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Don Peppino Diana

"Per amore del mio popolo non tacerò"

 don Peppino Diana,
 un prete "anticamorra"

 



Indice:

  •  Chi è don Peppino Diana ...
  •  Don peppino: un uomo, un prete, uno scout ...
  •  Il racconto della sua morte ...
  •  Per amore del mio popolo...non tacerò! ...
  •  Le parole di L. Chiarinelli, vescovo di Aversa, al funerale di d. Peppino ...
  •  Simbolo di risurrezione delle sue terre ...
  •  La Profezia di don Peppino ...
  •  L' Appello ...
  •  Il pensiero di cui è stato testimone (tratto da "Gomorra") ... 
  •  Concetto di Famiglia ...
  •  Riflessione di don Luigi Ciotti ...
  •  Bibliografia consigliata ...
  •  Manifesto per ricordare una semplice vita ...
  •  Riflessione di p. Alex ...



“La speranza è giustificata solo in coloro che camminano” – scrive Pedro Casaldaliga, il vescovo dei campesinos del nord/est del Brasile. “E’ degna di credito solo la speranza che rischia, quella che lotta contro ogni ingiustizia e contro ogni menzogna e conformismo. Seguendo colui che fallì di fronte ai poteri religiosi, economici ed imperiali e fu escluso fuori dalla città come un sovversivo maledetto, appeso ad una croce ma che è il Risorto e che fa nuove tutte le cose, rivoluzionando le coscienze, le strutture!... “

Don Giuseppe Diana, prete scout, ucciso dalla camorra per difendere la libertà del suo popolo –

Il 19 marzo, giorno del suo onomastico, veniva ucciso dalla camorra nel corridoio che dalla sacrestia porta alla chiesa don Giuseppe Diana, mentre stava per iniziare la Messa.

Vengono in mente don Puglisi, Oscar Romero, morti per aver voluto compiere fino in fondo la loro missione, contrastando con la logica dell’amore e della ragione, la violenza di chi impone un modo di vita che imbarbarisce la società umana.

“Don Peppino Diana ha avuto una storia strana, una di quelle che una volta conosciuta, bisogna poi conservarla da qualche parte nel proprio corpo. In fondo alla gola, stretta nel pugno, vicino al muscolo del petto, sulle coronarie. Una storia rara, sconosciuta ai più”..

Don Peppe era nato il 4 Luglio 1958 a Casal di Principe, in provincia di Caserta, nell’agro-aversano;

Don Peppino aveva studiato a Roma e lì doveva rimanere a fare carriera lontano dal paese, lontano dalla terra di provincia, lontano dagli affari sporchi.

Ma d’improvviso decise di tornare a Casal di Principe come chi non riesce a togliersi di dosso un ricordo, un’abitudine, un odore…

Nel Marzo 1982 è stato ordinato sacerdote.

Don Peppino divenne giovanissimo (nel Settembre 1989) parroco della parrocchia di san Nicola di Bari a Casal di Principe.

Girava per il paese in jeans e non in tonaca come era accaduto sino ad allora ai preti che si portavano addosso un’autorità cupa come l’abito talare”.

Fumava anche il sigaro ogni tanto in pubblico, altrove poteva sembrare un gesto innocuo.

Da queste parti i preti tendevano ad avere atteggiamenti di finta privazione del superfluo e nelle loro stanze davano sfogo alle loro pigre debolezze.

Don Peppino aveva deciso di lasciare somigliare la sua faccia sempre più a se stesso,come una garanzia di trasparenza in una terra dove i volti invece devono orientarsi in smorfie pronte a mimare ciò che si rappresenta, aiutati dai soprannomi che caricano il proprio corpo del potere che si vuole suturare alla propria epidermide”.

R. Saviano - Gomorra

Era uno scout, prima capo reparto dell’Aversa 1, poi assistente del gruppo, impegnato in zona e in regione, assistente nazionale dei Foulards Blancs, assistente generale dell’Opera pellegrinaggi Foulards Blancs. Essere prete e scout significavano per lui la perfetta fusione di ideali e di servizio.

“Ricordo il fiume di scout che avevano dimesso la loro aria scanzonata da bravi figli di famiglia e sembravano portare annodata ai loro bizzarri foulard gialli e verdi una rabbia forte, perché don Peppino era uno di loro…

Aveva deciso di interessarsi delle dinamiche di potere: non solo dei corolari della miseria, non voleva soltanto nettare la ferita, ma comprendere i meccanismi della metastasi, bloccare la cancrena, fermare l’origine di ciò che rendeva la sua terra una miniera di capitali e un tracciato di cadaveri”.

Aveva l’ossessione del fare, aveva iniziato a realizzare un centro di accoglienza dove offrire vitto e alloggio ai primi immigrati africani.

Era necessario accoglierli, evitare – come poi accadrà – che i clan potessero iniziare a farne dei perfetti soldati.

Per realizzare il progetto aveva devoluto anche alcuni risparmi personali accumulati con l’insegnamento. Questo perché attendere aiuti istituzionali può essere cosa così lenta e complicata da divenire il più reale dei motivi per l’immobilta”.

R. Saviano – Gomorra


Con questo spirito di servizio aveva intrapreso la lotta alla camorra che infesta la sua zona. Con lo scritto e la parola si era posto a capo della comunità parrocchiale e cittadina per il loro riscatto.

La sua voce ora è divenuta un grido che scuote le coscienze.

«Dove c’è mancanza di regole, di diritto, — scriveva don Peppe — si affermano il non diritto e la sopraffazione. Bisogna risalire alle cause della camorra per sanarne la radice che è marcia. Una Chiesa diversamente impegnata su questo fronte potrebbe fare molto. Dovremmo testimoniare di più una Chiesa di servizio ai poveri, agli ultimi; dove regnano povertà, emarginazione, disoccupazione e disagio è facile che la mala pianta della camorra nasca e si sviluppi».

E ancora:

«Come pastori ci sentiamo le sentinelle del gregge e, se non sempre siamo stati vigili e attenti, stavolta il coraggio della profezia e la coscienza profonda di essere “lievito nella pasta” ci impongono di non tacere. Ai politici vecchi e nuovi diciamo: “Non improvvisate più, non è possibile governare senza programmi, senza un vera scuola di politica”.

Ai giovani lanciamo l’invito di farsi avanti, di far sentire la propria voce e partecipare al dialogo culturale, politico e civile della vita comunale. Invitiamo infine i camorristi a tenersi in disparte, a non inquinare e affossare ancora una volta questo nostro caro paese, che ormai ha bisogno solo di Resurrezione».

Il seme gettato nella terra muore, e dalla sua morte nasce tanto frutto: don Peppe è il seme, le coscienze di tutti noi il frutto maturato dal suo sacrificio.

Abbiamo seguito il suo cammino sino al luogo che accoglie il suo corpo, ma abbiamo pregato anche per i suoi assassini, perché la nostra preghiera sia segno del perdono cristiano che dobbiamo a chi ci ha strappato, in modo così violento, un fratello. Ma il perdono non può essere diviso dalla giustizia, che vogliamo, che pretendiamo, perché solo così si può ristabilire la pace dei cuori e del vivere civile.


Buona strada, Peppe.

Geppino Gioia,

in "Proposta Educativa",

rivista dei capi Agesci , maggio 1994

LA MORTE DI DON PEPPINO DIANA

"..."Chi è don Peppino?”
”Sono io”…
L’ultima risposta.
5 colpi che rimbombarono nelle navate, 2 pallottole lo colpirono al volto, le altre bucarono la testa, il collo e una mano. Avevano mirato alla faccia, i colpi l’avevano morso da vicino. 1 pallottola gli aveva falciato il mazzo di chiavi agganciato ai pantaloni.
Don Peppino si stava preparando a celebrare la messa. Aveva 36 anni..."
R. Saviano, da "Gomorra"

E' il 19 marzo del 1994. Sono da poco passate le otto del mattino, mi arriva una telefonata. "Sono Michele, hai saputo di don Peppino?" "don Peppino, chi?" don Peppino Diana. So che tu lo conoscevi, perciò ti ho telefonato". "E che avrebbe fatto don Peppino?" "E' stato ucciso!" "Ma cosa stai dicendo? Ho capito bene? Peppe Diana, il prete di Casal di Principe?" "Sì, proprio lui. Poco fa lo hanno ucciso in chiesa". Sono attimi terribili. Forse Michele si sarà sbagliato. Insisto: "Ma sei sicuro che è quello di Casal di Principe?". "Sì, è proprio lui, è anche tuo amico, no?". Ancora non voglio crederci. "E quando sarebbe avvenuto?" "Poco fa, nella sua chiesa".

