Padre “nazionalista”, cioè pensato per un popolo (...). E nemmeno di un Padre legato all’osservanza della Legge depositata nel Tempio e i cui mediatori sono i funzionari del “sacro”, i Sacerdoti, mediante cerimonie, sacrifici, riti e osservanze. Nulla di questo appare in alcun punto del Nuovo Testamento. Ed è curioso che aspetti così fondamentali per la mentalità ecclesiastica attuale non compaiano in alcun modo negli scritti o documenti fondativi del cristianesimo. Piuttosto, si afferma, insistentemente, l’esatto contrario:
1) Il Padre di Gesù non esclude i peccatori, i pubblicani, i samaritani, il centurione romano, la donna siro-fenicia, gli stranieri, i prigionieri, gli indemoniati, i pagani; di più, si tratta di un Padre che tratta tutti allo stesso modo, come fanno il sole e la pioggia con i buoni e con i cattivi, con i giusti e con i peccatori. (...).
2) Il Padre di Gesù non tollera i nazionalisti fanatici, come risulta evidente nell’episodio della visita di Gesù a Nazareth (Lc 4, 14-30). Qui, leggendo il passaggio di Isaia 61, 1-2, Gesù parla del Dio che libera i prigionieri e gli oppressi, ma sopprime l’allusione al “giorno di vendetta per il nostro Dio”, riferita alla vittoria di Israele sui pagani. E perché la questione fosse completamente chiara, Gesù, nel notare come tutti gli si rivoltassero contro, insiste nella sua posizione ricordando i casi di Elia e di Eliseo, che avevano entrambi anteposto persone straniere a bisognosi israeliti. E sappiamo che la reazione dei nazionalisti era stata così forte che avevano cercato di uccidere Gesù seduta stante.
3) La religione di Gesù non si basa sui tre pilastri fondamentali propri di non poche religioni e concretamente della religione del suo tempo:
a) La legge: Gesù dice di non essere venuto ad
abolirla, ma a condurla alla sua “pienezza” (Mt 5, 17). Gesù ha
collocato questa “pienezza” in due direzioni contrapposte: una
linea maggiormente esigente e una linea di maggiore liberazione. Ha
imposto una legge più esigente in ciò che riguarda le relazioni
umane: non solo non uccidere, ma non insultare (Mt 5, 21-22); non
solo non commettere adulterio, ma non desiderare ciò che è di
altri (Mt 5, 27-28; nessuna disuguaglianza di diritti tra l’uomo e
la donna; Mt 5, 31-32; 19, 1-12 par); non solo non giurare, ma
ritenere sufficiente la parola umana (Mt 5, 33-37); non solo
rifiutare la legge del taglione, ma vivere una generosità senza
limiti (Mt 5, 38-42); non solo non odiare il nemico, ma amare tutti
senza distinzioni (Mt 5, 43-48). In definitiva, per Gesù, la
pienezza della legge è l’amore (Mt 7, 12; cf. Rom 13, 10). Al
contrario, nella linea di maggiore liberazione, Gesù ha violato
insistentemente le norme religiose relative all’osservanza del
sabato (Mc 2, 23-27; 3, 1-6 par), del digiuno (Mc 2, 18-22 par),
delle purificazioni rituali (Mc 7, 1-7), dei divieti alimentari (Mc
7, 14-19).
