La Pace nelle nostre mani

 

Montesole: 

i testimoni dell'eccidio

 

Carovana della Pace 2003 

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Abbiamo ricevuto dalla comunità dei monaci di Montesole questo resoconto (molto duro) dei testimoni della strage di Marzabotto. Lo condividiamo con voi perchè il nostro fare memoria e camminare su quella terra insanguinata sia gesto di intercessione e segno di alleanza con tutte le vittime. Mai più la guerra: dipende dal nostro impegno di ogni giorno!

Leggi l'esperienza di Francesco Pirini, sopravvissuto alla strage.

Ti chiediamo, al termine di questa lettura, di chiedere con noi l'intercessione dei martiri di Montesole con la preghiera in poesia "Le querce di Montesole"

 

 

I luoghi della strage di Marzabotto

 Schede storiche riassuntive delle principali testimonianze sui fatti accorsi nelle singole località oggi comprese nell'area del Memoriale.

(Dalle ricerche storiche effettuate dalla dott. Beatrice Magni).


Scheda storica n° 1: Caprara di Sotto

 "La prima menzione medioevale del luogo risale all'851, quando Willari, prete bolognese, dichiara solennemente in un documento di aver ceduto l'anno prima al conte Auterammo di Modena vari suoi beni, fra cui la sua portionem de porto qui vocatur Capraria, che non può evidentemente essere stato situato nel luogo esatto di oggi, dal momento che Caprara si trova sulle colline fra Reno e Setta, ma che doveva ad ogni modo controllare la navigazione di un o dei due importanti fiumi. Del castrum di Capraria, oltre che del semplice locum Capraria, parla invece una carta di quasi due secoli più tardi; nel 1042 infatti fu registrata nel castrum qui vocatur Capraria una donazione di terre poste nella montagna bolognese, da parte di varie persone pure di Caprara, in favore del monastero di S.Salvatore a Fontana Taona. Si specifica inoltre che il borgo si trova infra plebe S. Laurencii qui vocartur de Panico, il che suggerisce il suo gravitare più sull'orbita renana che non sulla valle del Setta. Ancora nel 1061 ne è testimoniata l'esistenza: i quattro figli di Bonado di Caprara fanno una cospicua donazione al monastero di S. Bartolomeo di Musiano. Altri due personaggi provenienti da Capraria compaiono in carte del XII secolo: Lamberto figlio del fu Redulfo di Caprara testimonia nel 1111 in una concessione enfiteutica, mentre Giovanni, figlio di Martino da Caprara nel 1113 dona alcune terre alla chiesa di S. Vittore. Antichissimo nucleo, un chilometro circa a nord-est della parrocchiale di S. Martino, che costituiva nel Duecento, con Casio, uno dei vicariati della montagna. Citato nell'elenco del 1223, vi furono poi rilevati 28 fumanti dal cardinale Anglic nel 1371, mentre all'epoca del Calindri in questo ambito parrocchiale risiedevano 314 individui in 50 famiglie. Per la chiesa si rimanda alla scheda relativa, mentre per l'abitato, già distrutto nel 1944, si rimanda alle foto del Fantini. La completa distruzione di questo borgo ha interessato edifici di particolare pregio storico ed architettonico. La località fu fino al 1851 la sede comunale dell'attuale comune di Marzabotto". Provincia di Bologna, op. cit., p. 11.

"In questo luogo, prima dell'eccidio, vi era un gruppetto di case ove abitavano una decina di famiglie, quasi tutti agricoltori. 1 campi erano tutti sottostanti alle case con un suolo ondeggiante, ma abbastanza fertile da raccogliere abbondanti prodotti. I contadini avevano le stalle piene di bestiame, che quando usciva per il lavoro nei campi dava l'idea di un mercato; i giovani menavano i bovini in fila per andare ad arare la terra. Qui c'era anche la bottega del barbiere e quella dei generi alimentari; in un tempo abbastanza non lontano c'era anche la sede comunale, che venne poi trasferita a Marzabotto. Allora le famiglie erano formate da molti giovani e ragazze che nei mesi invernali si dedicavano ad altri lavori, chi faceva le scope, chi i cesti di vimini. Veramente il luogo di Caprara è scomparso, cancellato dalla memoria umana, ma per un istante voglio ricordare la magica fontana, così la chiamavano le vecchierelle. Della magica fontana esiste ancora un piccolo segno: qui vicino ad un ciglio rialzato c'è un piccolo tubo nel quale scorre un piccolo filo di acqua. Qui attorno c'era un grande piazzale con piante di alberi secolari, e per cingere il loro tronco, occorrevano le braccia di tre persone. Gli abitanti di questo luogo avevano costruito vaste vasche di cemento per raccogliere l'acqua da abbeverare il bestiame, poi c'era il grande lavatoio per lavare i panni". M. Janelli, op. cit., pp. 156-158.