Riesco a malapena a dire grazie a Michele per avermi avvisato, ma penso: "Adesso mi informo meglio, si sarà sbagliato!". Non faccio in tempo a posare il telefono che squilla di nuovo. Altri due amici mi dicono la stessa cosa. Uno però è impreciso, ha solo sentito dire di un prete assassinato in chiesa. E' l'appiglio che inconsciamente aspettavo. E poi nessuno mi aveva detto ancora che era un delitto di camorra, poteva quindi trattarsi di un'altra persona che aveva lo stesso nome e cognome di Peppino Diana e qualcuno che aveva diffuso la notizia aveva pensato al sacerdote. Succede anche questo. Anche se l'uccisione di una persona è comunque sempre un fatto gravissimo.

Allora penso di fare alcune telefonate. Per primo chiamo il Sindaco di Casal di Principe, Renato Natale. Sono attimi interminabili quelli che aspettano la comunicazione al telefono mentre formo il numero. Mi risponde la figlia. "Pronto? C'è papà?" Dall'altro lato, la bambina non risponde ma singhiozza. E' un attimo interminabile. E' la conferma di quello che non volevo accettare. Sembra che mi caschi il mondo addosso. "Sì, è vero. Papà è andato là". Non provo più a fare il secondo numero che avevo pensato di chiamare. A quel punto è anche inutile. Mi arrivano altre due telefonate che mi danno qualche particolare in più dell'assassinio. Poco dopo sono già sulla superstrada che porta a Casal di Principe. In tutto dieci minuti di auto, che per me sembrano interminabili. Dieci minuti dove mi passano davanti i momenti in cui ho conosciuto Peppino Diana, le occasioni di lavoro comune, il dibattito, le discussioni, i documenti.

Prima di conoscerlo personalmente, l'avevo già incontrato attraverso le iniziative che promuoveva. In lui andava maturando un forte impegno sociale per liberare la sua terra dalla morsa asfissiante della camorra. Anni dopo mi sono accorto che era in una foto che avevo scattato in occasione della marcia anticamorra che organizzammo ad Aversa il 29 gennaio del 1988. Era sul palco, in rappresentanza del Vescovo di Aversa, Giovanni Gazza, di cui era anche segretario particolare. Quella marcia contro la camorra fu uno dei primi grossi momenti di ribellione della gente della zona aversana. Ne ricordo ancora oggi tutti i passaggi: Decine e decine di riunioni, assemblee nelle scuole, nelle fabbriche, nei comuni di tutta la zona aversana; momenti di mobilitazione molto intensi che anticiparono e prepararono la scadenza.

Il tutto era partito da un episodio singolare: il 28 settembre del 1987 fu assaltata la caserma dei Carabinieri di S. Cipriano d'Aversa da parte di numerosi cittadini di quel paese, perché alcuni carabinieri si erano "permessi" di intervenire in un inizio di lite tra due giovani durante una serata di spettacolo per i festeggiamenti patronali. L'episodio fece molto scalpore, tant'è che per sedare quel vero e proprio attacco alla caserma, che poteva finire in tragedia, dovettero intervenire i boss locali per difendere i poveri carabinieri che mai avrebbero immaginato una reazione del genere ad un loro tentativo di imporre la legge dello Stato nel paese. Era l'epoca in cui Antonio Bardellino era capo indiscusso della camorra aversana e il fratello, Ernesto, era il Sindaco del paese. Fu quello un soprassalto della Società Civile della zona aversana e della Provincia di Caserta.

Da quell'episodio nacque la mobilitazione popolare, che il PCI sponsorizzò organizzando attraverso i giovani della FGCI un convegno al cinema "Faro" di San Cipriano dal titolo più che eloquente: "LIBERIAMO IL FUTURO". Una sala in cui si proiettavano da tempo immemorabile, solo film a luci rosse. E non era facile, di quei tempi, riunire tante persone a S. Cipriano d'Aversa, praticamente nel cuore della camorra. Un affronto che da queste parti si paga caro. Il cinema "FARO" era pieno. Una sorpresa per tutti, sinanche per gli organizzatori. C'era Pietro Folena, Ferdinando Imposimato ed era annunciato anche Nando Dalla Chiesa, che non venne perché non avvertito in tempo.

Ricordo bene quei momenti. Una tensione altissima. Tutta la zona circondata. Quando arrivai, ero tra i primi, c'erano più forze dell'ordine che partecipanti. All'inizio solo i soliti volti che trovavi in ogni manifestazione. Ci guardavamo in faccia, senza parlare, solo un rapido saluto. Facce tese. Poi, via via che arrivava gente, la tensione calava, fino a sciogliersi completamente dopo la manifestazione.

Fu quello l'inizio di un percorso che farà ritrovare tanta gente assieme uniti dalla volontà di combattere la camorra nel pieno della sua potenza, sia politica che militare.

Don Peppino Diana, era sul palco quel 29 gennaio del 1988, in rappresentanza del Vescovo, quando sfilarono circa 10 mila persone per le strade di Aversa. Una fiumana di studenti, lavoratori e semplici cittadini. Dopo quel momento alto di mobilitazione, nessuno seppe dare continuità e soprattutto visibilità al movimento anticamorra. Quella iniziativa, però, produsse decine di piccoli rivoli ognuno dei quali camminò, per un certo tempo, per conto proprio. Man mano che il tempo passava, ognuno di questi rivoli si infoltiva e cercava di avvicinarsi agli altri per formare un fiume sempre più grande. Erano piccoli nuclei di resistenza. Si cercavano, si tenevano in stretto contatto, mettevano in atto piccole iniziative come dibattiti, giornali , incontri nelle scuole, cercavano di lavorare all'interno delle associazioni di volontariato, all'interno dei partiti dove militavano. Don Peppino Diana era parte di un piccolo nucleo di resistenza che lui stesso aveva contribuito a far nascere nell'area di Casal di Principe, dal fronte della Chiesa. Un fronte che si allargava man mano che lo Stato cominciava a fare sul serio.

Il 13 dicembre del 1990 avviene il "blitz di Santa Lucia". I carabinieri interrompono un summit di camorra nella casa di un assessore del Comune di Casale di Principe, Gaetano Corvino. C'è un conflitto a fuoco, viene arrestato uno dei capi clan, Francesco Schiavone, meglio conosciuto come Sandokan. Corvino, invece, é regolarmente in Municipio per una seduta di Giunta.

Il maggiore Mariano Angioni, della Compagnia dei carabinieri di Aversa che guidò quel blitz, ecco come lo racconta: “Quell'azione non ebbe un grosso spiegamento di forze come di solito succede in questi casi. Fu fatta da me con altri sette dei miei uomini. Tutti professionalmente preparati. Cosa importante, perché non ci fu alcuno spargimento di sangue. Avemmo una segnalazione, che tutti dissero essere stata fatta da Vincenzo De Falco, detto “‘o fuggiasco”, perché fu l’unico a non partecipare a quel summit. Forse anche per questo s’è scatenata la successiva guerra tra i clan casalesi. Ma la"segnalazione non ci fu data dal De Falco. Arrivammo lì, nell’abitazione dell’assessore Corvino, sapevamo più o meno chi avremmo trovato. Appena tentammo di entrare ci fu risposto a colpi di arma da fuoco, ma evidentemente per ritardare la nostra irruzione. Alla fine ebbi la sensazione che qualcuno era scappato ed era Mario Iovine, successivamente rimasto ucciso all'estero."

Gaetano Corvino, dopo un periodo di latitanza si costituì. Fu comunque sospeso dalla carica di consigliere comunale con decreto del Ministro dell'Interno il 13 marzo 1991. Quel summit interrotto, però, segnò l'inizio della guerra per la successione ad Antonio Bardellino. Iniziò la mattanza in tutta la provincia di Caserta e particolarmente nella zona aversana. Mario Iovine fu addirittura ucciso in Portogallo a Cascais il 6 marzo del 1991.

Poco dopo, il capogruppo consiliare del PCI, Renato Natale, comunicò alla città e al Prefetto che il suo partito non avrebbe partecipato più alle sedute del Consiglio Comunale per togliere qualsiasi parvenza di democrazia al civico consesso. "Da tempo il Consiglio Comunale é svuotato da ogni significato. Da anni denunciamo che il Consiglio si é ridotto a luogo di pura ratifica di decisioni prese altrove. Nel corso dell'ultima legislatura, gli unici interventi sono stati quelli dei comunisti, nel più totale disinteresse, se non di fastidio, degli altri consiglieri di maggioranza e non (...)"

