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Essere cristiani in una società plurale e laica

di José Maria Castillo

ESSERE CRISTIANI
IN UNA SOCIETÀ PLURALE E LAICA

di José María Castillo

Introduzione: la radice del problema

Per cominciare, andiamo direttamente al cuore del problema. A mio giudizio, tale problema si può (e credo si debba) porre in questi termini: la condizione necessaria e indispensabile per poter comprendere il cristianesimo è che questo si possa vivere e praticare non nella (o a partire dalla) sfera religiosa, non nel (o a partire dal) sacro, ma nel (e a partire dal) profano, nella (o a partire dalla) laicità.
Ebbene, oggi ci rendiamo conto che, in questo momento, siamo nelle condizioni di affermare che Gesù è stato un uomo profondamente religioso (per la sua costante relazione con il Padre del cielo e per la sua intensa vita di preghiera), ma al tempo stesso un laico, che ha vissuto e presentato la sua religiosità entrando in conflitto con la religione (con la Legge, con il Tempio e con i Sacerdoti). E sappiamo che quel conflitto ha finito per essere mortale, nel senso più letterale della parola. Gesù, in effetti, è stato perseguitato, giudicato, condannato e assassinato dalla Religione. Pertanto (...) ci si pongono due problemi di grande portata, a cui molti cristiani non pensano: la grande difficoltà a comprendere Cristo e la gravità del problema religioso e cristiano che stiamo vivendo.

1. La nostra comprensione di Cristo. Se Gesù è vissuto come sappiamo ed è morto per quello che sappiamo, abbiamo il diritto e il dovere di chiederci come sia possibile, a partire dalla Religione, comprendere un uomo (Gesù) che è stato rifiutato e assassinato dalla Religione. E pertanto come possiamo, a partire dalla nostra identificazione con la Religione, vivere e praticare un progetto e un messaggio respinto così brutalmente dalla Religione. A questo riguardo, è importante tenere conto del fatto che, quando parliamo della nostra identificazione con la Religione, ci riferiamo prima di tutto a un fatto culturale e sociologico: siamo nati e siamo stati educati in una cultura religiosa e in una società segnata dalla Religione. (...).
2. Il problema religioso-cristiano che stiamo vivendo. La Religione è rappresentata ed è gestita, nella nostra società, da un’istituzione, che è la Chiesa. (...). In questo momento, il problema è che il cristianesimo sta uscendo dalla Chiesa. Il cristianesimo è vissuto nella società laica, tollerante, plurale, difensora dei diritti e della dignità delle persone. La religione resta nella Chiesa, nella sua sacralità, nella sua dignità, nei suoi poteri e privilegi. Ma ora comprendiamo, meglio che mai, che a partire dalla religione, dal potere della religione, dalla dignità del sacro, non è possibile né comprendere né vivere il cristianesimo, il messaggio di un uomo (Gesù) che, insisto, è stato perseguitato dalla religione, condannato dalla religione, assassinato dalla religione (...).

II. Il cristianesimo “ufficiale” nella società attuale

Il messaggio e la vita di Gesù sono stati storicamente gestiti e controllati dalla Chiesa. Cioè, la “memoria sovversiva” (J. B. Metz) di Gesù è stata conservata da un’istituzione (la Chiesa) che, con il passare degli anni e per virtù di un lento processo, ha finito per costituirsi in una Religione che è, di fatto, la Religione dell’Occidente. (...).

1. Il cristianesimo come Religione

Per quello che ci riferiscono i vangeli, possiamo affermare con certezza che Gesù non pensò di fondare una Chiesa. Né pensò di fondare una nuova Religione. Gesù fu un e-breo che si rese conto come la Religione non fosse quello che vuole Dio né quello di cui il mondo ha bisogno. (...). Mi riferisco alla Religione come Gesù poté vederla e viverla nel suo popolo e nel suo tempo. Mi riferisco, cioè, a una Religione monoteista e pertanto escludente; nazionalista; centrata su tre pilastri fondamentali: la legge, il tempio, i sacerdoti. Naturalmente, Gesù si relazionò con il Padre del cielo e parlò del Padre del cielo. Ma non parlò mai di un Padre “escludente” nei confronti di popoli con altre fedi o appartenenti ad altre culture. E neppure di un Padre “nazionalista”, cioè pensato per un popolo (...). E nemmeno di un Padre legato all’osservanza della Legge depositata nel Tempio e i cui mediatori sono i funzionari del “sacro”, i Sacerdoti, mediante cerimonie, sacrifici, riti e osservanze. Nulla di questo appare in alcun punto del Nuovo Testamento. Ed è curioso che aspetti così fondamentali per la mentalità ecclesiastica attuale non compaiano in alcun modo negli scritti o documenti fondativi del cristianesimo. Piuttosto, si afferma, insistentemente, l’esatto contrario:

1) Il Padre di Gesù non esclude i peccatori, i pubblicani, i samaritani, il centurione romano, la donna siro-fenicia, gli stranieri, i prigionieri, gli indemoniati, i pagani; di più, si tratta di un Padre che tratta tutti allo stesso modo, come fanno il sole e la pioggia con i buoni e con i cattivi, con i giusti e con i peccatori. (...).

2) Il Padre di Gesù non tollera i nazionalisti fanatici, come risulta evidente nell’episodio della visita di Gesù a Nazareth (Lc 4, 14-30). Qui, leggendo il passaggio di Isaia 61, 1-2, Gesù parla del Dio che libera i prigionieri e gli oppressi, ma sopprime l’allusione al “giorno di vendetta per il nostro Dio”, riferita alla vittoria di Israele sui pagani. E perché la questione fosse completamente chiara, Gesù, nel notare come tutti gli si rivoltassero contro, insiste nella sua posizione ricordando i casi di Elia e di Eliseo, che avevano entrambi anteposto persone straniere a bisognosi israeliti. E sappiamo che la reazione dei nazionalisti era stata così forte che avevano cercato di uccidere Gesù seduta stante.

3) La religione di Gesù non si basa sui tre pilastri fondamentali propri di non poche religioni e concretamente della religione del suo tempo:

a) La legge: Gesù dice di non essere venuto ad abolirla, ma a condurla alla sua “pienezza” (Mt 5, 17). Gesù ha collocato questa “pienezza” in due direzioni contrapposte: una linea maggiormente esigente e una linea di maggiore liberazione. Ha imposto una legge più esigente in ciò che riguarda le relazioni umane: non solo non uccidere, ma non insultare (Mt 5, 21-22); non solo non commettere adulterio, ma non desiderare ciò che è di altri (Mt 5, 27-28; nessuna disuguaglianza di diritti tra l’uomo e la donna; Mt 5, 31-32; 19, 1-12 par); non solo non giurare, ma ritenere sufficiente la parola umana (Mt 5, 33-37); non solo rifiutare la legge del taglione, ma vivere una generosità senza limiti (Mt 5, 38-42); non solo non odiare il nemico, ma amare tutti senza distinzioni (Mt 5, 43-48). In definitiva, per Gesù, la pienezza della legge è l’amore (Mt 7, 12; cf. Rom 13, 10). Al contrario, nella linea di maggiore liberazione, Gesù ha violato insistentemente le norme religiose relative all’osservanza del sabato (Mc 2, 23-27; 3, 1-6 par), del digiuno (Mc 2, 18-22 par), delle purificazioni rituali (Mc 7, 1-7), dei divieti alimentari (Mc 7, 14-19).
b) Il tempio. In base a quanto raccontano i vangeli, Gesù non frequentò mai il tempio per partecipare alle cerimonie sacre, ai sacrifici e al culto rituale stabilito; quando Gesù è nel tempio, è per parlare alla gente, giacché quello era il luogo delle maggiori concentrazioni umane in Israele; d’altra parte, sappiamo che Gesù disse alla samaritana che era giunta l’ora in cui i veri adoratori avrebbero adorato Dio non in un tempio ma “in spirito e verità” (Gv 4, 21-24). Ma, soprattutto, l’aspetto più forte nella vita di Gesù è dato dalla sua azione violenta contro il tempio, definito una “spelonca di ladri” (Mt 21, 13 par): fatto scandaloso determinante, ai fini della condanna a morte, nel processo religioso (Mt 26, 61 par) e rinfacciato a Gesù da chi lo scherniva dinanzi alla croce (Mt 27, 40 par); peraltro, Gesù aveva annunciato la totale e definitiva distruzione e rovina del tempio (Mt 24, 1-2 par). Decisamente, il Dio di Gesù non sta nel tempio, ma nelle relazioni umane e, soprattutto, nel comportamento di ciascuno con quanti soffrono (Mt 25, 31-46).
c) I sacerdoti. La relazione di Gesù con essi, da quello che ci dicono i vangeli, fu, più che di distanza, di chiaro e durissimo scontro: con i “semplici sacerdoti”, come sappiamo dalla parabola del buon samaritano (Lc 10, 31), e soprattutto con i “sommi sacerdoti” che, quando appaiono nei vangeli e negli Atti, non sono mai presentati come rappresentanti di Dio, ma sempre come agenti di sofferenza e di morte (Mc 8, 31 par; 10, 33 par), specialmente nella condanna a morte (Gv 11, 47-53) e nel racconto della passione.