b) Il tempio. In base a quanto raccontano i vangeli,
Gesù non frequentò mai il tempio per partecipare alle cerimonie
sacre, ai sacrifici e al culto rituale stabilito; quando Gesù è
nel tempio, è per parlare alla gente, giacché quello era il luogo
delle maggiori concentrazioni umane in Israele; d’altra parte,
sappiamo che Gesù disse alla samaritana che era giunta l’ora in
cui i veri adoratori avrebbero adorato Dio non in un tempio ma “in
spirito e verità” (Gv 4, 21-24). Ma, soprattutto, l’aspetto più
forte nella vita di Gesù è dato dalla sua azione violenta contro
il tempio, definito una “spelonca di ladri” (Mt 21, 13 par):
fatto scandaloso determinante, ai fini della condanna a morte, nel
processo religioso (Mt 26, 61 par) e rinfacciato a Gesù da chi lo
scherniva dinanzi alla croce (Mt 27, 40 par); peraltro, Gesù aveva
annunciato la totale e definitiva distruzione e rovina del tempio
(Mt 24, 1-2 par). Decisamente, il Dio di Gesù non sta nel tempio,
ma nelle relazioni umane e, soprattutto, nel comportamento di
ciascuno con quanti soffrono (Mt 25, 31-46).
c) I sacerdoti. La relazione di Gesù con essi, da
quello che ci dicono i vangeli, fu, più che di distanza, di chiaro
e durissimo scontro: con i “semplici sacerdoti”, come sappiamo
dalla parabola del buon samaritano (Lc 10, 31), e soprattutto con i
“sommi sacerdoti” che, quando appaiono nei vangeli e negli Atti,
non sono mai presentati come rappresentanti di Dio, ma sempre come
agenti di sofferenza e di morte (Mc 8, 31 par; 10, 33 par),
specialmente nella condanna a morte (Gv 11, 47-53) e nel racconto
della passione.
Conclusione: decisamente, la religiosità di Gesù non si limita,
né si identifica con il “sacro”. Al contrario, è nella
“laicità” che si fa presente e si realizza, in ciò che è
comune a tutti gli esseri umani (...).
2. Il cristianesimo come Religione dell’Occidente
(...) Il Vangelo ha iniziato ad essere così la fusione del messaggio di Gesù con i due grandi lasciti della cultura greco-romana: la filosofia ellenista e il diritto romano. (...). Le conseguenze non sono facili da analizzare. In ogni caso, devo richiamare l’attenzione sui fatti che mi sembrano di speciale rilevanza per la Chiesa e per la vita cristiana:
1) Un pensiero determinato più dalla metafisica che dalla
storia, cioè più preoccupato per l’“essere” che per
l’“accade-re” (B. Welte). Per questo alla Chiesa e alla sua
teologia interessa di più, per esempio, sapere chi è Dio o Gesù,
piuttosto che tener presente quello che avviene quando Dio è
presente o quando è Gesù a guidare la nostra vita. Ciò ha avuto
enormi conseguenze, per esempio, sul dogma cristologico. E, ancor
prima, sullo stesso “Credo” della Chiesa.
2) Un diritto ecclesiastico in cui il diritto romano ha lasciato
il segno in questioni di enorme importanza, come l’idea e la
prassi del potere e dell’autorità. Un’idea che, come è intesa
e messa in pratica nella Chiesa, non si fonda sul Vangelo ma sul
diritto romano.
La conclusione è chiara: il cristianesimo “ufficiale” e la
Chiesa istituzionale rappresentano un fatto globale non adattato
alla società e alla cultura attuali. (...).
III. Cristianesimo, laicità e pluralismo
Come ho già detto, il Vangelo è il grande racconto di un
conflitto (...) che si è aggravato fino a diventare mortale. E che
è stato concretamente il conflitto tra Gesù e la Religione. Ciò è
quanto evidenziano i quattro vangeli.
Sappiamo, senza dubbio, che la morte violenta di Gesù è stata
condizionata da motivi politici (...). Ma non ci sono dubbi che la
decisione di uccidere Gesù e la pressione esercitata per
crocifiggerlo sono venute dai dirigenti religiosi, convinti che
quanto Gesù trasmetteva fosse incompatibile con ciò che essi
rappresentavano. Il racconto di Gv 11, 47-53 ha, in questo senso, un
valore storico decisivo, perché descrive il momento in cui si vide
con estrema chiarezza come fosse necessario e urgente prendere una
decisione: o per il progetto di Gesù o per il progetto dei
sacerdoti. Quello che qui si è delineato crudamente è, cioè,
questo dilemma: o il Vangelo o la Religione.