"Il paese era formato di due parti: Caprara di Sotto e Caprara di Sopra; ma tra quella bassa e quella alta, comprendendo la bottega e i cortili, non copriva più di qualche ettaro. Intorno c'erano campagne fertili che i contadini lavoravano a mezzadria [...]. In autunno maturavano le castagne e nella zona se ne raccoglievano molte". J. Olsen, op. cit., pp. 44-45.

Caprara di sotto fu sede del comune fino al 1828, poi il comune venne trasferito a Marzabotto, pur mantenendo la denominazione di Caprara sino al 1882.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei nazifascisti a Caprara è 58.

 

Scheda storica n° 2: Caprara di Sopra

 

"Il paese era formato di due parti: Caprara di Sotto e Caprara di Sopra; ma tra quella bassa e quella alta, comprendendo la bottega e i cortili, non copriva più di qualche ettaro. Intorno c'erano campagne fertili che i contadini lavoravano a mezzadria [...]. In autunno maturavano le castagne e nella zona se ne raccoglievano molte". J. Olsen, op. cit., pp. 44-45.

"[Guido Tordi:] Davanti alle case [di Caprara] vidi le prime vittime dell'eccidio, due ragazze colpite al capo. Tutte le case della zona erano in fiamme [...]. Dentro [la prima casa] vidi una quindicina di cadaveri di civili, in maggioranza donne e bambini, legati e massacrati, sui quali avevano infierito con raffiche e bombe a mano". R. Giorgi, op. cit., p. 59.

"[Adelmo Benini:] In località Caprara vedemmo tre ragazze legate a tre castagni in riga: le corde ne sostenevano i cadaveri stretti al tronco, con le sottane sollevate sopra la cintola, ed ognuna aveva un lungo bastone infilato di forza fra le cosce". R. Giorgi, op. cit. p. 66.

"[Roberto Carboni:] Finché ci furono nazifascisti nelle vicinanze, cioè per cinque giorni, rimasi nascosto. Quando finalmente tornai, mi si presentò la casa bruciata e in parte crollata. Davanti a casa non c'era nessuno, ma come entrai in cucina dopo essermi fatto strada fra le macerie, la trovai piena di cadaveri accatastati. Erano 44, tutte donne e bambini". R. Giorgi, op. cit, p. 70. "[Gilberto Fabbri:] Ci stiparono tutti nella cucina della casa di Caprara, di cui sbarrarono le porte lasciando aperta solo una finestra, attraverso la quale, subito dopo, scagliarono quattro bombe a mano di quelle col manico, e una granata di colore rosso.[ ...] riuscii egualmente a saltare dalla finestra e a nascondermi in mezzo a un cespuglio, distante tre o quattro metri. Vidi tre nazisti aprire la porta della casa e piazzare una mitraglia. Volsi il capo inorridito, e dall'altra parte mi apparvero due donne che scappavano affannosamente attraverso il campo. Sentii degli spari e le due donne caddero una a breve distanza dall'altra". R. Giorgi, op. cit., p. 71.

"[Carlo Castelli:] Fuori dell'abitato [di Caprara] una donna dai capelli bianchi, vestita di nero, correva disperata col fiato rotto dai singhiozzi. [Un soldato nazista] le fu sopra, e rideva, l'afferrò per i capelli con la mano libera, le girò lentamente la testa verso di sé, e le sparò più volte in faccia". R. Giorgi, op. cit., p. 72.

"[Guerrino Avoni:] Seguendo col binocolo, vidi che trascinavano le donne dentro la casa di Caprara e poi vidi lanciare le bombe a bastone e piazzare la mitraglia attraverso la porta. All'improvviso, due donne saltarono dalla finestra e si diedero alla fuga: ne seguii ogni passo col binocolo. Era una vecchia, vestita di nero, si nascose in un campo di granoturco: un nazista andò a cercarla. Lei si alzò e corse, il tedesco l'inseguì, l'afferrò per i capelli e l'uccise con la pistola". R. Giorgi, op. cit., p. 74.

"[Gilberto Fabbri] Sul dietro della casa [di Caprara] c'era una piccola cucina, e quando tutti vi furono ammassati le donne cominciarono a gridare mentre i bambini si aggrappavano alle gonne [...] ci fu un'esplosione e Gilberto sentì delle schegge di metallo rovente penetrargli in tutto il corpo. Cadde in mezzo agli altri feriti [...] I tedeschi sparavano a chiunque appariva alla finestra, e ben presto si formò uno strato di corpi alto quanto il davanzale [...] col corpo sanguinante Gilberto si nascose meglio che poté tra le viti e si accorse che a qualche passo una bambina stava facendo come lui. Dal suo nascondiglio vide che i tedeschi legarono la giovane madre ad un albero, le misero il bambino in braccio e le lanciarono delle granate finché tutti e due furono ridotti a brandelli. Una donna anziana vestita di nero corse fra i campi [...] il tedesco l'afferrò per i capelli bianchi con la mano nuda, le girò lentamente la testa verso di sé e le sparò due colpi sulla faccia. [...] Gilberto guardò verso la casa e nel vano della finestra vide apparire le sagome di due ragazzi, ma una raffica li fece precipitare. Ora fuori della finestra giacevano ammucchiati sei o sette corpi, come all'interno, e dopo una quindicina di minuti dalla cucina non uscì più nessuno. [...] Il ragazzo cercò la bambina che si era nascosta nella vigna con lui, ma era già morta." J. Olsen, op. cit., pp. 197-198.

