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SI PUO' TESTIMONIARE CRISTO NEL MONDO MUSULMANO?

CHRISTIAN VAN NISPEN

di CHRISTIAN VAN NISPEN

P. Van Nispen è un gesuita che vive in Egitto. Le sue riflessioni sulla testimonianza in contesto musulmano offrono valide prospettive anche per le relazioni che siamo chiamati a vivere nel nostro paese.

Si può testimoniare Gesù Cristo in un contesto islamo-cristiano, senza polemiche, nel reciproco rispetto, con risultati positivi per la fraternità tra di noi?

In un contesto musulmano, la testimonianza cristiana sembra trovarsi di fronte a un dilemma, un vicolo cieco: un terreno, quindi, pieno di frustrazioni, malintesi e conflitti. Da una parte, il cristiano si sente interpellato dalla missione che il suo Signore gli ha affidato, Sarete miei testimoni (At 1,8). Dall’altra, avverte che il richiamo alla testimonianza evoca un’eredità secolare di polemiche dogmatiche tra cristiani e musulmani, che quasi sempre hanno inasprito i loro rapporti.
Una testimonianza cristiana nei confronti di Cristo può risultare poco accetta a gran parte dei musulmani, se si tiene presente che l’islam ritiene di possedere, nel Corano, la verità su Gesù: verità che corregge quelle che sarebbero le deviazioni dei cristiani nei suoi confronti. Testimoniare Gesù potrebbe, quindi, essere avvertito come un attacco all’islam.
Il fatto poi che vari gruppi cristiani giungano qui dall’Occidente con un approccio molto aggressivo, senza conoscere e senza ascoltare il contesto reale dei paesi dove musulmani e cristiani convivono, rafforza ulteriormente la loro impressione. All’opposto, molti cristiani pensano che, per salvaguardare una buona convivenza, sia bene mettere a tacere la propria fede cristiana.
Altri, cristiani e musulmani, sempre per la preoccupazione di evitare le frizioni e le polemiche, ricorrono alla negazione delle differenze, oppure minimizzano la loro importanza, come si trattasse solo di sfumature. Altri preferiscono tacerle e parlano unicamente di ciò che si ha in comune.
Ecco il problema: per il bene di tutti, nel contesto islamo-cristiano, è possibile testimoniare Gesù Cristo senza danneggiare la convivenza, l’incontro e il dialogo?

COS’È LA TESTIMONIANZA?


Per superare il dilemma, la polemica oppure irenismo, relativismo, rinuncia e silenzio, è importante riflettere sulla natura della testimonianza.
È da distinguere nettamente dalla propaganda. Questa è un concetto politico, che ha il suo posto legittimo nelle relazioni tra parti che cercano di ottenere un’adesione più ampia possibile di cittadini al loro programma. La testimonianza, invece, è un concetto religioso e spirituale, che riguarda l’esperienza di fede vissuta dal credente.
Un noto pensatore tunisino, Mohammed Talbi, in una conferenza intitolata Islam e dialogo, invita musulmani e cristiani a rinunciare al proselitismo, inteso come intento di guadagnare nuovi aderenti a scapito dell’altra religione, ma nello stesso tempo dichiara che ciascuno, il cristiano come il musulmano, ha il dovere dell’apostolato. C’è convergenza con quanto io chiamo dovere della testimonianza.
Così compresa, la testimonianza richiede innanzitutto trasparenza: la massima trasparenza, senza doppiezze. Non devo avere delle intenzioni nascoste, che non potrei manifestare agli amici musulmani. Non devo avere un doppio discorso, uno destinato ai cristiani e un altro, diverso, accettabile dai non cristiani. Quanto non direi davanti agli amici musulmani, non posso dirlo in loro assenza. È un criterio che ci spinge a un discernimento estremamente fecondo (per nulla comodo) nei discorsi che facciamo. Trasparenza significa, quindi, vivere e manifestare quello che siamo.
Possiamo a questo punto menzionare le difficoltà di molti musulmani dinnanzi a recenti documenti dei dicasteri romani, Dialogo e missione (1984) e Annuncio e dialogo (1992). Sono testi che presentano il dialogo interreligioso come un aspetto, una forma della missione e dell’annuncio. I musulmani sospettano sia una concezione che vizia il dialogo e la guardano con diffidenza: non hanno alcuna voglia di entrare in un dialogo che avesse come fine ultimo di farli cambiare religione. I documenti citati non intendono certo invitare al dialogo con doppia intenzione o senza trasparenza; ma queste reazioni mostrano la necessità di chiarire bene e in profondità ciò che vogliamo dire con le parole missione e annuncio.
Per essere vera, la testimonianza deve anche fondarsi sul rispetto profondo e radicale degli altri, dei musulmani nel nostro caso. Rispetto delle persone e, dunque, delle loro convinzioni di fede, di ciò che hanno di più prezioso. Già in se stesso il rispetto è una testimonianza: perché si fonda sul riconoscimento della dignità della persona e del carattere sacro della sua coscienza e sull’accettazione dell’altro in quanto tale.
Se la testimonianza significa manifestare nella trasparenza e nel rispetto ciò che sono, quindi anche ciò che sono grazie alla mia fede e alla mia esperienza religiosa, allora riguarda soprattutto la testimonianza della vita. Può richiedere la parola, quando la nostra vita pone interrogativi: “Siate sempre pronti a rispondere a chi vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15).
La persona di Gesù Cristo dev’essere il fondamento della nostra speranza nelle difficoltà e prove: quando questo avviene, la nostra speranza provoca interrogativi e stupore nell’altro. La speranza non potrebbe risultare oggi uno dei principali aspetti della testimonianza, in una società dove tanti non trovano più luce e forza per affrontare il futuro?

