Ventimila
persone convergono sui temi della giustizia e della pace,
non solo per ascoltare relatori qualificati su temi
internazionali e nazionali (padre Zanotelli; Magouws dal
Sudafrica e Valdênia dal Brasile, donne; don Luigi Ciotti;
padre Arturo Paoli; il procuratore Caselli; Giulietto
Chiesa, giornalista; il vescovo Bregantini; Moni Ovadia,
attore - vedi pag. 27), ma per dire come stanno mettendosi
in gioco personalmente nei loro territori per arginare una
deriva sociale fatta di consumismo e individualismo spesso
conditi con un cristianesimo di facciata.
Come
lo vogliamo chiamare? Un evento? Troppo poco. Un movimento?
Troppo generico. Società civile? Ecco, sì, una porzione di
società civile viva e organizzata, di matrice cattolica,
con ampie presenze di cultura laica, nonviolenta. E che
tiene per orizzonte il mondo: la qualità della vita della
gente – degli impoveriti anzitutto – e dell'ambiente
toccatole in sorte.
Dopo
la positiva esperienza del Giubileo degli oppressi del 2000,
sono stati i missionari comboniani a volere la carovana
della pace. Ma a muoverla, dal 5 al 15 settembre, sono state
le associazioni e i gruppi attivi da Verona a Mestre, da
Trento a Milano, da Genova a Firenze, da Terracina a
Molfetta a Pesaro a Bologna.
Una
carovana che ha percorso e svelato almeno tre piste.
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A
giudicare dalla qualità e dalla quantità della
partecipazione, dall'entusiasmo e dalle modalità
spicciole con cui la gente si è incontrata e si è
guardata in faccia (balli, canti, abbracci), si deve
dedurre che occasioni come questa rispondono al bisogno
di rinvigorire le proprie ragioni e di ricaricarsi.
Stare insieme non semplicemente per capire, per
scambiarsi idee. E invece per respirare un'appartenenza,
una progettualità prima di tutto esistenziale, per
vivere una "spiritualità ecumenica", direbbe
Alex Zanotelli.
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Dentro
la società civile, e siamo alla seconda pista, stanno
emergendo realtà che fanno scelte radicali, molto
decise e, al dunque, molto politiche. Sono qualcosa di
più di un gruppo o di un'associazione. Sono piccole
comunità, per lo più cristiane, che provano a vivere
in maniera alternativa rispetto a quello che propone e
impone l'ideologia dominante. Comunità alternative per
il modo di consumare, per l'impiego del tempo, per le
relazioni fraterne che instaurano. Comunità di
resistenza, anche culturale - tutt'altro che avulse anzi
ben radicate nel territorio dove vivono – che possono
aiutare a ricostruire quel tessuto comunitario che non
di rado manca alla stessa società civile.
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La
terza pista ci dice che là dove questa società civile
sa mettersi in rete e lavorare con coesione diventa
interlocutrice delle amministrazioni locali. Diventa cioè
in grado di orientare la progettualità politica, di
ampliare i diritti di cittadinanza, di portare
contributi originali nei campi della cultura, della
formazione, dell'informazione.
La
primavera scorsa scrivevamo, proprio in questa pagina, che
«una società civile incapace di incidere nel paese reale e
rinchiusa in una riserva a contemplare il proprio ombelico»
risulta sterile. Quell'editoriale, ma non solo
quello, ha aperto un dibattito. È chiaro che tanti
interrogativi rimangono aperti: che cosa intendiamo
veramente per società civile, chi ne fa parte, come si
struttura, chi parla per lei, il ruolo delle chiese e dei
sindacati… C'è tanto da lavorare. Ora però abbiamo la
conferma che tanta gente è disposta a farlo.
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