"Radunate dalle case e da un rifugio e rinchiuse in cucina, 35 persone furono uccise col lancio di bombe a mano [...] La cucina era quella di Dario Carboni, mi disse Bertuzzi, e occupava l'area di Caprara di Sopra dove ora i superstiti delle famiglie Astrali (due ragazze salve sotto i cadaveri) e Iubini hanno posto con amore, fra i detriti, due piccole croci circondate da piante e da fiori [...]. Costanzina Magnani, madre di Vittorina, e tre nipotini Moschetti, Bruna, Pia e Mario, sfuggiti alla caccia dei soldati nascosti dentro una fornace da calce in disuso, furono mortalmente colpiti dall'esplosione di una granata caduta all'imbocco della fornace". D. Zanini, op. cit., pp. 452-454.

"Le sorelle Amalia e Bice Musolesi abitavano a Ca' Tura di Ignano [...] si erano rifugiate da 45 giorni con le rispettive famiglie in casa di don Ubaldo, come tanti altri. Dopo il triste spettacolo della mattinata, quel pomeriggio decisero di lasciare S. Martino. Amalia andò verso casa, ma giunta a Caprara fu colpita da una granata lei e la figlioletta Bruna che teneva in braccio; furono sepolte nella buca della cannonata stessa". D. Zanini, op. cit., p. 461.

"Il comandante partigiano Guerrino Avoni vide a Caprara sedici donne legate insieme (una di esse aveva con sé il figlioletto di due mesi) uccise dalla sbirraglia tedesca con bombe a mano". "Giornale dell'Emilia", 28 settembre 1951.

"L'ultimo dei testimoni di Marzabotto che il Tribunale ha ritenuto di dover ascoltare in questo processo è Armando Moschetti, che vide bruciare le case di Caprara, e in una di queste case scorse una sessantina di cadaveri, e davanti alla porta due piccini - uno di due, l'altro di quattro anni - ch'erano ancora vivi, ma già venivano afferrati dalle fiamme. Corse verso di loro, e stava per raccoglierli quando fu costretto alla fuga da colpi di mitragliatrice". "Giornale dell'Emilia", 29 settembre 1951.

"Di solito lui [Luigi Massa] faceva il tragitto dal Poggio [Comellini] a Caprara andando da un pagliaio all'altro. Questi utili punti di riferimento ora non c'erano più. Erano bruciati anche gli stolli, e dentro i cerchi abbruciacchiati che indicavano dove prima c'erano i pagliai, Luigi vide dei corpi anneriti che sembravano tanti manichini messi lì per terra.. Giunto in vista di Caprara, gli sembrò che all'aspetto il villaggio fosse quasi intatto [...]. La bottega di Luigi [sembrava la meno danneggiata ...]. Corse freneticamente da una stanza all'altra e, dopo aver constato che non c'erano né cadaveri né segni di uccisioni, appoggiò la testa allo stipite [...]. Era sicuro che fuori avrebbe sentito nell'aria puzzo di morte, e aveva paura, ma in lui vinse la curiosità. Entrò in fretta nella prima casa della fila. Apparteneva alla famiglia Carboni, suoi buoni vicini e clienti, e da un buco nel muro, dove alcune pietre erano cadute, vide i segni dell'incendio. Entrò e guardò nella cucina, vide un mucchio di morti bruciati: un'occhiata e scappò via". J. Olsen, op. cit., p. 284.

"[Fabbri Gilberto:] La mattina del 29/9/1944 decisi di rifugiarmi a Caprara. Andai in un ricovero e trovai circa 50 persone, composte da donne, ragazzi e bambini. Verso le ore 14,30-15 dello stesso giorno, tre tedeschi entrarono nel ricovero; indossavano abiti mimetizzati e i loro elmetti erano adornati di foglie. Essi ci ordinarono di lasciare il ricovero e ci chiusero nella cucina della casa chiamata Caprara. Essi chiusero le porte ed aprirono soltanto la finestra della cucina e immediatamente dopo gettarono nella cucina 4 bombe a mano tedesche ed una grande di colore rosso. Ci fu una forte esplosione e molto fumo. Immediatamente sentii un grande dolore alle gambe, ma non di meno saltai fuori dalla finestra. Vidi tre tedeschi entrare dalla porta della casa e mi rifugiai in un cespuglio a 3-4 metri dalla finestra. Dopo poco, vidi due donne scappare attraverso un campo vicino e sentii dei colpi che credetti che fossero sparati dai tedeschi accanto alla porta. Vidi le donne cadere a terra. Dopo che ero sotto il cespuglio da un quarto d'ora, sentii parecchi colpi seguiti da grida di donne: dopo ci fu silenzio. Rimasi nascosto sotto il cespuglio l'intera notte del 29/9/1944". A. Cinti, op. cit., pp. 54-55.

