Oltre la razionalità del potere
Premetto che io non ho fede, e però sono religioso nel senso che sono convinto
che tutte le parole originarie - dalle più semplici tipo alto-basso o destra-sinistra - derivano da metafore religiose.
L'umanità è nata religiosamente, perché attribuiva a una sfera altra, rispetto alla sfera umana, tutte quelle potenze
che l'umanità primitiva non riusciva a dominare (non a caso, la parola "sacro" che viene dal sanscrito vuol dire proprio
"separato"). La dimensione religiosa esiste al di là dei pensieri, delle azioni, delle possibilità umane. E in me c'è
un'attenzione vera al mondo religioso, inteso come fonte del linguaggio, fonte addirittura delle emozioni,
arriverei a dire, anche se poi non aderisco a nessun contenuto di fede. A partire da qui, mi rammarico che la Chiesa
si sia ridotta a una sorta di agenzia morale. Che concetto ha di Dio se pensa che Dio si debba occupare delle condotte
sessuali degli uomini? Mi pare un concetto abbastanza degradato di Dio, perché una volta che Dio è ridotto ai precetti
etici ci si è dimenticati di Dio. Ce lo ricorda Kierkegaard là dove dice che "la dimensione religiosa oltrepassa l'etica",
che "il Dio di Abramo chiede al padre di sacrificare suo figlio", il che contrasta col quinto comandamento: non uccidere.
La dimensione religiosa oltrepassa di gran lunga l'etica, e se la Chiesa si dimentica di questo al di là del religioso
rispetto all'etico, e lo abbassa all'etico, veramente misconosce il volto di Dio. La fede oltrepassa la razionalità.
"La razionalità che conosce la Chiesa cattolica è tutto sommato la razionalità dell'Occidente. "Ogni volta che papa
Ratzinger tenta una conciliazione tra fede e ragione, naturalmente subordinando la ragione alla fede com'è nella
tradizione scolastica, mi pare che metta in circolazione dei discorsi sostanzialmente inefficaci, perché la ragione
non è una scaletta per arrivare alla fede, la ragione è la modalità con cui gli uomini hanno cercato di darsi degli
orientamenti per convivere e quindi delle etiche (basti pensare a Kant che formula un'etica basata sul "trattare
l'uomo come un fine e mai come un mezzo". Un grande principio etico, che non si è mai realizzato, ma cui si arriva
con la sola ragione). La fede è tutt'altro rispetto alla razionalità, anche perché la razionalità che conosce la
Chiesa cattolica è tutto sommato la razionalità dell'Occi-dente, e non possiamo pensare che la ragione occidentale
sia la scala che ci porta alla fede. Gli orientali, che hanno un altro modo di pensare, cosa dovrebbero dire?
Verso i potenti del mondo, poi, penso che la Chiesa, dovrebbe avere un atteggiamento davvero forte, come l'ha
avuto Gesù Cristo nei confronti dei sacerdoti del tempio. Non si può parlare di pace e poi ricevere Bush.
So che è politicamente corretto', ma invece bisognerebbe dire: Bush, io ti scomunico perché fai la guerra.
A me inquieta vedere il settore gerarchico della Chiesa sempre in sintonia e comunque mai in contraddizione
con le logiche di potere. Non è una bella immagine vedere Giovanni Paolo II che, grazie alla mediazione di Sodano,
va in Cile al fianco di Pinochet dopo quello che è successo ad Allende. Perché la Chiesa ufficiale deve stare sempre
col potere? Capisco che è molto vantaggioso, ma certo non è religioso. Perché la religione deve avere la forza della
scomunica, la forza di dire no. Altrimenti non crede in Dio. Ma l'alleanza col potere è costitutiva per la Chiesa
d'Occidente, che nasce sostanzialmente sul modello centralizzato dell'impero romano.
