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Laurenti Magesa: Tutti i colori dell'Africa

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Un noto teologo tanzaniano fa il punto sul processo di inculturazione della fede nel Continente nero. E sottolinea come, nonostante alcuni passi avanti, la Chiesa rimanga ancora eurocentrica e poco attenta ai valori religiosi africani.

Niente telefono, niente fax, e-mail neppure a parlarne. Confinato in un piccolo villaggio nel nord della Tanzania, padre Laurenti Magesa è probabilmente il teologo africano più difficilmente raggiungibile. Ma la sua fama travalica i confini del villaggio in cui svolge l’attività di parroco e del suo Paese, la Tanzania, dove è nato 53 anni fa. Prima i suoi insegnamenti presso l’Università cattolica dell’Africa Orientale (Cuea) di Nairobi, poi i suoi scritti lo hanno reso famoso in tutta l’Africa.

Rimuoverlo dall’insegnamento e relegarlo nella più piccola e sperduta missione della sua diocesi d’origine non è stato sufficiente per farlo dimenticare. Il suo parlar chiaro è arrivato sino in Europa per ricordare a una Chiesa fortemente impregnata di valori occidentali che esiste un’Africa che ha una storia e una cultura, che ha tradizioni e valori, che pensa e crea; esiste un’Africa che, a dispetto della secolarizzazione dilagante, vanta un patrimonio religioso di tutto rispetto che, all’interno e per mezzo della comunità, concorre alla promozione dell’individuo e all’armonia dell’universo. Concetti che padre Magesa ha ribadito anche nel suo ultimo libro, African Religion. The Moral Traditions of Abundant Life, che presenta e approfondisce la spiritualità africana.

«Spesso gli occidentali», afferma Magesa, «hanno disprezzato l’approccio degli africani alle cose, alla religione, al mito e ai riti, ma nonostante ciò hanno dovuto riconoscere che il loro stile di vita è essenzialmente religioso. Gli stessi missionari, che per lungo tempo non hanno approvato la religiosità degli africani, sono stati costretti ad ammettere che è solo a partire da questa base che possono inculturare pienamente il cristianesimo».

  • In alcuni Paesi dÂ’Africa si sono recentemente celebrati i cinquecento anni di evangelizzazione, in molti altri la presenza cristiana è più recente. Pur tenendo conto delle differenze storiche, socioculturali e di penetrazione del Vangelo, è possibile oggi parlare di cristianesimo africano? Qual è la sua identità e la sua originalità?

«A livello di dottrina e di insegnamenti, il cristianesimo africano continua a essere molto legato alla Chiesa di Roma. I primi missionari cattolici non hanno tenuto in nessuna considerazione le religioni tradizionali africane, influenzati da una mentalità eurocentrica, dalle vecchie idee di conversione e di evangelizzazione e da quella, complementare, di civilizzazione, intesa come progressivo allontanarsi dalle culture africane, che alcuni addirittura considerano morte. Eppure è solo attraverso un reciproco riconoscimento e una mutua accettazione e integrazione che si potranno porre le basi di un cristianesimo inculturato e autenticamente africano. Altrimenti si resterà a un livello di conversioni molto superficiale, con una spaccatura tra il modo di sentire popolare – in cui sono profondamente radicati i concetti di antenati, spiriti e guaritori tradizionali, concetti spesso fatti propri dalle Chiese indipendenti africane – e il cattolicesimo ufficiale».

  • Quali valori tradizionali africani potrebbero essere integrati dal cristianesimo?

«Esistono già alcuni esempi positivi di inculturazione, tentativi e testimonianze di preti e missionari che hanno integrato alcuni valori positivi della tradizione africana nell’evangelizzazione e nella pastorale. Mi riferisco in modo particolare al rispetto per gli anziani e per la natura, all’attenzione per i malati e i sofferenti, all’introduzione di simboli e segni nella liturgia, alla celebrazione di alcune festività legate alle stagioni e ai cicli della natura e della vita dell’uomo. Anche l’idea di antenati, quel legame indissolubile che lega viventi e non viventi, sta via via penetrando nel cristianesimo, insieme alla considerazione riservata ai guaritori e agli spiriti».

  • Quale influenza hanno questi concetti allÂ’interno delle comunità?

«Possono certamente concorrere a quell’armonia tra uomo e Natura, tra umano e divino, che appartiene profondamente alla cultura africana, dove non esiste frattura tra l’esistenza reale di una famiglia, i suoi legami parentali e di clan, gli antenati della tribù e gli spiriti protettori. Anche la sacralità di alcuni luoghi, legata al rispetto profondo della Natura, può essere fatta propria dal cristianesimo; il luogo sacro sarà dedicato a Dio Padre che, come il dio degli antenati, si prende cura del creato, e sarà un riferimento importante per la comunità di cristiani che formano la sua Chiesa».

  • Esiste oggi una teologia africana? In quale direzione sta sviluppando le proprie riflessioni?

«Esiste una teologia africana nella misura in cui ci sono studiosi che stanno riflettendo e approfondendo i temi della fede. Dal punto di vista formale - accademico, esiste anche una buona produzione di libri e articoli di un certo livello e di notevole interesse. Ma credo che la tendenza attualmente più vibrante e carica di promesse sia quella rappresentata dalle donne africane che fanno teologia, che stanno sviluppando riflessioni ricche di idee nuove e di nuove influenze, che vanno nella direzione di un significativo cambiamento culturale e sociale, soffermandosi sui temi della politica e dell’economia, oltre che su quelli tradizionali della Chiesa. Si discute di inculturazione, ma anche dei diritti umani, delle donne e dei bambini, che rappresentano un punto dolente anche nella tradizione africana, perché sostanzialmente discriminati».