"[Maria Collina:] Dopo poche ore arrivò dinanzi al rifugio un gruppo di 7 o 8 tedeschi. Essi ci fecero uscire fuori e messici in fila ci tradussero in una delle case di Caprara. Quivi i tedeschi lanciarono su di noi da una finestra e dalla porta molte bombe a mano". A. Cinti, op. cit., pp. 55-56.

"[Avoni Guerrino:] Vidi parte di ciò che accadde colà. Avevo un cannocchiale. 16 donne italiane furono legate assieme in fila con una lunga fune. Notai una donna con un bambino in braccio. Successivamente mi informai nei riguardi della donna ed appresi che questo bambino aveva due mesi. 1 tedeschi gettarono bombe a mano in mezzo a loro per ucciderli". A. Cinti, op. cit., p. 56.

[Lanzarini Primo:] La sera si recò al villaggio e osservò ciò che era accaduto. "Vidi vari cadaveri e una bambina di due anni e mezzo. La presi con me. Era ancora viva . La mia sorellina di 9 mesi fu da me trovata 9 giorni dopo questo massacro nei pressi della casa. Essa non recava tracce di alcuna ferita. Sembrava fosse morta di fame e di freddo". A. Cinti, op. cit., pp. 56-57.

"[Castelli Carlo:] Durante l'eccidio di Caprara vidi inseguire una donna che, fuori dall'abitato, cercava di scappare in direzione della Valle di Setta. Il tedesco, di cui non posso precisare il grado, la raggiunse, l'afferrò per i capelli e le sparò con la pistola in faccia uccidendola". A. Cinti, op. cit., p. 57.

"I soldati saliti da Sperticano raggiunsero Caprara e parteciparono a quella strage con gli altri saliti dal Setta. Ma prima, lungo il tragitto, uccisero la famiglia Tondi, di Castellino, che aveva -lasciato la casa in cerca di un rifugio più sicuro, su nove componenti, si salvò soltanto il padre, perché si era nascosto nel fosso di Campedello. Egli raccontava che i suoi cari, moglie e sette figli in età fra i 17 e i 3 anni, erano stati sterminati nel bosco. Furono sepolti fra le vittime di Caprara". D. Zanini, op. cit., p. 355.

"[Adelmo Benini] Tra Caprara e Villa d'Ignavo, trovammo i cadaveri di due donne incinte, entrambe sventrate". R. Giorgi, op. cit., p. 67.

"Molta gente di Caprara di Marzabotto viene rastrellata e rinchiusa nella locale osteria, dove i nazisti la massacrano con le bombe a mano e la distruggono con i lanciafiamme. I cadaveri sono 107 di cui 24 bambini. Cercano di salvarsi Vittorina Venturi e la madre, saltando da una finestra. Invano: entrambe sono subito falciate". R. Giorgi, op. cit. p. 69.

Gino Calzolari abitante a San Martino durante la guerra, ora residente alla Quercia (Marzabotto) ha confermato che la cucina nella quale vennero rinchiusi i massacrati era quella di Carboni, dietro l'osteria i cui ruderi sono i primi che si incontrano salendo dalla strada che porta a Casaglia. La testimonianza più dettagliata risulterebbe allora quella riportata da D. Zanini a p. 452-454.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei nazifascisti a Caprara è 58.

 

Scheda storica n° 3: Il Poggio

 

"Questa era una casa colonica divisa in due, cioè c'era l'abitazione per gli animali e quella per le persone". M. Janelli, op. cit., p. 165.

"Un tempo era il podere più grande della parrocchia di Casaglia, era sempre abitato da famiglie di quindici persone. In un fondo come il Poggio, occorreva quasi un mese per arare tutti i campi, tale lavoro veniva sempre eseguito nel mese di agosto. Questo fondo a quei tempi era dotato di molto bosco, che era l'unico combustibile per il riscaldamento. In questo fondo i Lorenzini come gli Stanzani raccoglievano circa duecento quintali di cereali all'anno. Per il granoturco era necessario compiere una sequenza di lavori che allora erano indispensabili. Si seminava entro il mese di aprile in un terreno fresco e soffice e ben concimato. La semina era regolata in file distanti cinquanta centimetri una dall'altra, le granelle circa venti centimetri di distanza. Quando il granturco era grandicello si zappava, togliendoci le erbe selvatiche; veniva poi raccolto alla fine di agosto". M. Janelli, op. cit. pp. 165-170.

"Dal cimitero [di Casaglia] è appena stata soccorsa, dopo tre giorni di stenti, Artemisia Gatti, una vecchia mendicante che viveva di elemosina e di preghiera in una casupola accanto alla chiesa; ma anche lei non resiste a lungo e spira al Poggio. Gino Lanzarini e Dante Migliori scavano per lei una fossa e poi anche loro Vengono uccisi. Artemisia scompare nel silenzio e nell'oscurità com'era vissuta: il suo corpo non è stato ritrovato, il suo nome non figura tra le vittime. Olsen racconta la sua lunga agonia e poi dimentica di inserirla in elenco". D. Zanini, op. cit., pp. 442-443.