Teologia dell'amore
Frequento abbastanza da vicino il mondo ortodosso e lì constato una teologia dell'amore,
non una teologia del potere. Uno dei teologi più grandi della tradizione ortodossa, Christos Yannaras,
autore di Variazioni sul Cantico dei cantici (Interlogos, 1994), sviluppa una teologia dell'amore davvero
impressionante. Penso ad un suo brano: "Se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara,
sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a lui". Mi colpisce questa capacità di mettere assieme,
come peraltro accade nello stesso Cantico dei cantici, sessualità e amore, che, come ho scritto ne Le cose
dell'amore (Feltrinelli, 2004), sono figure di trascendenza, non ce lo dimentichiamo. Se l'amore non lo
riduciamo a idraulica, infatti, dobbiamo immaginarlo nella figura della trascendenza: trascendenza rispetto
al mio io, e capacità di trascendere anche il dialogo io-tu, perché c'è un aldilà rispetto alle modalità stesse
con cui gli uomini si relazionano tra loro. Ecco, questa è la teologia che mi piace, perché l'amore secondo me è
molto più potente del potere. Però l'amore che non deve tradursi semplicemente in pietà, in opere di assistenza.
Vanno benissimo tutte queste cose, va benissimo anche la Caritas, ma l'amore è uno stato dell'anima, quello stato
dell'anima che è il "religioso", perché non ti viene naturalmente di amare. Del resto, se Gesù Cristo ha proposto
l'amore come comandamento vuol dire che di per sé gli uomini amano più se stessi dell'altro. La Chiesa
dovrebbe riuscire a sviluppare questo amore dell'altro, del prossimo, tenendo conto che il prossimo oggi ha
la faccia dello straniero, la faccia inquietante dello sconosciuto, di quello che è un po' strano rispetto alla
cultura. Vorrei che si uscisse anche dall'equivoco dell'ecumenismo, perché la prima condizione per dialogare
con un altro non è quella di essere gentili, ospitali, scambiarsi regali, ecc. No! Tutto questo è semplicemente
buona educazione. L'ecumenismo è una cosa molto più seria: è lo sviluppo del concetto di tolleranza, che non
significa che io tollero chi la pensa diversamente da me. La tolleranza prevede che chi la pensa diversamente
da me abbia un gradiente di verità superiore al mio. Almeno come ipotesi lo devo ammettere per incominciare a
dialogare. Di solito non discuto con i teologi proprio perché loro sono sicuri di essere nella verità, mentre
tutti dovremmo essere in quella dimensione che Paolo di Tarso indicava nel "timore e tremore multo" di colui
che crede, o che Tommaso d'Aquino spiegava parlando della fede che pone "in captivitatem omnem intellectum".
Mi riferisco cioè a quella sorta di dubitosità che intravedevo per esempio nel cardinal Martini, e che invece
non vedo nella "minacciosa sicurezza", come diceva Jaspers, di chi pensa di abitare, nella fede, la verità.
L'educazione del cuore
Se l'amore e la tolleranza dell'altro non si riducono a comportamenti formali ma sono
uno stato dell'anima, si deve allora affrontare il problema dell'educazione del cuore. Pensiamo ai tanti casi
di violenza che la cronaca registra e che vedono protagonisti spesso dei giovani, o comunque persone che arrivano
alla violenza in preda a un sentimento che ha spazzato via il senso della vita degli altri. Il sentimento non è
una cosa naturale. Richiede educazione, apprendimento di un vocabolario emotivo che si può acquisire attraverso
la letteratura che è una sublime descrizione delle movenze dell'animo. Attraverso la letteratura i giovani possono
acquisire un vocabolario emotivo, quando hanno un disagio hanno il vocabolario per chiamarlo, hanno la possibilità
di nominare e di conoscere ciò che sentono, hanno dei paradigmi letterari per vedere come questi sentimenti
mediamente si evolvono, si svolgono o anche tragicamente si concludono. Si formano cioè a una competenza del sentimento.
Quando non c'è questa competenza, di fronte al dolore, che di solito è muto, innominabile, e non offre appigli per
la sua elaborazione e interpretazione, si passa subito al gesto. Il gesto è il collasso del linguaggio emotivo.
Non disponendo di una frequentazione della dimensione sentimentale, quando sorge qualcosa di drammatico si passa
al gesto, di solito violento, perché non si conosce la mediazione emotiva e linguistica. Basta leggere il Discorso
della montagna dove troviamo esempi di educazione del cuore: si dice chi sono i pacificatori, chi sono gli oppressi,
chi sono i sofferenti, chi sono quelli che sperano. Perché il Discorso della montagna è sparito dalle prediche
domenicali e negli esercizi di formazione? Perché rimane solo la precettistica, che mi sembra riproduca sostanzialmente
le ossessioni del clero celibe, invece di far conoscere ai giovani i sentimenti?
La morale borghese
Esiste in questo anche una responsabilità della cultura laica, di cui non ho una gran stima.