Con don Peppino ci "incontrammo" attraverso una serie di articoli che lui pubblicò sul nostro mensile "lo Spettro", poi un episodio, in particolare, accelerò i tempi del dibattito e della mobilitazione. La morte, per mano di gruppi di fuoco della camorra, di un ignaro passante, un giovane Testimone di Geova per le strade di S. Cipriano, determinò il punto di rottura, anche pubblico, con i meccanismi che fino a quel momento avevano riprodotto il consenso, e quindi anche i valori attorno ai quali cresceva la gente del posto.

Era il 21 luglio del 1991. Il giovane Testimone di Geova passava per la strada principale che collega Casal di Principe a S. Cipriano d'Aversa, viene ucciso nella sua auto. Si dirà per sbaglio. Frutto del clima di quei giorni di guerra tra clan. Dopo quell'episodio scende in campo anche la Chiesa.

La comunità Parrocchiale di S. Nicola di Casal di Principe, la Comunità Parrocchiale di S. Croce di S. Cipriano d'Aversa, la Comunità "La Roccia" e il giornale "lo Spettro", diffondono un volantino fuori le chiese. E' una dura presa di posizione contro la "Dittatura armata" che impera nella zona aversana. Il Volantino viene inviato alle più alte cariche dello Stato ed al Vescovo di Aversa. Don Peppino Diana sarà decisivo per convincere la Chiesa della zona a scendere in campo contro la camorra. La protesta delle comunità parrocchiali, nuova per queste zone, smuove parecchio le acque. Arriveranno gli alti comandi dei Carabinieri a convincere, in qualche modo, i due parroci a desistere dal propagandare ulteriormente la loro protesta. Ci fu un forte consenso. Si capiva che la gente non ne poteva più, ma non aveva la forza per liberarsi e cercava punti di riferimento attorno a cui mobilitarsi. La Chiesa di Casal di Principe e del circondario si offriva come momento unificante. Alla guida di questo piccolo, ma grandissimo movimento di nuovi valori, don Peppino Diana.

Pochi giorni dopo il Prefetto di Caserta, Corrado Catenacci, porterà personalmente ai parroci firmatari del volantino un messaggio di solidarietà del Ministro dell'Interno, Scotti.

In questo clima, a settembre del 1991 arriva il decreto di scioglimento del Consiglio Comunale da parte del Capo dello Stato. La speranza di molta gente perbene venne alimentata da questa decisione drastica e seria. Ci voleva da tempo, evidentemente.

Si sperò allora che la scure di Scotti si abbattesse anche su altri Enti Locali. Ma non fu così. Ci fu meraviglia per il fatto che il Comune di S. Cipriano d'Aversa non subì la stessa sorte. Si disse allora che a causa delle faide interne alla D.C. casertana l'on.le Giuseppe Santonastaso avesse mollato Casal di Principe, feudo D.C. fino a poco prima. Tale atteggiamento scaturiva dal fatto che nelle precedenti elezioni provinciali, Fabio Schiavone, figlio del sindaco D.C. dell'epoca, Francesco Schiavone, fu candidato in una lista civica, la Campana, ispirata dal Ministro Cirino Pomicino e che lo stesso on.le Giuseppe Santonastaso definì in odore di camorra. Casal di Principe, insomma, fu sacrificata perché la D.C. casertana già la considerava un comune "non più controllabile".

Alfredo Sant'Elia, magistrato in pensione, Paolino Maddaloni, Vice Prefetto, e Bernardo Papa, Direttore del Provveditorato OO.PP., furono incaricati dal Presidente della Repubblica, di gestire il Comune di Casal di Principe per 18 mesi. Senza fondi (il comune era dissestato), e con pochi mezzi a disposizione, dovevano tentare di riportare quantomeno la legalità amministrativa in un posto che era stato, per anni, in balìa di "pressioni esterne". Compito ingrato che alla fine i cittadini hanno capito cosa poteva significare: Tributi da recuperare, tasse sui servizi, scarsa qualità dei servizi erogati.

Ad ottobre del 1991, in piena guerra tra i clan di Schiavone e Bidognetti da un lato e Caterino - De Falco dall'altro, muoiono diversi giovani del posto. La gente non ne può più. Agli inizi di ottobre, un episodio rimasto famoso nelle cronache di quei giorni: un corteo di diverse automobili sfila per le strade del paese. Sono circa le sei del pomeriggio. Dalle auto che camminano lentamente per le strade di S. Cipriano, Casapesenna e Casal di Principe, spuntano armi in quantità. Uomini a piedi e sui bordi delle automobili armati di tutto punto, arrivano fin sotto le case dei propri "avversari" . Li provocano, li invitano ad uscire di casa per ammazzarli. Dura almeno un'ora questo corteo. Gira indisturbato. Chiudono i negozi, i bar, si abbassano le saracinesche, le strade sono deserte. C'é il coprifuoco. Per due giorni di seguito a quell'ora le strade rimarranno senza anima viva. Il clima é da dittatura sudamericana. Lo Stato continua a non esserci. Toccherà alla Chiesa aprire di nuovo le sue porte per uscire dalle sagrestie e denunciare con forza quello che sta accadendo.

A Natale del 1991 i parroci della Foranìa di Casal di Principe diffondono un documento, dopo averlo spiegato dall'altare. Invitano il popolo a ribellarsi. Verrà dato fuori le chiese alla fine di tutte le messe. Sono i giovani dell'azione cattolica ad impegnarsi in prima persona. Il documento si chiama: "Per amore del mio popolo". Le parrocchie da quel momento diventeranno il punto di riferimento della ribellione alle bande criminali. La Chiesa diventerà il propulsore di tutte le iniziative sociali. Don Peppino Diana il maggiore animatore di questo messaggio nuovo. Sarà ancora don Peppino a sostenere la lista di Alleanza per cambiare, a novembre del 1993, contro la D.C. e una lista di destra. Candidato a sindaco, Renato Natale, già capogruppo del PCI al Comune. Natale la spunterà al ballottaggio per soli 32 voti. Sarà un'amministrazione con le difficoltà già ampiamente annunciate: senza soldi, senza mezzi, assediata da più parti, intimidita in più occasioni, reggerà solo un anno. Alla fine tre consiglieri comunali della stessa maggioranza faranno cadere la giunta di Natale e riporteranno il paese alle elezioni anticipate.

Erano passati appena quattro mesi da quando Renato Natale era stato eletto sindaco. Quella mattina del 19 marzo dovette cadergli il mondo addosso. Tutti gli amici pensarono a lui. E anch'io. Non era bello avere una carica che, in quel momento, pesava come una montagna. Renato fu uno dei primi ad accorrere sul posto. Incredulo anch'egli per quanto vedeva sotto i propri occhi. "E' finita, è finita", diceva tra sé mentre gli occhi si arrossavano per le lacrime. Un misto di paura, dolore, rabbia. "La sensazione é quella di abbandonare tutto e di andare via da questo paese" - mi dirà quella mattina con le lacrime agli occhi.

Alle undici ritorno al Comune di Casal di Principe. Un gruppetto di persone, impaurite e chiuse nella stanza del sindaco commentano, a voce bassa, l'omicidio di don Peppino. Sono alcuni assessori e altri amici del Sindaco. C'é sbandamento, scoramento. All'improvviso un forte boato si sente proprio sotto di noi. Chi tenta di scappare, chi urla, chi rimane freddo in un silenzio pieno di paura. Per un attimo si pensa al peggio: una bomba. E in quell'attimo si aggrava anche lo scenario che passa davanti agli occhi. Se é una bomba oramai siamo alla guerra civile. I clan attaccano come bande armate. Un attimo che sembra un secolo. Invece é solo il portone del Municipio che é sbattuto a causa del forte vento. Un altro minuto per calmarsi tutti. La paura é palpabile, ma bisogna reagire.