"Peppino Lorenzini disse dove aveva visto, disteso a terra, Ildebrando Paselli; Bruno andò a raccogliere la salma del fratello sotto il Poggio per seppellirla". D. Zanini, op. cit., p. 529. "[Adelmo Benini] Arrivando nella vigna del Poggio di Casaglia, notammo una piccola sagoma in posa molto strana. Era un bimbo, di tre o quattro anni, con un palo conficcato nel sedere e piantato nel terreno che lo sosteneva, come uno spaventapasseri sempre sul punto di piombare giù". R. Giorgi, op. cit., pp. 66-67.

"Qualche centinaio di metri più avanti [rispetto al cimitero], giù per la strada, c'era una delle migliori vigne della montagna. Era sulla costa dopo il Poggio di Casaglia, il podere dei Laffi, e più di una volta Adelmo [Benini] si era fermato ad assaggiare quell'uva squisita. 1 tre uomini vi arrivarono molto dopo mezzanotte e cominciarono a percorrere i filari in cerca di qualche grappolo. [...] 1 tre ruspatori risalirono dai confini fino al centro della vigna e dopo un po' ad Adelmo sembrò di distinguere nel buio la sagoma di uno spaventapasseri [...] quello che aveva davanti agli occhi era un ragazzo impalato a un pezzo di legno alto circa un metro e ottanta [...]. Mentre se ne tornavano su, passarono attraverso i resti di Caprara e là, al margine di un castagneto, trovarono i corpi di tre giovani donne legate agli alberi, coi piedi sollevati da terra e i vestiti al di sopra della cintola, nella posizione della crocefissione. Vicino c'erano i resti di due donne incinte". J. Olsen, op. cit., pp. 278-279.

"Una squadra formata da Elena [Ruggeri] e da tutti gli uomini validi partì da Ca' Pudella per andare a cercare i cadaveri [...] proprio dietro la casupola del becchino Gatti, Elena trovò sua madre, colpita alle spalle [...]. Più avanti lungo la strada, vicino al Poggio, s'imbatterono in una scena inspiegabile. Il corpo rugoso di Artemisia Gatti giaceva come un mucchio di stracci vicino a una buca mezza scavata attorno alla quale erano distesi i cadaveri di quattro giovani. Fu solo la sera tardi che i Ruggeri seppero come erano andate le cose. Verso l'alba di quel lunedì mattina quattro partigiani in fuga avevano udito la vecchia lamentarsi nel cimitero. La stavano portando via quando la poveretta era morta. Allora cominciarono a scavarle una fossa al Poggio, ma un pattuglia di SS li aveva sorpresi e uccisi. I Ruggeri passarono la maggior parte della giornata raccogliendo cadaveri e seppellendoli dove si trovavano. Trovarono le tre donne crocefisse a Caprara, il ragazzo impalato come uno spaventapasseri nella vigna del Poggio e una dozzina di altri corpi lungo la strada. Quando ebbero finito di seppellire i morti sparsi qua e là tornarono al cimitero e cominciarono a scavare una fossa comune per le sei o sette dozzine di cadaveri ammucchiati contro la cappella mortuaria". J. Olsen, op. cit., p. 286.

Gino Calzolari residente a San Martino durante la guerra, ora residente alla Quercia (Marzabotto) ha confermato il ritrovamento al Poggio dei cadaveri della Gatti, di Migliori e di Lanzarini.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti al Poggio di Casaglia sono 3.

 

Scheda storica n° 8: Chiesa di Casaglia

 

Comunità già citata nell'elenco del Senato Bolognese del 1223, la cui chiesa di S. Maria risultava nelle Decime del 1300 e del 1378 sottoposta al plebanato di Panico. Alla fine del 1700 vi risultavano residenti 295 persone divise in 60 famiglie. Provincia di Bologna, op. cit., pp. 9-10.

A metà ‘800 così viene descritta: "Quattrocento individui formano il suo popolo, che obbedisce al Municipio di Caprara, ed è subordinato al Giusdicente di Bologna, e viene retta dal parroco Don Raimondo Taruffi, il quale festeggia coi parrocchiani le glorie della Vergine protettrice nel giorno quindici agosto. La chiesa è benedetta nel nome dell'Assunzione di Maria, che è rappresentata sull'altare maggiore in un magnifico quadro della Sirani, dipinto a spese de' popolani nell'anno 1699. La fabbrica sia nell'esteriore che nell'interno è bella a vedersi, ed è di stile purgato d'architettura, quantunque edificata nel 1660. Ha il battistero; e ciò è privilegio donatole il 19 giugno 1685. E' pure fornita di begli arredi e suppellettili, provveduti dalla pietà del suo popolo che solo sostenne la spesa dell'intero edifizio, come co' suoi denari soltanto fu nel 1684 innalzata la nuova torre delle campane. La chiesa è a volta reale, lunga all'interno 45 piedi, larga 17, ed alta 30, con due cappelle ai lati (dedicata una al SS. Crocefisso e l'altra alla Madonna del Rosario) ed ha il resto delle pareti ripartito in arcate, sotto le quali invece di ancone e di altari il Pranzini dipinse a fresco nell'anno 1801 gli avvenimenti più celebri della vita di Maria. Altri ristauri d'intonaco e di ornati a frescò furono fatti in questo tempio nell'anno 1814, e l'odierno curato Sign. Taruffi procurò nel 1843 di alzare il coperto sopra il volto, lasciando fra questo e quello un grande spazio, indispensabile nei casi di risarcimento; poi fé costruire un nuovo altar maggiore di cotto, dipinto a mano, e riattò la canonica". Le Chiese Parrocchiali, op. cit., p.28.