Conclusione: decisamente, la religiosità di Gesù non si limita, né si identifica con il “sacro”. Al contrario, è nella “laicità” che si fa presente e si realizza, in ciò che è comune a tutti gli esseri umani (...).

2. Il cristianesimo come Religione dell’Occidente

Per ragioni storiche, a tutti note, il cristianesimo non si è diffuso per l’Asia, ma si è inserito nelle culture mediterranee, ponendo il proprio centro al centro dell’Impero, a Roma. (...). La conseguenza, inevitabile e logica, è stata che il cristianesimo giunto fino a noi non è solo il “ricordo” di Gesù e “lo stile di vita che ci ha portato Gesù”, ma anche l’eredità di una cultura: la cultura greco-romana che ha configurato l’Impero.
(...) Il Vangelo ha iniziato ad essere così la fusione del messaggio di Gesù con i due grandi lasciti della cultura greco-romana: la filosofia ellenista e il diritto romano. (...). Le conseguenze non sono facili da analizzare. In ogni caso, devo richiamare l’attenzione sui fatti che mi sembrano di speciale rilevanza per la Chiesa e per la vita cristiana:

1) Un pensiero determinato più dalla metafisica che dalla storia, cioè più preoccupato per l’“essere” che per l’“accade-re” (B. Welte). Per questo alla Chiesa e alla sua teologia interessa di più, per esempio, sapere chi è Dio o Gesù, piuttosto che tener presente quello che avviene quando Dio è presente o quando è Gesù a guidare la nostra vita. Ciò ha avuto enormi conseguenze, per esempio, sul dogma cristologico. E, ancor prima, sullo stesso “Credo” della Chiesa.
2) Un diritto ecclesiastico in cui il diritto romano ha lasciato il segno in questioni di enorme importanza, come l’idea e la prassi del potere e dell’autorità. Un’idea che, come è intesa e messa in pratica nella Chiesa, non si fonda sul Vangelo ma sul diritto romano.

La conclusione è chiara: il cristianesimo “ufficiale” e la Chiesa istituzionale rappresentano un fatto globale non adattato alla società e alla cultura attuali. (...).

III. Cristianesimo, laicità e pluralismo

Come ho già detto, il Vangelo è il grande racconto di un conflitto (...) che si è aggravato fino a diventare mortale. E che è stato concretamente il conflitto tra Gesù e la Religione. Ciò è quanto evidenziano i quattro vangeli.
Sappiamo, senza dubbio, che la morte violenta di Gesù è stata condizionata da motivi politici (...). Ma non ci sono dubbi che la decisione di uccidere Gesù e la pressione esercitata per crocifiggerlo sono venute dai dirigenti religiosi, convinti che quanto Gesù trasmetteva fosse incompatibile con ciò che essi rappresentavano. Il racconto di Gv 11, 47-53 ha, in questo senso, un valore storico decisivo, perché descrive il momento in cui si vide con estrema chiarezza come fosse necessario e urgente prendere una decisione: o per il progetto di Gesù o per il progetto dei sacerdoti. Quello che qui si è delineato crudamente è, cioè, questo dilemma: o il Vangelo o la Religione.
Ma, prima di proseguire, conviene fare due avvertimenti:

1) Non si deve dare a questo scontro un’interpretazione di tipo morale, nel senso di spiegarlo con la malvagità dei dirigenti religiosi opposta alla bontà di Gesù. Analizzando le cause del conflitto, si nota come molti dei dirigenti religiosi dovessero essere uomini di buona volontà. Ma quello che Gesù respinge non è la cattiva volontà, bensì i fatti che fanno sì che ci si comporti male e si usino argomenti per giustificare il proprio cattivo comportamento. Una cosa che avviene frequentemente in non pochi ambienti religiosi.
2) Non si deve dare a questo scontro un’interpretazione anti-ebraica (...). La Chiesa, la sua teologia e la sua liturgia hanno offerto questa “interpretazione antisemita” del conflitto e della morte di Gesù. Ma diciamo apertamente che questa interpretazione è nata da una convenienza: alla Chiesa conveniva (e conviene) attribuire la responsabilità agli ebrei perché non era (e non è) disposta ad accettare di aver trasformato il Vangelo in Religione. La Chiesa sta meglio con la Religione che con il Vangelo. Perché il Vangelo è una “memoria pericolosa”, mentre la Religione è una “pratica privilegiata”. Detto in maniera più chiara, il Vangelo conduce la Chiesa a situazioni di conflitto, come è avvenuto a Gesù, mentre la Religione pone i suoi dirigenti in posizioni di privilegio, di potere, di dignità e di sicurezza.

Per comprendere il significato e la portata di questo scontro e di questa incompatibilità tra il Vangelo e la Religione, è necessario analizzare, almeno sommariamente, due cose: quello che rappresenta la Religione come insieme di mediazioni attraverso cui l’essere umano intende relazionarsi con Dio e come il cristianesimo intende e si rappresenta Dio.

1. Le mediazioni della Religione

Qui parliamo concretamente di tre aspetti fondamentali nella comprensione e nella pratica della Religione.

1) La Legge. Per l’“uomo religioso”, la Legge divina è la volontà di Dio, e più ancora la rivelazione trasmessa da Dio ai suoi fedeli. (...). A partire da questi presupposti, la Legge si assolutizza. Vale a dire che si costituisce in assoluto, anteponendosi a qualunque altra cosa (...). La conseguenza inevitabile è che l’umano resta sempre subordinato al divino. Fino all’estremo di provocare sofferenza, emarginazione, e-sclusione e persino morte allo scopo di garantire la superiorità del divino sull’umano. Stando così le cose, il conflitto di Dio con l’uomo è assicurato. E anche, è logico, la violenza della Religione, che diventa motivo determinante di conflitti, divisioni, scontri, guerre e morte.
2) Il Tempio. Si intenda come hieros (“sacro”) o come naos (“santuario”, luogo in cui abita la divinità), presuppone sempre lo spazio sacro, contrapposto allo spazio profano. La realtà viene così divisa e separata. Da una parte, il luogo “in cui c’è Dio” e, pertanto, “in cui si incontra Dio”. È il luogo del rispetto, della riverenza, della dignità, del privilegio. E, dall’altra, lo spazio profano, laico, non-religioso, in cui la gente vive e convive, lavora, gioisce e soffre, si stanca e si riposa, si ama e si odia, produce ecc. Se il Tempio è il luogo di Dio, la strada, la casa, il campo, la città sono il luogo della vita (...). Le conseguenze sono due: a) (...) l’incontro con Dio e l’incontro con gli esseri umani sono separati, collocati in ambiti diversi, e spesso non hanno a che vedere l’uno con l’altro; b) i templi offrono una rappresentazione di Dio in termini di grandezza, maestà, potere, solennità che poco ha a che vedere con quello che vive l’immensa maggioranza dei mortali (...).
3) I Sacerdoti: allo stesso modo in cui il Tempio è lo “spazio sacro”, i sacerdoti sono gli “uomini consacrati”. Pertanto, uomini “separati”, e quindi privilegiati. Uomini dotati di un potere e di una dignità che non sono alla portata degli altri. Così, i fedeli cristiani restano - come avviene per lo spazio - divisi in due blocchi: gli “ordinati” da una parte, la “plebe” dall’altra. Chierici e laici. (...). E sappiamo bene che, quando in una società si introduce questa divisione tra cittadini, il conflitto è servito.