Comincia il tam tam della mobilitazione. Si chiamano i sindaci dei comuni limitrofi, i parlamentari, si mobilitano gruppi, volontariato scouts, la Chiesa. Proprio io chiamo Nogaro. Lo rintraccio dopo cinque minuti. "Eccellenza é successo un fatto senza precedenti". "Ho saputo, ho saputo. Me l'hanno detto proprio un minuto fa. Sono allibito. Non credevo si potesse arrivare a tanto" . Lo invito per la manifestazione che abbiamo pensato di organizzare per il pomeriggio. Bisogna reagire subito, oppure la gente comincerà ad avere paura. L'appuntamento é per le quattro fuori la parrocchia di S. Nicola, la chiesa di don Peppino. Si abbozza un manifesto "Come don Puglisi, come Oscar Romero". Il paragone é presto fatto. Un altro martire ucciso per difendere i valori della sua fede. Si avvisano gli amici, i conoscenti di don Peppino. C'é paura e tensione. Arriva il Vescovo di Aversa, Lorenzo Chiarinelli, arriva il Vescovo di Acerra, Antonio Riboldi e arriva anche il Vescovo di Caserta Raffaele Nogaro. Insieme con Bassolino, con Ferdinando Imposimato, Giuseppe Gambale e tanta gente comune. Davanti a tutti i ragazzi di don Peppino. C'é ancora incredulità, nessuno riesce a capacitarsi se quello che si sta vivendo é un sogno, oppure la dura realtà. Il paese intero é sbigottito. La gente reagisce, si accoda al corteo. Alla fine saremo un migliaio. Anche troppi per ciò che si pensava all'inizio. Una mobilitazione fatta in due ore. Nogaro scriverà un articolo per commemorarlo che ospitiamo su "lo Spettro".

"DON GIUSEPPE DIANA: IL MINISTERO DEL SANGUE"

Una espressione palpitante di Santa Caterina da Siena sostiene che i sacerdoti sono “ministri del Sangue”. E don Peppino Diana era sacerdote genuino. La semplicità della sua vita si stendeva su tutti gli amici come le lenzuola bianche che, nel giorno del suo funerale, scendevano dai balconi del paese natale a commemorare il suo martirio. Rimase libero come l’onnipotenza dell’amore. Così ha sparso il suo sangue, giovane ed impaziente come il Cristo, perché “non c’è redenzione senza spargimento di sangue”.

Ed è divenuto il simbolo della risurrezione delle nostre terre. Non sapeva, forse, che questo era il suo destino. Si riconosceva, solo, un povero ma solerte lavoratore “nella vigna del Signore”. Metteva volentieri tutta la sua vita e tutta la sua cultura nella missione universale della sua Chiesa. Una pastorale conciliare, convintamente praticata, rese la comunità, di cui don Peppino era parroco, un vigoroso popolo di Dio in cammino. Egli sapeva che se la vita dei cristiani non è conforme alla verità di Cristo, la verità finisce per scomparire dalla storia. E la verità di Cristo è l’amore per l’uomo. Bisogna riportare nella pratica cristiana la rivelazione del Padre, che continuamente crea, illumina, perdona, consola e salva.

Per questo, il parroco di Casal di Principe s’era fatto, “cultore della parola”. Se l’uomo del nostro tempo attende ancora qualcosa, è proprio la parola. Quella vera. Quella che non riporta soltanto il linguaggio di una politica, di una istituzione e di una consuetudine. Ma la parola che trasfigura l’uomo, la parola che fa nuova la vita: “Tu solo hai la parola della vita eterna”.

Ai giovani, che si congiungevano naturalmente alla sua attività pastorale, don Peppino presentava la “lectio divina” e parlava del Cristo con la soddisfazione intima di poter fare loro il dono più grande.
La parola è annuncio, è fede, è esempio, è quella pienezza dell’esistere in cui si esprime la gloria della vita. Come assistente degli scouts, in particolare, e dei giovani dell’azione cattolica don Peppino faceva pulsare la parola, che diveniva emanazione, risposta, appagamento ed edificazione. Insisteva appassionatamente, infatti, sulla necessità di ascoltare la parola, e di metterla in pratica (cf. Lc. 8,21). Sapeva bene che non sono “gli uditori, ma i facitori della parola ad essere giustificati davanti a Dio” (cf. Rm. 2,13). Lo avevano compreso molto bene i giovani, che nel giorno del suo funerale portavano scritto sugli striscioni: “Ti hanno ucciso, don Peppino, ma non potranno mai uccidere le idee che tu ci hai donato”. E intendevano dire: “soltanto tu, amico di Cristo Gesù, hai parole di vita eterna”.

E’ questa seduzione per la parola di Cristo a fare di don Peppino un cultore dell’altro. Imparò per vocazione che non avrebbe potuto per amore della propria vita perdere le ragioni del vivere. Il ben dell’altro, la giustizia dell’altro, la salvezza dell’altro, la pace, cioè, con ogni uomo, costituiscono le ragioni del vivere umano. Questo è tutto il significato dell'incarnazione di Cristo, è tutta la ragione d’essere della Chiesa. L’egoista, che cura soltanto la sua piccola persona, non crea, fa della sua vita una dissolvenza di morte.

In Terra di Lavoro, in particolare, la Chiesa aveva piuttosto imparato a difendersi con lo scudo crociato. Ma questo era un simbolo di potere che alla lunga tradiva la missione della Chiesa verso l’uomo. E don Peppino, in mezzo alle incomprensioni di tanti benpensanti, riprese la Croce di Cristo, libera e intera come nel venerdì santo, perché soltanto con quella croce si può perdere la propria vita per riconquistarla nell’apertura infinita della gloria. E con il suo ardore fondava nei giovani il volontariato. Un volontariato multiforme, ma sempre sollecito e profondamente comprensivo. Si rivolgeva con attenzione di madre ai suoi “ragazzi neri”.

Nella provincia di Caserta sono numerosissimi e smarriti gli immigrati di colore. Quasi tutti irregolari e clandestini vagano nelle nostre campagne, paurosi di qualche incontro sgradevole. Le forze dell’ordine li tengono d’occhio. Eppure hanno bisogno d’amore come ognuno di noi. La Chiesa nel sacramento del “Buon Pastore” e del “Samaritano Buono” dovrebbe considerarli come “figli prediletti”, perché sono i piccoli del Regno che attendono la sua integrale comprensione. Il sacerdote della Chiesa di Cristo, don Peppino, li amava tanto. Li aiutava sempre anche con grandi sacrifici. E stava costruendo per loro una bella “casa d’accoglienza”. Ma gli uomini invidiosi della bontà l’hanno fatto stramazzare sulla soglia.

A Casal di Principe, come in vaste zone della Campania tanti interessi brutali fanno contrasto con le opere della carità. E’ la camorra. Non tanto un deperimento organico della società locale quanto una serpe che succhia il sangue della gente e mette il veleno nelle coscienze. In questo territorio, per diverso tempo, si era preferito convivere con la delinquenza organizzata. Incuteva terrore e nel contempo poteva offrire qualche vantaggio. Diventava, così, sempre più appetibile il gusto dell’illegalità nell’animo del nostro popolo.

L’intervento di don Peppino, con gli altri parroci di Casal di Principe, riuscì ardimentoso e decisamente profetico. La camorra sa bene come misurarsi con le forze dell’ordine e con le pattuglie armate, sa bene come incantare la magistratura e le ambizioni politiche dei rampanti locali. Rimane svigorita di fronte all’emergenza dello spirito e alla sollevazione delle coscienze. E non valgono tanto le denuncie piazzaiole e le manifestazioni scenografiche. Sono anzi applaudite queste forme di vistosità dagli stessi interessati, che sviluppano su di esse i loro punti di onore e le loro leggende memorabili.

Ciò che introduce smarrimento nelle cosche camorriste e dissocia i loro piani, è l’imprenditoria morale, è l’organizzazione dei valori e soprattutto il coraggio dei volontari. Soltanto i grandi ideali possono maturare una controproposta alla malavita. E quando i grandi ideali si traducono in progetti di cultura della vita, di giustizia sociale, di promozione civile delle masse, allora le arroganze mafiose si intimoriscono e diventano barbaramente aggressive.
La scuola nella nostra zona dovrebbe essere la fucina della libertà e ricostituirsi quale cantiere delle espressioni più vere della convivenza umana. Ma specificamente la Chiesa ha un ruolo insostituibile nella produzione delle comunità. Il suo magistero e il suo ministero impediscono il letargo delle coscienze e rendono attivo il senso di responsabilità di ognuno. Essa supera la cura di un personalismo individualistico per far crescere un personalismo “cellulare”.
Una visione della persona-cellula, piuttosto che quella classica della persona-individuo, porterà la grande società a sentirsi organismo vivo e funzionale, in cui ognuno collabora al benessere dell’altro e degli altri. La Chiesa si impegna a costruire i bastioni della resistenza civile contro tutte le spinte di deformazione della collettività. La camorra infatti non si vince finché non si dà al popolo lo spirito nuovo della resistenza al male.

