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Francesca del GIM di Bari racconta una serata sulla governance migratoria

Migrazioni: rischio o opportunità? Al di là della logica delle tifoserie…

Martedì 19 marzo, presso la Casa dei Missionari Comboniani di Bari, si è svolto il terzo incontro del ciclo i “Martedì della conoscenza”: un giorno per fermarci e conoscere, informarci, riflettere criticamente per poi agire criticamente. Vi hanno preso parte, in qualità di relatori, il prof. Luigi Pannarale, ordinario di Sociologia del diritto all’Università di Bari, e don Gianni De Robertis, direttore nazionale della Fondazione Migrantes.

L’incontro, sul filo conduttore del tema delle migrazioni, ha riguardato in particolare la
questione della governance migratoria, che porta in sé una domanda fondamentale: le migrazioni sono un rischio o un’opportunità? Ma fino a che punto è giusto porre questa alternativa?


Si è partiti dall’importanza dell’art.10 della Costituzione italiana il quale ci ricorda il diritto d’asilo, fondamentale per le persone immigrate in territorio italiano: «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Un «impegno solenne» – così definito dal prof. Pannarale – che certamente non può essere trascurato proprio nella misura in cui è assunto dalla più alta fonte del diritto italiano.


Ma se il diritto d’asilo è un impegno solenne sancito dalla Costituzione, perché il problema dell’immigrazione è un problema di ordine pubblico? Perché, cioè, il riconoscimento dei diritti alle minoranze etniche diventa un problema di sicurezza? Per le difficoltà che un cittadino straniero ha di entrare in Italia e risiedervi in modo legittimo. La maggior parte degli stranieri – chiarisce il prof. – arriva in Italia innanzitutto a mezzo aereo – e non con i barconi, come siamo portati a pensare a causa di un certo ingigantito influsso mediatico – e muniti di visti per lavoro o per studio che, trascorso un certo periodo di tempo, scadono e ci si ritrova nella condizione della «clandestinità», categoria non giustificata dall’ordinamento giuridico italiano, ma che si viene a creare proprio per questa situazione di illegittimità. In questo modo, il problema immigrazione diventa di ordine pubblico perché lo straniero si ritrova a sopravvivere sul territorio italiano in modo non lecito, attraverso forme che non gli consentono l’accesso ad una vita pubblica da cittadino. Si è portati a pensare che l’effetto, e perciò la risoluzione al problema della clandestinità, sia l’adozione di un Decreto «sicurezza», che dovrebbe in questo senso garantire una sicurezza pubblica di contro ad una «insicurezza» provocata dal clandestino. In realtà il decreto non ne è che la causa. Una dimostrazione di questo è l’abolizione, nel suddetto decreto, del permesso di soggiorno per motivi umanitari, misura di protezione che veniva garantita agli stranieri privi dello status di rifugiato politico. Conseguenza di ciò è il diventare «clandestini», cioè la perdita dello status di soggiorno legittimo degli immigrati ospiti dei centri di accoglienza straordinari che si sono ritrovati così a soggiornare in modo illegittimo su territorio italiano. Un circolo vizioso provocato dal Decreto e non risolto. Una situazione di irregolarità prodotta paradossalmente dalla legge e non tutelata.


C’è anche da chiedersi quali sono i motivi umanitari, cioè cosa racchiudere sotto la categoria dell’«umanità» e cosa escludere. È il problema della differenza ambigua posta tra scopi economici e scopi umanitari. Può una situazione di deprivazione economica essere differente rispetto ad una deprivazione di tipo umanitario? Il non riuscire a sopravvivere perché non si dispone delle risorse economiche necessarie, può essere distinto dall’umano? La risposta è evidentemente negativa, se è vero infatti che, non disporre di risorse economiche non permette di vivere umanamente e dignitosamente. Così come, lo stesso fatto di considerare l’immigrato una «risorsa» in grado di aumentare il PIL di uno Stato, è una pura riduzione della sua «astratta nudità dell’essere-uomo» (H. Arendt) alla sua utilità. L’umano è ridotto all’utile, anzi, l’umano ha «diritto di avere diritti» (S. Rodotà) in quanto è utile alla società in cui vive, altrimenti la sua pura umanità è paradossalmente inutile.