Così ancora appare alla fine del secolo XIX: "Questa chiesa è di libera collazione della Mensa Arcivescovile di Bologna, come appare dai libri della s. visita. Detta chiesa è posta quasi sulla superficie di un monte dirupato e scosceso. L'anzidetta chiesa è voltata colla faccia all'oriente, ha la sua croce di ferro sulla cima della facciata, ha parimenti il suo piazzale davanti fatto nell'anno 1900. Questa chiesa ha il cimitero fatto nel 1836 dal Municipio. La chiesa ha 4 campane del Brighenti e sono collocate sopra l'annesso campanile, alto 44 metri, fabbricato dal 1872 al 1886. La fabbrica interna della chiesa fu restaurata nel 1869. Da una lapide in macigno esistente nel cortile della chiesa stessa, risulta che questa chiesa sia stata eretta dalla comunità nel 1665, mentre già la parrocchia esisteva in allora nell'oratorio attuale di S. Mamante, ed era parroco don Cesare Paselli e fu condotta a termine nel 1685, mentre era parroco don Giovanni Mingarelli". E inoltre: "La pala della cappella maggiore di S. Maria di Casaglia è andata distrutta nell'autunno '44, ma anche dai ruderi si può intravedere quanto pregevole fosse l'insieme dell'abside, e pari alla qualità dell'ornato doveva essere il dipinto che costituiva il vertice prestigioso di una sequenza di quattro ovali, dipinti a grezzo da Lorenzo Pranzini nella parete di destra della chiesa, raffiguranti la natività di Maria, l'annunciazione, la visitazione, l'incoronazione: un vero ciclo mariologico". Probabilmente nel 1904 venne collocata tra presbiterio e campanile la piccola statua della Vergine. Oggi in luogo della statuetta della B.V. Immacolata, andata distrutta, è stata posta nel 1983 un'immagine della B.V. dell'ulivo, opera dello scultore L. Nenzioni. Nel 1912 venne abbattuto il "monticello che incombeva dalle pendici di Monte Sole sulla facciata della chiesa e produceva infiltrazioni d'acqua minacciando guai più seri". Venne inoltre deviato il percorso stradale che conduceva dalla chiesa al cimitero, posto cioè in piano di fianco alla nuova piazza della chiesa. "Sistemate le adiacenze, si mise mano all'interno della chiesa: sagrestia, battistero, pavimentazione dell'aula assembleare". L. Gherardi, op. cit., passim.

Nel 1933 vennero fatti nuovi lavori di restauro della chiesa che terminarono nel 1936. "II lavoro di restauro si protrasse per qualche anno perché la chiesa venne rinnovata completamente, venne fatta la facciata nuova, ed anche la canonica venne restaurata in sintonia con la chiesa, il bel campanile di color rosso dava alla costruzione una forma artistica e piacevole. L'interno era stato pitturato artisticamente e tutte le immagini sacre avevano assunto dei colori sublimi e pieni di spiritualità. Nella grande finestra sopra al portale dell'entrata era stata pitturata l'Assunzione della Vergine al cielo. Sul lato ovest di questo piazzale poco distante dalla chiesa, c'era una piccola abitazione, ma tutta restaurata anche quella. In questa casa ci abitavano due anziani coniugi che di loro ricordo solo il cognome Gatti". M. Janelli, op. cit., p. 179-180.

"Dalle strade e dalla ferrovia salgono verso Casaglia donne, bambini e vecchi spaventati. Si rifugiano nella chiesa dove li accoglie il parroco, don Ubaldo Marchioni, che li raduna attorno a sé e tenta di rincuorarli con la preghiera. A un tratto la porta si spalanca e tutti vengono cacciati fuori. Il prete è fulminato da una raffica di mitra. Solo una povera donna non può uscire perché paralizzata alle gambe: Vittoria Nanni. Farà compagnia a don Marchioni, massacrata nel mezzo della chiesa, mentre urla disperatamente e annaspa invano con le braccia, inchiodata alla sua seggiola. Enrica Ansaloni e Giovanni Betti sono riusciti non visti a rifugiarsi nel campanile: sono scovati e massacrati sul posto. Gli altri nell'angusto cimitero di montagna". R. Giorgi, op. cit., p. 61.