C’è riuscito don Peppino. Aveva portato la centrale della legalità e del vigore morale nella sua Chiesa. E tanti giovani e tanta gente ormai la frequentavano. Con i valorosi parroci di Casal di Principe aveva approntato quel grande documento: “Per amore del mio popolo”. Era la freschezza del Vangelo che faceva primavera di vita tra la sua gente: “come pastori siamo le sentinelle del gregge, e se non sempre in passato siamo stati abbastanza vigili, oggi non possiamo tacere contro i meccanismi perversi della camorra e dell’usura che schiacciano la nostra gente”.

Ho sempre pensato che questa forma di organizzazione parrocchiale e pastorale della legalità e della giustizia sociale costituisse una nuova pentecoste della nostra Chiesa. E’ la Chiesa del popolo, la Chiesa dei poveri, la Chiesa di tutti che considera peccati contro lo Spirito gli attentati contro la giustizia: evasione fiscale, assenze ingiustificate dal lavoro, disimpegno professionale, cultura della corruzione (intimidazioni, tangenti, estorsioni), raccomandazioni, interessi di lucro negli operatori sociali-sanitari-assistenziali, dispotismo politico piuttosto che professionalità del bene comune.

E i frutti ci sono e abbondanti. Penso che i funerali di don Peppino rappresentino una svolta storica della Campania. Le lenzuola bianche commentavano il dolore per la perdita e l’ammirazione per l’eroismo del prete buono, in ogni famiglia di Casal di Principe. Oltre ventimila persone presenziavano alle esequie e proclamavano che la gente sapeva ormai superare la paura e l’omertà e mostrava intatta la sua dignità morale. Si può credere ormai che il costume sociale è sano e lotta contro la malvivenza. Come in Sicilia anche in Campania, “il sangue dei martiri è seme rigoglioso di cristiani”. E la professione della fede nella libertà dell’uomo si svolge come corollario naturale della fede in Cristo Salvatore. E’ così che mafia e camorra scompariranno.

L’assassinio, come quello sul Golgota, ha reso pura e adamantina la testimonianza di don Peppino. Il quale è divenuto per tutti noi il cultore della risurrezione. Il cristianesimo è rivelazione di Dio, vissuta dai credenti della terra. La tentazione di renderlo ideologia, marchio sociale, è fortissima. La Chiesa che è la continuazione dell’incarnazione di Cristo nella storia, diventa facilmente, in corrispondenza con le richieste immediate dell’uomo, istituzione di una moralità universale, costruzione di un regime politico, organizzazione di una società con assistenze e garanzie temporali.

E’ la corsa insensibile della Chiesa verso la secolarizzazione. Mentre, essa non è mai “di questo mondo”. E’ sempre profetica, spirituale, escatologica. Il martirio di Don Peppino è l’immolazione che purifica. E la nostra Chiesa è, di nuovo, creatrice di vita e di avvenire. Il suo “sangue sparso” per la vita delle moltitudini è diventato l’impulso originario delle aurore della salvezza, il fermento incontenibile della nostra risurrezione."

Il giorno dei funerali di don Peppe, la gente si scioglie in un pianto liberatorio, partecipa al dolore della famiglia e degli amici. Migliaia di persone arriveranno per seguire il corteo. Tutto il paese é pieno di lenzuoli bianchi esposti in segno di lutto e di protesta contro la violenza. Persino la mamma del capo clan Francesco Schiavone, esporrà il lenzuolo bianco. Il corteo é tutto un pianto. Anche Casal di Principe, di certo abituata alla violenza, non si capacita che possa essere stato assassinato un prete. Questo sarà un colpo duro per i clan. Anche perché la Chiesa aversana rivendica la morte di don Peppino e lo fa suo martire. Le parole intense di mons. Lorenzo Chiarinelli, Vescovo di Aversa, pronunciate durante i funerali, pur non nominando mai la parola "camorra", rimangono come pietre scolpite nella memoria di chi era presente ai funerali.

"(...) Mi rivolgo a te, terra bagnata dal sangue di non pochi tuoi figli ed ora, da ultimo - e che sia veramente l'ultimo - da un tuo figlio che é prete e prete in mezzo a te. Un tempo questo lembo di terra era detto "Campania felice", oggi vede le nostre lacrime. Eppure in te ci sono energie positive, volontà generose; i tuoi giovani coltivano sogni di pace; gli occhi dei tuoi bambini guardano con incanto al futuro; la tua gente é capace di impegno e di tenacia. E allora? Terra di Casale e intero Agro aversano, bandisci le armi! Gettale via. Non ce ne siano più nelle tue case, nelle tue mani, nei tuoi pensieri. "Forgeranno le loro spade in vomeri; le loro lance in falci", cantava Isaia. Riscopriamo tutti insieme il fascino della legalità, della giustizia, dell'umanità, nella civile convivenza. Intorno a questi valori rifacciamo il tessuto delle nostre comunità. Ciascuno dia il suo contributo, come oggi ciascuno ha esposto il suo bianco lenzuolo: le istituzioni dello Stato, le forze sociali, le agenzie educative. Ad una realtà complessa e frammentata non bastano risposte semplicistiche e occasionali. Occorre progettualità che investa la dimensione produttiva e occupazionale, gli aspetti amministrativi e gestionali, gli spazi della educazione e il ruolo della famiglia. Nessuno può riuscire da solo: ciascuno da solo potrà al più sopravvivere, non vivere e tanto meno costruire il futuro. E' in questo senso che cogliamo con gratitudine e speranza la solidarietà espressaci in questa drammatica vicenda del Capo dello Stato e da tutte le altre massime autorità della Repubblica. Con noi sente e invoca questa solidarietà tutto il Paese e l'amministrazione comunale, che come noi piange questa tragedia e ha proclamato due giorni di lutto cittadino. E nel parlare di Casale la parola va alla mamma e al papà, ai familiari di don Peppino, così crudamente colpiti. Ai suoi parrocchiani, alle suore carmelitane, ai giovani, agli scouts, agli immigrati presenti, ai malati. Conservare la sua memoria é continuare ad operare il bene. Quanti avete ricevuto da lui, ora in suo nome donate. E il cammino continuerà....

Pochi giorni dopo, il 2 marzo del 1994, ci saranno le elezioni politiche. Per i progressisti vengono eletti al Senato Michele Corvino, amico intimo di don Peppino, e Lorenzo Diana, segretario provinciale del PDS, da anni impegnato sul fronte anticamorra.

di Raffaele Sardo,

tratto dal libro: NOGARO UN VESCOVO DI FRONTIERA

(Alfredo Guida Editore)

Il documento scritto e distribuito il giorno di Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana da don Peppino Diana e dai parroci della foranìa di Casal di Principe,

"PER AMORE DEL MIO POPOLO non tacerò"

…Una volta mentre celebrava un funerale e le stesse parole furono poi di don Tonino Bello.

Don Peppino era stanco di celebrare funerali

in una terra che aveva il primato

per morti ammazzati e morti bianche sul lavoro.

Iniziò così la sua provocazione:

"A me non importa sapere chi è Dio".

Non è difficile immaginare il brusio delle navate di una chiesa di paese

che sente pronunciare tali parole roventi:

"Mi importa sapere da che parte sta ".

Avere una parte,

essere in grado di capire ancora che natura ha un paese,

in che condizioni si trova,

come avvicinarlo con uno sguardo che voglia vedere,

vedere per capire,

per comprendere e per raccontare.

Prima che sia troppo tardi,

prima che tutto torni ad essere considerato normale e fisiologico,

prima che non ci si accorga più di niente...



“Il Natale lo si celebra sulle strade della vita, nell’impegno quotidiano per far nascere un mondo “altro”. A. Zanotelli

“Natale: Pasqua del Signore nella carne” – amava dire San Gregorio Magno”


Siamo preoccupati

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.

Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione.

Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che é la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

La Camorra

“…I figli delle famiglie che nascono in altri luoghi d’Italia a quell’età vanno in piscina, a fare scuola di ballo, qui non è così …Quindici anni è un’età che bussa alla coscienza di chi ciancia di legalità, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma con le unghie.”

P. Mauro al funerale di Emanuele, ragazzo quindicenne napoletano assassinato dalla camorra


La Camorra oggi é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.

I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.


Precise responsabilità politiche

E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.

La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.

Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Impegno dei cristiani

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno.

Dio ci chiama ad essere profeti.

- Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);

- Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);

- Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23);

- Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 58)

Coscienti che “il nostro aiuto é nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che é la fonte della nostra Speranza.

NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO

Appello

"Le nostre Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa;

Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinche gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace... abbiamo dimenticato il benessere... La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,... dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare... sono come essenzio e veleno”.

* Agli uomini della camorra:

- ritrovate la vostra vera dignità di uomini, creati ad immagine di Dio, fatti per il bene. Ripudiate ogni forma di violenza. Con Cristo vi diciamo:
«Convenitevi e credete al Vangelo» (Me, 1,15). Sappiate scrivere i vostri no­mi nel libro della vita e non in quello della morte.

* Alle famiglie:

- siate autentiche comunità educatrici ai veri valori della vita e della so­cietà. Amatevi e siate scuola di amore, di accogliena, di perdono, di dialogo e di rispetto. Educate i figli alla sensibilità verso i più deboli, verso gli an­ziani e i sofferenti; educateli alla verità, alla giustizia, alia generosità. Siate vere «chiese domestiche», in cui Cristo sia sempre presente come «via, verità e vita» (cfr. Gv, 14, 6).

* Agli educatori:

- la vostra esperienza di vita ispiri il vostro magistero. Fate intendere a tutti che, nella vita e per la vita, è bene e vale effettivamente soltanto ciò che suscita ed alimenta l'amore. Insegnate che vivere insieme è, e deve essere, palestra di reciproco rispetto, promozione ed affetto.

* Ai giovani:

- voi siete esposti alla tentazione della violenza e del facile benessere in una società che spesso vi offre soltanto esempi di violenza e di idolatria del benessere. Ma avete anche grandi risorse di generosità e di amore. La vita è un grande dono che ha vissuto nella fede e nell'amore. Sappiate amare i grandi ideali che costituiscono una vera storia dell'uomo, di ogni uomo, la sua grandezza e felicità. Con coraggio e lealtà, come è proprio della vostra età.

* Alle autorità e alle forze politiche:

- la vostra fedeltà al ruolo che esercitate e la vostra saggezza vi ispirino

una politica di risanamento effettivo della Campania, in cui trovino priorità le necessità ed i diritti fondamentali dell'uomo: la casa, il lavoro, i servizi so­ciali, l'istruzione per tutti. Il Mezzogiorno non deve marcire nell'assistenzia­lismo, che mortifica l'uomo e crea spazi per la violenza e per la camorra. Il vostro servizio a favore delle popolazioni, la vostra onestà e competenza, il vostro culto per la verità, la giustizia e la libertà, saranno di sprone e di so­stegno nella lotta contro la camorra ed alimenteranno la speranza fondata in un domani migliore e non troppo remoto. Le nostre genti ve ne saranno gra­te, più di quanto possa essere grata la camorra verso i dosonesti uomini pub­blici.

* Alle comunità cristiane:

- siate vere comunità di fede e di amore. Il fenomeno della camorra ci interroga in maniera perentoria sul nostro modo di essere Chiesa; oggi, in Campania, ci sfida ad essere una vera contrapposizione, una autentica pro­posta di civiltà, ad essere non solo credenti, ma credibili. Impegnamoci in una vera conversione lasciandoci formare da Cristo nella preghiera, nella Parola di vita, nei sacramenti, nella vita comunitaria, così che Cristo, per la nostra fede e il nostro amore, sia il cuore della Campania.

Rivivano le tradizioni presenti in tanta parte della nostra gente: la pace, l'accoglienza, il rispetto, la famiglia, la fedeltà.

La materna protezione della Madonna, tanto venerata nei santuari del­la nostra Regione, e l'intercessione dei nostri Santi Patroni, così cari alle no­stre popolazioni, ci sorreggano in questo impegno di rinnovamento della no­stra vita cristiana.


29 giugno 1982, Solennità dei SS. Pietro e Paolo.

Forania di Casal di Principe

(Parrocchie: San Nicola di Bari, S.S. Salvatore, Spirito Santo - Casal di Principe.

Santa Croce e M.S.S. Annunziata - San Cipriano d’Aversa

Santa Croce - Casapesenna

M. S.S. Assunta - Villa Literno

M.S.S. Assunta - Villa di Briano

SANTUARIO DI M.SS. DI BRIANO )



“Don Peppino prese anche posizione politica, chiarendo che la priorità sarebbe stata la lotta al potere politico come espressione di quello imprenditorial – criminale, che l’appoggio sarebbe andato ai progetti concreti, alle scelte di rinnovamento, e non ci sarebbe stata alcuna imparzialità da parte sua. Dichiarava:

“ Il partito si confonde con il suo rappresentante, spesso i candidati favoriti dalla camorra non hanno ne politica ne partito, ma solo un ruolo da giocare o un posto da occupare”

L’obiettivo non era vincere la camorra.

Come lui stesso ricordava:

“Vincitori e vinti sono sulla stessa barca”.

L’obiettivo era invece comprendere, trasformare, testimoniare, denunciare, fare l’elettrocardiogramma al cuore del potere economico come un modo per comprendere come spaccare il miocardio dell’egemonia dei clan.

…Tenendo sulla punta della lingua lo strumento, l’unico possibile per tentare di mutare il suo tempo. LA PAROLA.

E questa parola, incapace di silenzio, fu la sua condanna a morte”.

“Noi, pastori delle Chiese della Campania, non intendiamo limitarci a denunciare queste situazioni; ma, nell’ambito delle nostre competenze e possibilità, intendiamo contribuire al loro superamento, anche mediante una revisione e integrazione dei contenuti e dei metodi dell’azione pastorale”

Don Peppino non voleva fare il prete consolatore, che accompagna le bare dei ragazzini soldato massacrati alla fossa e bisbiglia “fatevi coraggio” alle madri in nero.

In un’intervista dichiarò:

“Noi dobbiamo fendere la gente per metterla in crisi”

In terra di camorra il messaggio cristiano non viene visto in contraddizione con l’attività camorristica: il clan che finalizza la propria attività al vantaggio di tutti gli affiliati considera il bene cristiano rispettato e perseguito dall’organizzazione.

…A Scampia nei laboratori di stoccaggio della droga spesso vengono tagliati 33 panetti di haschsh per volta, come gli anni di Cristo. Po ci riferma per 33 minuti, si fa il segno della croce e si ritorna al lavoro.

…A Pignato Maggiore il clan Lubrano fece restaurare a proprie spese un affresco raffigurante una madonna: E’ detta la “Madonna della camorra”, poiché a lei si sono rivolti per chiedere protezione i più importanti latitanti di Cosa Nostra fuggiti dalla Sicilia a Pignataro Maggiore.

Don Peppino iniziò a mettere in dubbio la fede cristiana dei boss, a negare esplicitamente che ci potesse essere alleanza fra credo cristiano e potere imprenditoriale, militare e politico dei clan.


Don Peppino volle iniziare a fare chiarezza sui sul significato della parola “FAMIGLIA”:

“La camorra chiama “famiglia” un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà, la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di “famiglia”, strumentalizzando perfino i sacramenti.

Per il cristiano, formato dalla scuola della Parola di Dio, per “famiglia” si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l’amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve.

La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime”.

Don Peppino era stato chiaro:

“Non permettere che la funzione di “padrino” nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l’onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale”.

Tratto da : Gomorra, di R. Saviano

PER L’ITALIA E PER LA CHIESA: LA MEMORIA DA RITROVARE. L’ "URLO" DI DON PEPPINO DIANA.

«La camorra ha assassinato il nostro paese, noi lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti e riannunciare la "Parola di Vita"». Riflessioni di don Ciotti per la nuova biografia realizzata da Rosario Giuè - a cura di pfls

venerdì 16 febbraio 2007.

Degli stessi autori

[...] Un prete di quella Chiesa campana che nel giugno 1982 aveva avuto il coraggio di dire forte «basta!», con un documento dal titolo eloquentemente ispirato al profeta Isaia: Per amore del mio popolo non tacerò. Un grido di dolore, oltre che di amore. Elevato senza animosità, ma con molta nettezza. Un implicito punto di non ritorno rispetto a pezzi di Chiesa tradizionalmente attenti a non addentrarsi nei temi relativi a mafia e criminalità organizzata.

In quel fondamentale testo c’era un invito alla coerenza ineludibile [...]