Da qui, l’espulsione: è più facile vietare piuttosto che riconoscere diritti. Non solo. Il problema è che l’espulsione ha dei costi più elevati rispetto all’accoglienza, con dei risultati esigui (cfr. http://www.osservatoriomigranti.org/) e non bisogna neanche cadere in quel «trabocchetto dialettico artificioso» che porta a pensare che le politiche di accoglienza escludono quelle di sostegno ai territori e viceversa. Perché prima del diritto all’emigrare, dovrebbe essere garantito il diritto a restare nella propria terra e il diritto allo scegliere dove andare, così come proposto dalla Dottrina Sociale della Chiesa.


Ed è proprio su questo che si è incentrato l’intervento di don Gianni De Robertis. Bisogna innanzitutto riconoscere che l’immigrazione è un problema. Ma non bisogna, per questo, «alimentare la logica delle tifoserie» che porta a schierarci «pro» o «contro» immigrati, su due linee parallele che non si incontreranno mai. Bisogna, invece, creare opportunità di ascolto/confronto all’interno delle quali si scopre come non sempre chi sostiene di essere a favore dell’accoglienza è allo stesso tempo pro-migranti, così come non sempre chi ha dei dubbi riguardo l’accoglienza è, al contrario, anti-migranti.


Lo stesso Papa Francesco non menziona il termine «accogliere» da solo, ma unitamente ad altri tre verbi-azione che ci inducono ad interessarci al dopo, a cosa accade alle persone una volta accolte: proteggere, promuovere, integrare. Guardare ai «migranti» come persone che hanno un nome e una storia e che non sono, invece, una categoria astratta, cambia prospettiva e ci introduce in un’ottica di fratellanza universale propria del katholikós. Non bisogna però commettere l’errore di interpretare il problema immigrazione come un’esclusiva questione ecclesiastica: è tanto improprio parlare dell’immigrazione in soli termini di sicurezza, quanto parlarne in soli termini di «Caritas», intendendo con questa parola non solo l’organismo pastorale della CEI, ma anche la caritas cristiana dell’essere benevolenti nei confronti dell’altro, ma al contempo riconoscerne lo stato di bisogno e di povertà.


È più facile stigmatizzare, declassare l’uomo a una mera categoria piuttosto che conoscerne la storia.
Talvolta, però, anche questo diventa un problema se è vero infatti che – come sottolinea un’avvocatessa volontaria impegnata nel supporto al riconoscimento dello status di soggiorno regolare di persone migranti – molto spesso è difficile, per queste persone, esprimere in un formulario predisposto, i motivi della migrazione e la propria storia. Come possono tre righe di risposta racchiudere la storia di una persona o i motivi che l’hanno indotta a lasciare la propria terra d’origine? E, quel che è peggio, come può un giudice basarsi su questo foglio compilato – forse anche linguisticamente in modo scorretto – per poter concedere o meno un permesso di soggiorno? In questo senso il problema migrazioni non tocca solo una dimensione sociale e politica, ma anche giurisprudenziale nella misura in cui interroga e individua dei limiti di un sistema giuridico e lo costringe a ri-sistematizzarsi.


Quante persone migrano da e verso il nostro territorio? Ciò che ci spaventa, probabilmente, non è tanto il migrare in sé, quanto chi migra e in quale misura possiamo sentirci a loro simili. In questo modo scopriamo come il problema non è tanto lo spostarsi, quanto piuttosto l’estraneità, quel bagaglio culturale che non ci appartiene ed evidentemente diverso rispetto al nostro vivere quotidiano, rispetto alla nostra cultura, ma che non può fare a meno di portare con sé chi si sposta. Più si creano occasioni di incontro e di conoscenza reciproca, meno avvertiremo questa distanza.

 

Francesca Pepe, GIM di Bari

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