"Una squadra formata da Elena e da tutti gli uomini validi partì da Ca' Pudella per andare a cercare i cadaveri. Davanti all'altare della Chiesa di Casaglia trovarono disteso don Ubaldo Marchioni, tutto annerito e con un piede completamente bruciato. Nel campanile scoprirono la povera paralitica Vittoria Nanni e altri due". J. Olsen, op. cit., p. 286.

"La madre dell'Elena [Ruggeri], Maria Assunta Rocca detta Teresa, corse sul sagrato e si diede a chiamare la figlia ad alta voce, disperatamente, temendo di vederla stramazzare a terra.. Invece i tedeschi uccisero lei, la madre, lungo il declivio che scendeva nei campi, poco oltre la casa dell'Artemisia, che era di fianco alla canonica [...]. In chiesa c'era una povera ragazza paralizzata, Vittoria Nanni, sfollata dalla casa America; non poteva camminare speditamente, girava appoggiata ad una sedia; i soldati la uccisero lì. Nel campanile trovarono un uomo, Giovanni Betti, e gli fecero fare al stessa fine [...]. Enrica Marescalchi, venne uccisa col Betti nel campanile". D. Zanini, op. cit., pp. 432-433.

"Ora Antonio [Tonelli], suo zio e suo fratello Mario erano nascosti sul Monte Sole in un tratto di macchia proprio sopra la chiesa di Casaglia [...]. Passò una pattuglia di SS, poi ne passò un'altra e dalla chiesa giunse il rumore di frequenti spari, e di tanto in tanto anche quello di grida in tedesco. Quando non resse più, Antonio uscì dal fossato e cominciò a correre giù per la strada verso la chiesa [...]. Mentre trottava in direzione della chiesa, poco mancò che non inciampasse nel corpo di un contadino che conosceva, e accanto vide i cadaveri di altri due uomini, uno dei quali gli sembrò quello di un medico partigiano". J. Olsen, op. cit., p. 186.

Gino Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, oggi residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato lo svolgimento dei fatti in merito alla morte della madre di Elena Ruggeri, di Artemisia Gatti e dei caduti nella chiesa e nel cimitero di Casaglia.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti nella chiesa e nel cimitero di Casaglia sono 80.

 

Scheda storica n° 10: Cimitero di Casaglia

 

"Da Casaglia proviene, nel 1061, un testimone di nome Giovanni figlio del fu Pietro, che assiste alla donazione fatta dai quattro figli di Bonando da Caprara, al monastero di S. Bartolomeo di Musiano di una parte della chiesa di S. Salvatore di Bedoleto con le sue pertinenze. Comunità già citata nell'elenco del Senato Bolognese del 1223 la cui chiesa di S. Maria risultava nelle decime del 1300 e del 1378 sottoposta al plebanato di Panico. Dal censimento dell'Anglic i 28 fumanti di Caprara si presumono divisi con questa località, mentre all'epoca del Calindri vi risultavano 295 persone divise in 60 famiglie. La chiesa fu riedificata verso il 1660 mentre il campanile fu eretto nel 1648; ebbe il battistero nel 1685. Attualmente della località non restano che i ruderi del cimitero, nella cappella furono uccisi 80 civili dai tedeschi nel 1944". Provincia di Bologna, op. cit., pp. 9-10.

"[Elena Ruggeri:] Dal nostro posto [io e mio cugino] vedevamo dentro il cimitero. Dopo un quarto d'ora che li avevano messi contro la cappella, aprirono il fuoco e gettarono anche delle bombe a mano". R. Giorgi, op. cit., p. 64.

"[Lucia Sabbioni:] Le donne che erano con me nel bosco, cui devo la vita, furono trucidate, pochi giorni dopo in un rifugio a Ca' Beguzzi. Il bimbo Tonelli morì anch'egli colpito da una granata tedesca sotto Monte Sole, poco distante dal cimitero di Casaglia". L. Bergonzini, op. cit., p. 313.

"Nel cimitero di Casaglia Lidia Pirini, con un proiettile conficcato nella coscia destra, non era stata soccorsa; alla sera del secondo giorno decise di scendere lentamente verso Cerpiano. Vittorio Tonelli, il bambino che voleva rimanere coi suoi fratellini uccisi, lasciò anche lui il cimitero e si avviò verso Vado ma fu raggiunto da una cannonata che lo riportò in seno alla sua numerosa famiglia distrutta". D. Zanini, op. cit., p. 440.

Gino Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, oggi residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato lo svolgimento dei fatti in merito alla morte della madre di Elena Ruggeri, di Artemisia Gatti e dei caduti nella chiesa e nel cimitero di Casaglia.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti nella chiesa e nel cimitero di Casaglia sono 80.

 

Scheda storica n° 6: Cerpiano

 

A metà dell'800 l'oratorio di Cerpiano è citato fra le quattro grandi cappelle che si trovano nel circondario di Casaglia (Brigadello, Dizzola, Cerpiano, Morazzo). Le Chiese Parrocchiali, op. cit. p.28.