Una memoria da ritrovare

Esce una nuova biografia di don Peppino Diana, ucciso nel '94 dalla criminalità organizzata. La prefazione di don Ciotti

Il prete anticamorra

Era parroco a Casal di Principe e quattro proiettili lo colpirono mentre si stava preparando alla Messa. Aveva paragonato la camorra al terrorismo

Fu l’espressione di una Chiesa che si schiera e sceglie di non tacere per difendere
una comunità assediata dalla violenza. A costo del martirio

Di Luigi Ciotti

Don Giuseppe Diana è morto, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994 nella sacrestia della chiesa di cui era parroco, a Casal di Principe, nell'Agro aversano. Si stava preparando a celebrare la Messa, quando quattro proiettili ne hanno spento per sempre la voce terrena. Una voce che predicava e denunciava, che ammoniva ma sapeva anche sostenere. Che sapeva uscire dalla sacrestia e scendere dall'altare per andare incontro alle persone, rinnovando un'autentica comunione.
Era entrato in seminario giovanissimo a qualificare i suoi studi e a verificare la sua vocazione. Un percorso non scontato e non lineare, a tratti sofferto e dunque tanto più vero. Un prete di quella Chiesa campana che nel giugno 1982 aveva avuto il coraggio di dire forte «basta!», con un documento dal titolo eloquentemente ispirato al profeta Isaia: Per amore del mio popolo non tacerò. Un grido di dolore, oltre che di amore. Elevato senza animosità, ma con molta nettezza. Un implicito punto di non ritorno rispetto a pezzi di Chiesa tradizionalmente attenti a non addentrarsi nei temi relativi a mafia e criminalità organizzata.

In quel fondamentale testo c'era un invito alla coerenza ineludibile. Lo stesso che ci viene dalle Scritture, che è testimoniato nel Vangelo. Quando un popolo soffre, quando una comunità è ferita, quando la dignità umana è schiacciata e messa a rischio non ci si può voltare dall'altra parte. Occorre ascoltare l'invocazione di giustizia e farla propria. «Sentirla» propria... Come ha scritto, al solito profetico, don Tonino Bello: «È una Chiesa che, pentita dei troppo prudenti silenzi, passa il guado. Si schiera. Si colloca dall'altra parte del potere. Rischia la pelle. Forse non è lontano il tempo in cui sperimenterà il martirio». Era il 1992. L'anno successivo, a Palermo, veniva ucciso don Puglisi, parroco di Brancaccio; sei mesi dopo don Diana.

Eppure, don Peppino, non era un tipo coraggioso: «Aveva paura come tutti. Era un uomo normale, il coraggio gli ven iva dalla decisione di essere coerente nella vita». Il prezzo della coerenza può essere grave e pesante, sino alla perdita della vita, come tragicamente dimostra la vicenda di don Diana. Un rischio e un prezzo che naturalmente può incutere timore, provocare esitazioni e magari spingere a permanere nella «diffusa rassegnazione». Come non capirlo? È una reazione profondamente umana. Ma anche scarsamente capace di guardare per davvero a quelli che sono i valori e significati che danno pienezza a quella vita cui tutti, naturalmente, teniamo. Il prezzo dell'incoerenza, infatti, è molto più salato: è lo smarrimento di sé. Che vita è mai quella in cui un uomo non è in grado di riconoscersi, di discernere vero da falso, bene da male? Che vita è quella che per preservare l'involucro si lascia depredare del contenuto?

Le mafie questo fanno: tolgono diritti, dignità, vita. Non solo con le armi, uccidendo e violentando i corpi, ma svuotando le anime e assassinando la speranza. La rassegnazione dello spirito, l'umiliazione della dignità, la costrizione a rinunciare alla propria coerenza sono una morte altrettanto dolorosa e ancor più irrimediabile della fine fisica. Uccidono non solo i singoli ma la collettività: «La camorra ha assassinato il nostro paese, noi lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti e riannunciare la "Parola di Vita"», annotava in un articolo don Peppino.
È in quel «noi» la risposta: nella comunità che si riconosce tale, che include e, così facendo, si realizza e si rafforza. Un «noi» che significa unione e collaborazione tra uomini e donne di buona volontà e tra società e istituzioni. E anche questo aspetto è significativo nell'esperienza del sacerdote di Casal di Principe. Una cultura che nel Mezzogiorno, troppo spesso abbandonato e svilito dallo Stato, è ancora più difficile da affermare. Ma da cui non si può prescindere, se ci si vuole liberare dal tallone di ferro della criminalità e se si vuole consegnare ai giovani un sogno di reale e conc reto cambiamento...

«La camorra è una forma di terrorismo», ha scritto nel Natale 1991 don Diana, assieme ad altri sei sacerdoti campani. Una definizione importante, su cui probabilmente non si è riflettuto abbastanza.

Quello di Peppino Diana è stato un tragitto purtroppo spezzato e interrotto, ma comunque capace di restare preziosa e perenne testimonianza: di coerenza e di fede, di impegno e di ricerca. Capace di fruttificare, e questo è ciò che rende la vita vera, per quanto breve essa sia stata. Sono calzanti le parole scritte sulla pietra dietro cui riposa don Peppino: «Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace».

* Avvenire, 16.02.2007

Roberto Saviano, in "Gomorra, dedica un intero capitolo a don Peppino Diana. Sul libro di Saviano, nel sito, cfr.:

ITALIA: NAPOLI ... UNA "GOMORRA", UN INFERNO!!! Un ’resoconto’ e una denuncia di Roberto SAVIANO - http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1148

Su gli altri temi, nel sito, cfr.:

CHIESA, POLITICA, E ... "MAMMASANTISSIMA". INTERVISTA AL CARDINALE PAPPALARDO

MAFIA: LA CHIESA, L’ITALIA.... e W O ITALY. L’URLO DI KAROL J. WOJTYLA AD AGRIGENTO (1993) - http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1129

Verona. IV Convegno Ecclesiale della Chiesa Cattolica. Prolusione del Card. Dionigi Tettamanzi. Già dall’inizio, quasi un aut-aut. La parola del Dio-"Caritas" (Mammona) o la Parola del Dio-"Charitas" (Amore)?! - http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1271



Il 19 marzo del 1994, quattro colpi di pistola sparati da un camorrista, uccidono don Peppino Diana.
Don Peppe Diana, un martire che la chiesa non rivendica

CASAL DI PRINCIPE

Sono passati 7 anni da quel 19 marzo del 1994, ma il ricordo di don Peppe è sempre vivo. Sette lunghi anni da quando don Peppe ci ha lasciati che hanno contribuito a rafforzare la consapevolezza che la camorra, come lui sosteneva, si può sconfiggere. Lui fu ammazzati per questo, per la sua coerenza, per gli impegni che aveva preso con i suoi giovani, con i giovani dell'agro aversano e con quei pochi che ebbero il coraggio di sostenerlo.

La camorra lo ha ammazzato per dare un esempio, per abbattere un simbolo che stava diventando pericoloso. Ma così è diventato ancora di più un simbolo, per tutti, anche per quanti non lo hanno conosciuto. Era una persona normale, non un eroe, uno coraggioso si. Per questo è stato ucciso, per questo lo hanno ucciso. Ma c'è stato chi ha tentato di ucciderlo anche dopo morto. Lo volevano delegittimare, con l'obiettivo di delegittimare quanti in questi anni, nel nome e nell'insegnamento di don Peppe, si sono mossi per contrastare i poteri criminali.

C'è chi vuole dimenticare e chiudere tutto come una faccenda privata accaduta in una cittadina, si sa, di tradizioni violente. Non è così, e non è così semplice. La Chiesa locale, prima di tutto è tra questi. Celebra i cardinali in vita, tributando loro l'onore dei potenti ma dimentica di ricordare i martiri che anno testimoniato il Vangelo. E' il segno dei tempi. Ma c'è un'altra chiesa, quella più autentica, che non dimentica e non vuol far passare tutto sotto silenzio. Ci sono anche gli amici di don Peppe che non dimenticano e le associazioni di volontariato che si organizzano e crescono. Crescono nella consapevolezza che una nuova stagione è già iniziata: quella della rinascita e della ricostruzione del tessuto sociale che ha partorito il cancro della camorra.

Tanti giovani sono morti. Tantissime famiglie sono state distrutte dall'odio e dalla violenza. La morte di don Peppe Diana è il seme nuovo che sta dando i suoi frutti. Se saranno rigogliosi dipenderà da quanto e da come questi semi saranno aiutati a germogliare. Chi lo vuole dimenticare e chiudere in un ambito di una storia privata la sua morte, vuole far marcire i semi nati dal suo sangue.

Manifesto per ricordare una semplice vita

DON PEPPINO

i nostri occhi non ti vedono piu':
ancora una volta
c'e' una grande pietra che chiude una tomba.
Ma tu vivi
nel mistero di Dio, nella fede della tua Chiesa,
nel cuore di ognuno di noi.