  • Analogamente allÂ’America latina è nata in Africa una sorta di teologia della liberazione?

«C’è una corrente di teologi africani che sta approfondendo i temi della politica, della giustizia, della democrazia e di un’economia giusta. Ma si va articolando sempre più il discorso legato all’inculturazione, soprattutto a partire da quanto è stato detto nel corso del Sinodo per l’Africa, celebrato a Roma nell’aprile del ’94».

  • Che impatto ha avuto la lettera post-sinodale Ecclesia in Africa sulla vita della Chiesa e delle comunità cristiane africane?

«Durante il Sinodo sono state dette molte cose interessanti che, tuttavia, non sono messe in pratica. Lo stesso problema dell’inculturazione, ad esempio, filo conduttore di tutto il Sinodo e tema ricorrente all’interno della Chiesa africana, è stato ampiamente elaborato e approfondito, ma molti sono delusi perché tutto questo lavoro resta pura teoria. Basti osservare il modo in cui vengono formati i preti, obbligati spesso a una rottura netta con la tradizione e la religiosità propria della loro cultura. Molti di loro soffrono di problemi psicologici e alcuni arrivano a negare l’esistenza delle religioni africane perché la Chiesa ufficiale non le riconosce. La gente poi è stanca e scoraggiata: troppe parole e pochi fatti. Anche nelle cose più semplici spesso non sono stati fatti passi avanti...».

  • Può esemplificare?

«In Tanzania, per esempio, questo vale per la maggior parte delle preghiere o dei canti. I catechisti e i laici in generale subiscono l’autorità del prete o il paternalismo del vescovo, e non vengono adeguatamente valorizzati per le loro capacità e il loro specifico carisma. Se inculturazione significa rendere la Chiesa africana più africana, non basta introdurre qualche strumento o danza in chiesa».

  • Occorre quindi...

«Occorre andare in profondità, investigare il significato e le implicazioni di gesti e segni. È un cambiamento che chiede alla Chiesa uno sforzo di immaginazione a partire da un autentico radicamento nel tessuto africano. Inoltre bisogna avviare seriamente un processo di decentralizzazione e di sussidiarietà che, iniziato con il Concilio Vaticano II, si è parzialmente esaurito. A tutti i livelli ci si riferisce all’autorità superiore per far riferimento, in ultima istanza, alla gerarchia romana. È una mentalità poco evangelica».

  • Che cosa la Chiesa africana può dire oggi, a livello di riflessione e proposta ai missionari e alla Chiesa occidentale? Quali sfide proporre nel terzo millennio?

«La Chiesa occidentale dovrebbe innanzitutto ascoltare quello che gli africani hanno da dire su Dio e Gesù Cristo, ascoltare con la mente libera da pregiudizi, ascoltare e imparare. E poi rispettare. Rispettare le culture dell’Africa, le sue tradizioni, la visione del mondo e della vita proprie di questa terra: è un grande monito che mette l’Occidente globalizzato e impregnato di cultura materialistica di fronte alla sfida della diversità come alternativa possibile, anche dal punto di vista spirituale, a un modello dominante. Ma rispetto significa anche riconoscimento della dimensione comunitaria dell’esistenza e della religiosità africana: comunità in Africa significa luogo di vita e di morte, di relazione con gli altri, di rispetto dei valori e dell’universo intero insieme a tutte le sue creature visibili e invisibili. Inoltre, alcuni princìpi dell’etica comunitaria, propria della società africana, potrebbero essere un utile antidoto all’individualismo imperante nelle culture occidentali».

  • Altre sfide per la Chiesa...

«Urgente è quella dello sviluppo, di uno sviluppo rispettoso della gente, che aiuti davvero gli africani a uscire dalle condizioni di povertà e miseria in cui si trovano in molta parte del continente. A questo proposito i missionari devono farsi carico di una grande responsabilità, sensibilizzando l’Occidente su alcuni temi forti, come la giustizia, la pace, un’economia giusta, la remissione del debito...».

  • La comunità – ha affermato – è orizzonte culturale, etico e religioso per gli africani. Partendo dalla comunità si possono immaginare percorsi nuovi anche per la Chiesa africana?

«Un radicale cambiamento all’interno della Chiesa africana, nel senso di un approfondimento della fede e di un maggior radicamento nel contesto socioculturale, può avvenire soprattutto all’interno delle piccole comunità locali. Molti vescovi sono convinti che si tratti di una priorità, di un percorso da promuovere...».

  • E questo sta avvenendo?

«Purtroppo vedo ancora molti ostacoli, a cominciare dal fatto che si continua a livello pratico a confondere unità con uniformità, imponendo di fatto un catechismo unico che non tiene conto delle differenze socioculturali proprie dei diversi contesti. Ma vedo anche alcuni tentativi seri, come quello fatto dal vescovo Christopher Mwoleka, in Tanzania, che, nonostante l’opposizione di molti preti, ha cercato di promuovere con fede e tenacia le comunità cristiane locali, facendosi coinvolgere in prima persona, lasciando spesso la curia per recarsi in mezzo a loro. Un lavoro serio in questo senso lo si sta facendo anche in alcuni Paesi dell’Africa occidentale».

di Renato Kizito Sesana

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