INSIEME DINANZI A DIO

Compresa in questo modo, la testimonianza manifesta ciò che ciascuno ha di proprio e di specifico e non nasconde le differenze. Cercherà anche, e soprattutto, ciò che abbiamo in comune, musulmani e cristiani, e ne farà il punto di partenza.
Per prima cosa esprimerà il fatto che siamo insieme dinanzi a Dio. Insieme così come siamo, quindi differenti; insieme nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, di ciò che ciascuno vive nella sua fedeltà a Dio. Nella ricerca d’essere insieme dinanzi a Dio, possiamo vivere le nostre diversità di fede in modo positivo e accogliere con rispetto la nostra testimonianza reciproca.
La specifica testimonianza di ciascuno sarà così vissuta a partire da ciò che abbiamo in comune: a partire non tanto da un dogma comune, quanto da un comune atteggiamento di fede e di adorazione nei confronti di Colui in cui crediamo tutti e che tutti adoriamo e che, per noi tutti, è più grande di quanto possiamo dire di lui.
Questo non è falso irenismo o relativismo e nulla toglie all’importanza delle nostre differenze dogmatiche e alla sofferenza che ne deriva. Significa semplicemente che il Dio vivente, che ci mette insieme e ci chiama, supera le nostre differenze e ci unisce a sé. Si potrebbe dire che nella nostra fede siamo su linee “parallele”, nei nostri credo fra loro irriducibili. Ma invece di dare il significato di “linee che non si incontrano mai”, diamo quest’altro significato: “linee che si incontrano all’infinito” (come dicono i matematici), cioè “siamo su linee che si incontrano in Dio”: che diventa, quindi, la fonte del nostro incontro.
Allora, nella misura in cui viviamo le nostre rispettive religioni in un atteggiamento di fede, ci incontriamo. Mentre se viviamo le nostre religioni come sistemi ideologici, non ci incontriamo.

LA BUONA NOTIZIA

È in questo atteggiamento di incontro di fede che posso anche esprimere la mia convinzione che Gesù Cristo è “Buona Notizia” per l’uomo d’oggi: per l’uomo delle nostre società, cristiani e non cristiani. Come? Attraverso le nostre persone: ad esempio, mostrando come, essendo espressione radicale dell’amore di Dio per l’uomo, Gesù sia all’origine della mia chiamata ad amare ogni uomo senza condizionamenti; oppure, mostrando come sia sorgente d’una speranza che non delude, oltre tutte le disillusioni e le ferite. Per richiamare solo due dimensioni della Buona Notizia. La testimonianza è legata alla concretezza della nostra vita, del nostro amore e della nostra speranza; non consiste in affermazioni di parole.
Quando, per dono di Dio, giungiamo a un rispetto reciproco e a un sincero desiderio di comprenderci, esprimo, lontano da ogni polemica, il senso della mia fede in Gesù Cristo: faccio vedere come sia questa fede a spingermi a lottare, ostinatamente, per l’uomo, ogni uomo, e per la costruzione d’una società davvero umana; e come sia questa fede a farmi lottare insieme ad ogni persona di buona volontà, nel rispetto delle differenze e nella ricerca di ciò che ci unisce.
Tutto questo non può impedire che il cuore della mia fede cristiana, il mistero della sofferenza-morte-risurrezione di Gesù, rimanga una pietra d’inciampo. Specialmente se messo in diretta relazione con il mistero di Dio, perché appare così contrario al messaggio del Corano.
Ma la mia vita – e poi la mia parola – può mostrare che questa convinzione di fede non è per me un motivo di polemica e di disprezzo dell’altro; ma, al contrario, è all’origine di un amore che si fa prossimo, è la fonte del mio amore e del mio rispetto per l’altro nella sua alterità, mi spinge ad assumere i drammi della nostra esperienza umana e delle nostre società, mi muove a farmi piccolo per l’altro e ad amare anche colui che mi odia. Posso, in questo modo, mostrare che il mistero dell’amore crocifisso è per me la manifestazione estrema della grandezza di Dio, grandezza che l’islam vuole testimoniare. È così possibile incontrarci al cuore stesso della differenza, che ci fa soffrire e ci è difficile integrare.
È un’illusione ritenere che la nostra fede in Gesù Cristo e la nostra testimonianza nei suoi confronti possano diventare un terreno d’incontro nel rispetto delle nostre differenze, nonostante i contenziosi e le polemiche, anche se il cammino per arrivarci può essere lungo? Percorriamo insieme questo cammino: vivendo insieme, nelle nostre società, le grandi lotte per l’uomo.   
                                                              

CHRISTIAN VAN NISPEN

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