Ma, prima di proseguire, conviene fare due avvertimenti:
2) Non si deve dare a questo scontro un’interpretazione anti-ebraica (...). La Chiesa, la sua teologia e la sua liturgia hanno offerto questa “interpretazione antisemita” del conflitto e della morte di Gesù. Ma diciamo apertamente che questa interpretazione è nata da una convenienza: alla Chiesa conveniva (e conviene) attribuire la responsabilità agli ebrei perché non era (e non è) disposta ad accettare di aver trasformato il Vangelo in Religione. La Chiesa sta meglio con la Religione che con il Vangelo. Perché il Vangelo è una “memoria pericolosa”, mentre la Religione è una “pratica privilegiata”. Detto in maniera più chiara, il Vangelo conduce la Chiesa a situazioni di conflitto, come è avvenuto a Gesù, mentre la Religione pone i suoi dirigenti in posizioni di privilegio, di potere, di dignità e di sicurezza.
Per comprendere il significato e la portata di questo scontro e
di questa incompatibilità tra il Vangelo e la Religione, è
necessario analizzare, almeno sommariamente, due cose: quello che
rappresenta la Religione come insieme di mediazioni attraverso cui
l’essere umano intende relazionarsi con Dio e come il
cristianesimo intende e si rappresenta Dio.
1. Le mediazioni della Religione
Qui parliamo concretamente di tre aspetti fondamentali nella comprensione e nella pratica della Religione.
1) La Legge. Per l’“uomo religioso”, la Legge
divina è la volontà di Dio, e più ancora la rivelazione trasmessa
da Dio ai suoi fedeli. (...). A partire da questi presupposti, la
Legge si assolutizza. Vale a dire che si costituisce in assoluto,
anteponendosi a qualunque altra cosa (...). La conseguenza
inevitabile è che l’umano resta sempre subordinato al divino.
Fino all’estremo di provocare sofferenza, emarginazione,
e-sclusione e persino morte allo scopo di garantire la superiorità
del divino sull’umano. Stando così le cose, il conflitto di Dio
con l’uomo è assicurato. E anche, è logico, la violenza della
Religione, che diventa motivo determinante di conflitti, divisioni,
scontri, guerre e morte.
2) Il Tempio. Si intenda come hieros (“sacro”)
o come naos (“santuario”, luogo in cui abita la
divinità), presuppone sempre lo spazio sacro, contrapposto allo
spazio profano. La realtà viene così divisa e separata. Da una
parte, il luogo “in cui c’è Dio” e, pertanto, “in cui si
incontra Dio”. È il luogo del rispetto, della riverenza, della
dignità, del privilegio. E, dall’altra, lo spazio profano, laico,
non-religioso, in cui la gente vive e convive, lavora, gioisce e
soffre, si stanca e si riposa, si ama e si odia, produce ecc. Se il
Tempio è il luogo di Dio, la strada, la casa, il campo, la città
sono il luogo della vita (...). Le conseguenze sono due: a) (...)
l’incontro con Dio e l’incontro con gli esseri umani sono
separati, collocati in ambiti diversi, e spesso non hanno a che
vedere l’uno con l’altro; b) i templi offrono una
rappresentazione di Dio in termini di grandezza, maestà, potere,
solennità che poco ha a che vedere con quello che vive l’immensa
maggioranza dei mortali (...).
3) I Sacerdoti: allo stesso modo in cui il Tempio è lo
“spazio sacro”, i sacerdoti sono gli “uomini consacrati”.
Pertanto, uomini “separati”, e quindi privilegiati. Uomini
dotati di un potere e di una dignità che non sono alla portata
degli altri. Così, i fedeli cristiani restano - come avviene per lo
spazio - divisi in due blocchi: gli “ordinati” da una parte, la
“plebe” dall’altra. Chierici e laici. (...). E sappiamo bene
che, quando in una società si introduce questa divisione tra
cittadini, il conflitto è servito.