2. Il Dio del Vangelo

Il cristianesimo, fin dal primo momento (prima che i seguaci di Gesù venissero chiamati “cristiani”; Attiservile supplicium” di cui parla Tacito, il tormento che strappava l’onore e la dignità del “cittadino romano”, come spiega Cicerone nella sua diatriba contro Verre (In Verrem, II, 5, 64), (...), associare la parola “Dio” alla morte, e alla morte in “croce”, rappresentava evidentemente una follia e uno scherno. Per questo non sorprende che la prima immagine di un crocifisso di cui si ha notizia è del 200 (d. C.). E che sia un’imma-gine blasfema: un graffito trovato (nel 1856) in  una dependance della servitù imperiale al Palatino di Roma, che rappresenta un uomo crocifisso con una testa di asino. Sotto c’è scritto: Alesamenos sébete theom: “Alessandro adora Dio”. Ai tempi dell’Impero, un “Dio crocifisso” era così impresentabile da poter essere rappresentato solo come un asino. Era come affermare lo stravolgimento totale della Religione.
Si comprende allora (...) come san Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi, parli, a proposito di Gesù crocifisso, della “follia (morós) di Dio” e della “debolezza (asthenés) di Dio” (1 Cor 1, 25), che evidentemente non è il Dio “onnipotente” (pantokrátor) che confessiamo nel Credo, secondo la nota formula del Concilio di Nicea. Un Dio “debole” e “folle” non ha posto nel nostro sistema culturale, né nella nostra scala di valori, né nella più elementare delle nostre convinzioni religiose. Per la semplice ragione che parlare in questo modo di Dio, secondo i criteri che conformano una Religione, qualunque essa sia, non è solo la maggiore mancanza di rispetto in cui possiamo incorrere, ma qualcosa di ben più radicale, che equivale a negare Dio e a prendersi gioco della Religione.
Per questo, la maggiore difficoltà che incontrano i cristiani per comprendere il cristianesimo è sicuramente la Religione. (...). Noi abbiamo familiarità con l’immagine del Cristo crocifisso. Di più (...), di fronte al Gesù crocifisso, si destano i sentimenti più nobili e profondi: rispetto, ammirazione, devozione, pietà, generosità, speranza. E tutto questo, naturalmente, è perfettamente comprensibile. Ma lo è perché ci è sempre stato detto che un crocifisso è un’“immagine religiosa”, quando, in realtà, Gesù appeso ad una croce, fuori dalle porte della “città santa”, storicamente è qualcosa che non ha assolutamente nulla a che vedere con la Religione. Di più, se i sommi sacerdoti hanno messo tanto impegno sul fatto che non bastasse ucciderlo, ma che fosse necessario crocifiggerlo (Gv 19, 6. 15-16; Mt 27, 22-26 par), ciò è accaduto perché i sacerdoti vedevano che il rifiuto più radicale che la Religione poteva esprimere nei confronti del Vangelo si realizzava proprio appendendo Gesù a una croce. Non abbiamo compreso la croce perché non abbiamo compreso il Vangelo. Che, in ultima analisi, significa che quello che non abbiamo compreso è il Dio del Vangelo, il Padre di Gesù. 11, 26), ha avuto l’audacia di proclamare la sua fede in un “Dio crocifisso”. Come è logico, in una cultura in cui la morte in croce era il “
Ma resta da dire la cosa più importante. Nell’inno della Lettera ai Filippesi, san Paolo dice che Gesù, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua u-guaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2, 6-7). Paolo utilizza qui la parola greca kenos, che significa “vuoto”, giacché il verbo kenoô significa “svuotare”. Paolo afferma, pertanto, che il Dio dei cristiani è un “Dio kenotico”, un Dio “svuotato di Se stesso”. Teniamo conto che, in Gesù, chi si spoglia di se stesso è Dio. Ciò non vuol dire che Dio, durante la vita terrena di Gesù, abbia smesso di essere Dio. Ciò che Paolo vuol dire è che la morphé Theoú si è trasformata in morphé douloúmorphé significa “forma” o “manifestazione visibile” (W. Pölmann). Pertanto, Paolo ci dice che il Dio che si dà a conoscere in Gesù si fa presente solo in “forma di schiavo”.
(Fil 2, 6-7). La parola greca

Il che ci porta direttamente e inevitabilmente alla conclusione che segue: Dio ha rinunciato a ogni grandezza, a ogni maestà, a ogni espressione di potere. (...). Il Dio kenotico che si è fatto conoscere nel Cristo kenotico ci viene a dire che incontriamo Dio solo nel kenotico: nella forma di vita di chi si svuota di ogni pretesa di grandezza, di maestà o di potere e dominazione.