Quando mi danno del "laico", in questa definizione non mi ritrovo. Considero i laici semplicemente dei borghesi,
perché la morale che mettono in circolazione è una morale borghese che è una morale di maschere, nel senso che basta
che tu ti comporti secondo le norme della buona educazione e del politicamente corretto in pubblico, poi puoi fare
quello che vuoi in privato. Il mondo laico si guarda bene dall'educare ai sentimenti, perché quando si educa alle
maschere sociali automaticamente si è già fatto fuori l'ordine sentimentale, dato che l'ordine sentimentale è quello
che tu propriamente sei. La morale borghese ti dice come devi recitare in pubblico, non come devi essere tu in maniera
autentica. Allora dall'educazione laica, oltre alla tolleranza, non c'è da prendere granché. Naturalmente in
questo vuoto si inserisce la Chiesa la quale, dettando dei precetti, garantisce anche una certa sicurezza, nel
senso che se io so quello che devo fare sono tolto dal dubbio, perché c'è qualcuno che si prende la responsabilità per me.
Del resto la Chiesa cattolica non ha fiducia nell'uomo, non crede che l'uomo abbia in sé un potenziale di verità,
di coscienza, una capacità di autodeterminarsi. Questa mentalità dell'eterodi-rezione, quest'ipotesi che l'uomo sia
solo un vaso da riempire è una metafora antica che ritroviamo in Paolo di Tarso. Ma perché non credere dell'uomo di
pervenire alla verità come riteneva Socrate, perché non mettere l'uomo in rapporto con la sua coscienza che non può
essere irrimediabilmente votata al male. Kant diceva che è inutile "definire" il bene e il male, perché questa differenza
ciascuno la "sente" naturalmente da sé. Ma per questo occorre un'educazione del sentimento, in assenza della quale,
non ho la capacità di percepire la gravità del male, perchè la mia interiorità, non educata, non è cresciuta, non si è
sviluppata, è rimasta atrofica.
L'etica del viandante
Se la cultura laica non si fa carico dell'educazione del sentimento, occupare questo vuoto da
parte della Chiesa con una precettistica a sfondo sostanzialmente sessuale è altrettanto vano. Ne è prova il fatto che
noi percepiamo come peccato l'omicidio, il furto, la rapina, la trasgressione sessuale e non, per esempio, non pagare
le tasse o depauperare la gente con giochi di alta finanza. Perché la Chiesa, al di là di generiche esortazioni, non si
impegna anche nell'etica sociale? Lo stesso dicasi per tutto ciò che riguarda la difesa della vita. Il concetto di "vita"
della Chiesa cattolica mi pare un concetto molto materialistico, perché concepisce la vita come semplice "animazione della
materia", quando la vita invece è "biografia". Non condivido neppure la santificazione della natura che non è "buona",
ma semplicemente "indifferente" alla sorte dell'uomo. A ciò si deve aggiungere che i principi di natura, a cui fa
riferimento la Chiesa, sono stati formulati quando la natura era percepita come un ordine immutabile, e come tale
immodificabile. Oggi ci troviamo di fronte a una natura che è in ogni suo aspetto manipolabile, e allora bisognerà
costruire un'altra etica che non sia quella di dedurre da principi formulati quando la natura era pensata come
immodificabile. A questo punto bisogna assumere quella che io vado chiamando l'etica del viandante, il quale, nel
percorrere la sua strada, non deduce l'itinerario da mappe che non possiede, ma prende di volta in volta decisioni
a partire dalla situazione in cui viene a trovarsi. L'etica, se non vuole diventare patetica, nel senso che invoca
la tecnica di non fare ciò che può, deve in qualche modo prendere coscienza che il mondo ormai è tecnologicamente
potente e le decisioni si devono prendere caso per caso, sulla base della valutazione del minor danno e del maggior
beneficio. So che il ricorso all'esperienza non è mai una garanzia di sicurezza, è comunque la strada che gli uomini
percorrono, e hanno sempre percorso al di là di tutti i principi. Questo è il nostro limite, e in questo limite occorre
decidere. La decisione può essere drammatica, nell'inquietudine di una coscienza mai pacificata, che è comunque
preferibile a una coscienza beata che si sente protetta da norme che poi disattende.
di Umberto Galimberti
tratto da Adista Documenti, n. 66, 23 settembre 2006
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