2. Il Dio del Vangelo
Si comprende allora (...) come san Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi, parli, a proposito di Gesù crocifisso, della “follia (morós) di Dio” e della “debolezza (asthenés) di Dio” (1 Cor 1, 25), che evidentemente non è il Dio “onnipotente” (pantokrátor) che confessiamo nel Credo, secondo la nota formula del Concilio di Nicea. Un Dio “debole” e “folle” non ha posto nel nostro sistema culturale, né nella nostra scala di valori, né nella più elementare delle nostre convinzioni religiose. Per la semplice ragione che parlare in questo modo di Dio, secondo i criteri che conformano una Religione, qualunque essa sia, non è solo la maggiore mancanza di rispetto in cui possiamo incorrere, ma qualcosa di ben più radicale, che equivale a negare Dio e a prendersi gioco della Religione.
Per questo, la maggiore difficoltà che incontrano i cristiani per comprendere il cristianesimo è sicuramente la Religione. (...). Noi abbiamo familiarità con l’immagine del Cristo crocifisso. Di più (...), di fronte al Gesù crocifisso, si destano i sentimenti più nobili e profondi: rispetto, ammirazione, devozione, pietà, generosità, speranza. E tutto questo, naturalmente, è perfettamente comprensibile. Ma lo è perché ci è sempre stato detto che un crocifisso è un’“immagine religiosa”, quando, in realtà, Gesù appeso ad una croce, fuori dalle porte della “città santa”, storicamente è qualcosa che non ha assolutamente nulla a che vedere con la Religione. Di più, se i sommi sacerdoti hanno messo tanto impegno sul fatto che non bastasse ucciderlo, ma che fosse necessario crocifiggerlo (Gv 19, 6. 15-16; Mt 27, 22-26 par), ciò è accaduto perché i sacerdoti vedevano che il rifiuto più radicale che la Religione poteva esprimere nei confronti del Vangelo si realizzava proprio appendendo Gesù a una croce. Non abbiamo compreso la croce perché non abbiamo compreso il Vangelo. Che, in ultima analisi, significa che quello che non abbiamo compreso è il Dio del Vangelo, il Padre di Gesù. 11, 26), ha avuto l’audacia di proclamare la sua fede in un “Dio crocifisso”. Come è logico, in una cultura in cui la morte in croce era il “
(Fil 2, 6-7). La parola greca
Il che ci porta direttamente e inevitabilmente alla conclusione che segue: Dio ha rinunciato a ogni grandezza, a ogni maestà, a ogni espressione di potere. (...). Il Dio kenotico che si è fatto conoscere nel Cristo kenotico ci viene a dire che incontriamo Dio solo nel kenotico: nella forma di vita di chi si svuota di ogni pretesa di grandezza, di maestà o di potere e dominazione.
Conclusione: tutto ciò non è masochismo, è umanità. Il
kenotico è semplicemente l’umano. Ciò che accomuna tutti gli
esseri umani, cioè la laicità. Da cui risulta che il Dio di Gesù,
il Dio del cristianesimo, lo incontriamo, prima di tutto e al di
sopra di tutto, nella laicità: nella società laica, nello Stato
laico, nelle istituzioni laiche. Perché questo modello di società,
di Stato, di istituzioni non ci separa, non ci divide, non ci pone
gli uni contro gli altri, ma riconosce a tutti la stessa dignità,
gli stessi diritti, ponendoci nella stessa categoria. La categoria
uscita dalle mani di Dio, la categoria umana. Non le “altre
categorie” inventate dagli uomini: le categorie culturali,
religiose, sociali, politiche e tutte le maledette categorie che
abbiamo estratto dal cilindro, per imporci gli uni sugli altri o,
che è più grave, per scontrarci gli uni con gli altri.