Conclusione: tutto ciò non è masochismo, è umanità. Il kenotico è semplicemente l’umano. Ciò che accomuna tutti gli esseri umani, cioè la laicità. Da cui risulta che il Dio di Gesù, il Dio del cristianesimo, lo incontriamo, prima di tutto e al di sopra di tutto, nella laicità: nella società laica, nello Stato laico, nelle istituzioni laiche. Perché questo modello di società, di Stato, di istituzioni non ci separa, non ci divide, non ci pone gli uni contro gli altri, ma riconosce a tutti la stessa dignità, gli stessi diritti, ponendoci nella stessa categoria. La categoria uscita dalle mani di Dio, la categoria umana. Non le “altre categorie” inventate dagli uomini: le categorie culturali, religiose, sociali, politiche e tutte le maledette categorie che abbiamo estratto dal cilindro, per imporci gli uni sugli altri o, che è più grave, per scontrarci gli uni con gli altri.
(...) È evidente che, se prendiamo sul serio la teologia dei vangeli e di Paolo, il Dio kenotico non può essere presentato e rappresentato a partire dal clamore, dal lusso, dalla grandiosità e dal potere con cui il clero pretende “rappresentare” e “rendere presente” il Dio di Gesù nel mondo. Non stiamo parlando di una questione marginale. Dicendo questo, stiamo andando al cuore del problema.

IV. Come vivere il cristianesimo

Mi limito ad alcune proposte conclusive. Tra le altre, si possono presentare le seguenti:

1. Promuovere e alimentare il rispetto e la tolleranza come atteggiamenti fondamentali nella vita (...). Il rispetto è lasciar vivere. Lasciare che ciascuno sia quello che è e come è. (...). E lottando, in ogni caso, contro il fanatismo, la cui essenza consiste, come si è detto bene, “nel desiderio di obbligare gli altri a cambiare” (Samuel Oz). Non dimentichiamo che “fanatismo” e “fanatico” vengono dal latino fanum, che, nella religione romana antica, era il “luogo sacro”. (...). Così, l’etimologia ci insegna che l’intolleranza e il fanatismo hanno la loro spiegazione ultima nella Religione. (...). Ciò ci porta a scoprire l’urgente necessità di lavorare per una società laica e per una convivenza laica. Ma, soprattutto, ci rende consapevoli che solo nella laicità e a partire dalla laicità è possibile vivere il cristianesimo. (...).
2. La spiritualità dei diritti umani. Nel dire questo, non nego l’importanza delle spiritualità tradizionali. (...). Ma dico che (...) la Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 è il progetto di spiritualità più urgente ed esigente che possiamo assumere in questo momento. Ciò vuol dire che la spiritualità cristiana si basa sul progetto fondamentale che consiste nel favorire ed esigere, prima dei doveri, i diritti delle persone. (...). Le religioni parlano con frequenza e insistenza del-l’ideale dell’amore e della carità. Ma come si può parlare seriamente di amore laddove non si rispettano i diritti fondamentali delle persone che diciamo di amare? Solo quando accetteremo e metteremo in pratica il rispetto per l’uguaglianza e la dignità di tutti gli esseri umani allo stesso modo, potremo iniziare a parlare di amore. Tutto il resto è parola vuota e menzogna pura e semplice.
3. Mostrare e spiegare il nostro disaccordo nei confronti dei privilegi di cui gode la Chiesa cattolica in Spagna. Di più, non si tratta solo di un disaccordo, ma soprattutto di una protesta. Perché pensiamo che gli accordi tra Stato e Chiesa del 1979 non si adeguano ai postulati di base della Costituzione spagnola. (...). Ma, al di là degli aspetti legali (e fondamentali), è evidente che non possiamo concordare con la dottrina della “sana laicità” difesa da Benedetto XVI dal-l’inizio del suo pontificato e formulata con chiarezza nel suo primo discorso dinanzi al presidente della Repubblica Italiana, il 24 giugno 2005. Il pensiero del pontefice si basa sul criterio secondo cui i principi etici “trovano il loro ultimo fondamento nella religione”. Perché “l’autonomia della sfera temporale non esclude un’intima armonia con le esigenze superiori e complesse che derivano da una visione in-tegrale dell’uomo e del suo destino eterno” (L’Osservatore Romano, 25.VI.05, p. 5). Considerando che “i principi etici” abbracciano la vita intera, il papa afferma che tutta la vita (pubblica e privata) ha, al di là dei doveri civici, un dovere di riferimento (sottomissione?) alla religione. Il che, in ultima istanza, equivale a dire che il cittadino deve sottomettersi, al di là dello Stato, alla Chiesa. E che, al di sopra dei poteri dello Stato, vi sono i poteri della Chiesa.


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