Dal tuo sacrificio
come torrente in piena sgorga la speranza.
Il corpo puo' morire, l'anima mai:
l'amore non puo' essere vinto dall'odio.

Germoglia una nuova vita
che e' pace, fraternita', gioia.
E questa gioia
a te, don Peppino, ed a noi
nessuno ce la potra' rapire

(per il 10° anniversario della morte di don Giuseppe Diana)

“La camorra è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi...”, così scriveva don Giuseppe Diana, insieme agli altri parroci della forania di Casal di Principe, nel documento Per amore del mio popolo, pochi anni prima d’essere ucciso, mentre s’accingeva a celebrare la messa, il 19 marzo 1994.

“I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento, e oltre, sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti, il cui uso produce a schiere giovani emarginati e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali...

“Ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione””.

Il messaggio, l’impegno e il sacrificio di don Giuseppe Diana non possono essere dimenticati.

Il ricordo di una semplice vita, quale quella di don Peppe Diana, è il ricordo delle tante vittime innocenti, spesso dimenticate, che hanno insanguinato le strade delle terre occupate dalle mafie.

Gli anni trascorsi dall’uccisione di don Peppe, testimoniano che, passati i clamori, nel silenzio e nella dimenticanza, oltre ad una semplice vita, si può ammazzare anche la memoria e il sacrificio di un martirio.

Il silenzio, la disinformazione, la diffamazione che hanno caratterizzato gli avvenimenti giudiziari sulla morte di don Peppe Diana, segnalano all’attenzione pubblica il diritto-dovere ad una veritiera e libera informazione, sia a livello locale, che nazionale.

L’uccisione di una semplice vita diventa, per noi, un simbolo di nuova vita.

Il sacrificio di don Giuseppe Diana diviene l’occasione per riflettere nuovamente sulle barbarie della criminalità organizzata e sull’impegno per la legalità, lo sviluppo, la costruzione di una Comunità alternativa alle mafie, a cui tutti siamo chiamati a contribuire.

Per rendere vivo il ricordo delle vittime della mafia e l’impegno concreto alla costruzione di un futuro libero,

noi non dimenticheremo, noi ci saremo!

Attuali sottoscrittori

Regione Campania - Assessorato all’Istruzione ed alle Politiche sociali, Assessorato alla Sicurezza Urbana, Assessorato alle Attività Produttive ed Assessorato all’Agricoltura, Provincia di Caserta, Azienda Sanitaria Locale Ce2, Ufficio scolastico regionale per la Campania, Centro Servizi Amministrativi Provinciale Caserta (ex Provveditorato agli Studi), Comuni di Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa, Casapesenna e Villa Literno, Consorzio Agrorinasce, Dfensore Civico Nazionale degli Immigrati, Forania di Casal di Principe, CDAL - Diocesi di Aversa, Diocesi di Caserta, Centro di documentazione anticamorra della Regione Campania, Libera, Legambiente, Agesci, Forum del Terzo settore, Comunità di vita Cristiana, Cgil-Cisl-Uil provinciali, Il Mattino, lo Spettro on line, La nuova Ecologia, Il Dialogo, Università per la legalità & sviluppo, Forum dei giovani dell’Agro aversano, associazione Eleonora Pimentel, Cantiere "Città dal basso" rete sociale e istituzionale dei territori Vesuviani, coop. soc. Solesud onlus, Associazione Jerry E. Masslo, Scuola di Pace don Peppe Diana, Associazione Omnia onlus, Associazione Popoli senza frontiere, Circolo Ager, Associazione Santuario Madonna di Briano Onlus , Associazione Fango, Fondazione Don Peppe Diana

Hanno inoltre aderito a titolo personale numerose autorevoli personalità, cittadini e cittadine del territorio.

Ulteriori adesioni possono essere inviate all’email solesud.onlus@libero.it, tramite fax al n° 0818167001 o al sito internet www.dongiuseppediana.it

Grazie

di Raffaele Nogaro

vescovo di Caserta

Che gran morte, don Giuseppe. Grande come la vita gloriosa del Padre. Grande come tutta la redenzione dell’uomo.

Grazie, don Giuseppe.

Hai ridato la trasparenza di Cristo alla nostra Chiesa.

Hai riscattato il popolo di Dio che attendeva il sangue del martire per confermare la sua fede.

Grazie, don Giuseppe,

perché hai pagato da sacerdote del Signore.

La tua morte è un’esultanza di vita come quella di don Puglisi, come quella del tuo amato monsignor Romero.

È quella vita nuova

che porta il fervore della libertà a tutti gli oppressi.

Il tuo gesto è divino.

Anche oggi gli uomini di Dio sanno morire perché tutte le genti abbiano la vita e l’abbiano pienamente.

Avevi appena stilato il manifesto della rinascita

“Per amore del mio popolo"

quando ti incontrai all’istituto “Mattei’ di Caserta, dove la tua voce, contro le organizzazioni del crimine, era ferma e paterna,

come quella dl un profeta.

Nella tua testimonianza avevo visto

una Chiesa nuova,

una Chiesa non più compromessa con Il potere,

una Chiesa di Cristo.

Una Chiesa della libertà e dell’amore.

Grazie, don Peppino,

per la grazia infinita della vita che hai donato a me e al miei fratelli.

Non ti dimenticheremo più:

sei il sacramento della nostra vittoria.

Sei la primavera dell’amore,

che si diffonde stupenda sulla nostra terra.


Riflessione di Alex Zanotelli:

Una realtà, quella della camorra, molto pesante: ha le mani sulla grande Napoli (oggi una metropoli con oltre 4 milioni di abitanti) e fa affari d’oro (non solo sulla droga, ma soprattutto sui rifiuti). Pochi hanno descritto così bene le mani della malavita sul territorio metropolitano come Saviano (che ho avuto la gioia di conoscere presentando il suo libro a S. Maria Capua Vetere) nel suo potente libro Gomorra. La realtà mafiosa è sempre più potente non solo a Napoli, ma in tutto il sud, in particolare in Sicilia (Cosa Nostra) e Calabria ,dove regna la ‘ndrangheta che è oggi la regina delle organizzazioni criminali.

Come celebrare il Natale in un clima così pesante, oppressivo…? Come celebrare il Natale in questa Napoli degradata (dalla Sanità a Scampia) davanti alla Napoli bene del Vomero e di Posillipo? “Nessuno può dirsi innocente” - ha detto recentemente il nuovo vescovo di Napoli il Card. Sepe che in un lungo colloquio mi aveva dato il suo benvenuto - “Alcuni, anche della cosiddetta Napoli bene, hanno pensato a salvare la pelle. O un posto. E lo spazio della città intesa come civile convivenza si è ritratto, assottigliato.” Il card. Sepe ha usato toni molto forti per descrivere questa città: “Il materialismo esasperato, le sacche di ferocia, l’omertà, la camorra e i poteri oscuri…Questa comunità è come un tossico che trova equilibrio nello stare curvo su se stesso”.

“Come parlare del Dio della vita nel “cantone” dei morti? Come annunciare l’amore di Dio in mezzo ad un così profondo disprezzo per la vita umana? Come proclamare la risurrezione del Signore lì dove regna la morte?” queste parole di Gustavo Gutierrez, teologo della liberazione del Perù, mi sono ritornate con forza alla mente mentre camminavo per le strade del rione.

Ma noi ci ostiniamo a credere che quel povero Cristo, crocifisso dall’Impero Romano, è vivo. Noi ci ostiniamo a far sbocciare segni di vita e di risurrezione. “Continuo a “pubblicare” utopia, impegno, trasparenza, vita – ha scritto nella sua ultima lettera il vescovo P.Casaldaliga. E ricordiamoci che l’utopia deve essere verificata nella prassi quotidiana, che la “speranza si giustifica in quelli che camminano” e che “ci è data per servire i disperati’. Per questo servizio, penso oggi, ci sia richiesto soprattutto una testimonianza coerente, una vicinanza samaritana, una presenza profetica”.

A voi tutti auguro un buon cammino,esortandovi con le parole di Turoldo,una di quelle splendide guide che oggi con gioia ricordiamo:“Anima mia canta e cammina. E anche tu fedele di chissà quale fede; oppure uomo di nessuna fede: camminiamo insieme. E l’arida terra si metterà a fiorire, Qualcuno – colui che tutti cerchiamo – ci camminerà accanto”.

A. Zanotelli – tratto da :
"lettera agli amici", Natale 2006


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