(...) È evidente che, se prendiamo sul serio la teologia dei
vangeli e di Paolo, il Dio kenotico non può essere presentato e
rappresentato a partire dal clamore, dal lusso, dalla grandiosità e
dal potere con cui il clero pretende “rappresentare” e “rendere
presente” il Dio di Gesù nel mondo. Non stiamo parlando di una
questione marginale. Dicendo questo, stiamo andando al cuore del
problema.
IV. Come vivere il cristianesimo
Mi limito ad alcune proposte conclusive. Tra le altre, si possono presentare le seguenti:
1. Promuovere e alimentare il rispetto e la tolleranza come
atteggiamenti fondamentali nella vita (...). Il rispetto è lasciar
vivere. Lasciare che ciascuno sia quello che è e come è. (...). E
lottando, in ogni caso, contro il fanatismo, la cui essenza
consiste, come si è detto bene, “nel desiderio di obbligare gli
altri a cambiare” (Samuel Oz). Non dimentichiamo che “fanatismo”
e “fanatico” vengono dal latino fanum, che, nella
religione romana antica, era il “luogo sacro”. (...). Così,
l’etimologia ci insegna che l’intolleranza e il fanatismo hanno
la loro spiegazione ultima nella Religione. (...). Ciò ci porta a
scoprire l’urgente necessità di lavorare per una società laica e
per una convivenza laica. Ma, soprattutto, ci rende consapevoli che
solo nella laicità e a partire dalla laicità è possibile vivere
il cristianesimo. (...).
2. La spiritualità dei diritti umani. Nel dire questo, non nego
l’importanza delle spiritualità tradizionali. (...). Ma dico che
(...) la Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 è il progetto di
spiritualità più urgente ed esigente che possiamo assumere in
questo momento. Ciò vuol dire che la spiritualità cristiana si
basa sul progetto fondamentale che consiste nel favorire ed esigere,
prima dei doveri, i diritti delle persone. (...). Le religioni
parlano con frequenza e insistenza del-l’ideale dell’amore e
della carità. Ma come si può parlare seriamente di amore laddove
non si rispettano i diritti fondamentali delle persone che diciamo
di amare? Solo quando accetteremo e metteremo in pratica il rispetto
per l’uguaglianza e la dignità di tutti gli esseri umani allo
stesso modo, potremo iniziare a parlare di amore. Tutto il resto è
parola vuota e menzogna pura e semplice.
3. Mostrare e spiegare il nostro disaccordo nei confronti dei
privilegi di cui gode la Chiesa cattolica in Spagna. Di più, non si
tratta solo di un disaccordo, ma soprattutto di una protesta. Perché
pensiamo che gli accordi tra Stato e Chiesa del 1979 non si adeguano
ai postulati di base della Costituzione spagnola. (...). Ma, al di
là degli aspetti legali (e fondamentali), è evidente che non
possiamo concordare con la dottrina della “sana laicità” difesa
da Benedetto XVI dal-l’inizio del suo pontificato e formulata con
chiarezza nel suo primo discorso dinanzi al presidente della
Repubblica Italiana, il 24 giugno 2005. Il pensiero del pontefice si
basa sul criterio secondo cui i principi etici “trovano il loro
ultimo fondamento nella religione”. Perché “l’autonomia della
sfera temporale non esclude un’intima armonia con le esigenze
superiori e complesse che derivano da una visione in-tegrale
dell’uomo e del suo destino eterno” (L’Osservatore Romano,
25.VI.05, p. 5). Considerando che “i principi etici” abbracciano
la vita intera, il papa afferma che tutta la vita (pubblica e
privata) ha, al di là dei doveri civici, un dovere di riferimento
(sottomissione?) alla religione. Il che, in ultima istanza, equivale
a dire che il cittadino deve sottomettersi, al di là dello Stato,
alla Chiesa. E che, al di sopra dei poteri dello Stato, vi sono i
poteri della Chiesa.