"Prima della guerra in questo tavolato c'era un fondo agricolo, un palazzo con l'oratorio e un immenso prato con grandi alberi di querce. Il terreno adibito al fondo agricolo era tutto pianeggiante, con sopra ampi vigneti costruiti con sistemi diversi dalle solite vigne. Ai lati dei filari c'erano alti pali di cemento, in cima ai pali c'erano fili di ferro tirati da un capo all'altro della fila. 1 tralci delle viti venivano distesi lungo i fili formando un lungo pergolato. Con tale sistema i grappoli d'uva crescevano tutti in fila ed esposti al sole. Quando l'uva era matura diventava gialla e dorata da suscitare la meraviglia dei passanti j... ]. Ai lati del vigneto c'erano alberi di ciliegie che quando veniva primavera erano bianchi di fiori che insieme al prato fiorito davano l'impressione di entrare in un ampio giardino". M. Janelli, op. cit. pp. 113-114.

Così appare prima della guerra: "A veder i ruderi, non si immagina cosa è stato Cerpiano. Nel verde tavolato agricolo c'era il Palazzo, con l'oratorio, la scuola, la casa colonica. Il Palazzo era un robusto edificio in pietrame a quattro piani, con undici grandi vani, solai in putrelle e volterrane, tetto con armatura in legno tavellonato e manto di coppi [...]. Annesso era l'oratorio dedicato agli Angeli Custodi, lungo la strada comunale Casaglia-Murazze, comune di Monzuno, via della Chiesina n. 566. La facciata di questo oratorio guardava a ponente. Sopra la porta era scolpita l'immagine dell'Angelo Custode. Si accedeva da due ingressi: imo per gli uomini, l'altro per le donne. 1 segnali acustici rituali venivano da una campanella sopra la tettoia di casa Serra. Davanti, un bel piazzale; sulla cima la croce. L'aula rettangolare, con eleganti volte e lesene, misurava 7 metri per 3. Dietro l'altare con due scaffalature e predella di pietra si elevava l'ancona raffigurante l'Arcangelo Raffaele. Ai lati, due poggiampolla di pietra, tutt'intorno, la Via Crucis; e sulla soglia, l'acquasantiera". L. Gherardi, op. cit. p. 68.

"Il palazzo era di forma quadrata alto tre piani; conteneva molti vani dove nella stagione estiva gruppetti di cittadini venivano a trascorrere le vacanze. Nel sotterraneo del palazzo, oltre ad esserci delle buone cantine, c'era anche la famosa conserva della neve, era un vano molto ampio con una piccola porticina e un'apertura nel soffitto. Nella stagione invernale, quando cadeva molta neve, gli abitanti di questo luogo si radunavano in gruppi, poi con badili e pale, sceglievano la neve pulita e la mettevano giù per l'apertura della cisterna. A volte la riempivano tutta. La neve col peso si pigiava da sola, formando un blocco di ghiaccio. Quando veniva la stagione del caldo, si scendeva la scaletta, si apriva la piccola porta e ci si trovava davanti alla montagna di ghiaccio". M Janelli, op. cit. pp. 121-122.

"Nell'oratorio di Cerpiano ammucchiano 49 persone [...]. Segue subito un primo lancio di bombe che assassina trenta persone. Poi le SS decidono di riposare e a lungo gozzovigliano fuori dall'oratorio. 1 lamenti di una ferita agonizzante li disturbano. E' la signora Nina Frabboni Fabbris di Bologna che un nazista si affretta a finire. Emilia Tossani e il vecchio Pietro Orlandi con la nipote tentano la fuga: vanno poco oltre la soglia". R. Giorgi, op. cit., p. 91.

"Prima che qualcuno potesse fermarlo, il vecchio era già quasi fuori della porta, con Sirio al fianco. Ci fu una raffica e l'uomo e il ragazzo caddero sulla soglia tenendosi per mano [...]. Amelia Tossani, aprì lentamente la porticina laterale della cappella. Una raffica di mitra le lacerò il petto e la donna cadde a terra morta, ostruendo la porta". J. Olsen, op. cit., pp. 184-185.

"Il cadavere putrefatto del vecchio Gino Cincinnati fu rinvenuto coperto di mosche e di vermi sotto le macerie del palazzo di Cerpiano: evidentemente quando i tedeschi avevano fatto uscire tutti, lui si era nascosto ed era rimasto incastrato fra le travi cadute durante un bombardamento alleato". J. Olsen, op. cit., p. 334.

"[Antonietta Benni:] La mattina del 29/9/1944, cominciammo a sentire il crepitio delle mitragliatrici e avemmo il triste presentimento che si trattasse di un rastrellamento. La nostra paura crebbe quando cominciammo a vedere case in fiamme e a sentire vicini gli spari [...] ci intimarono di entrare nell'oratorio attiguo alla casa [...] uscirono dalla chiesa chiudendoci dentro [...] cominciarono a buttare dentro bombe da ambo le parti e dalla finestra [...] rimanemmo in quel triste luogo tutto il giorno 29, fino alla sera del 30, senza poter fuggire perché i tedeschi ci facevano la guardia [...] Quel povero vecchio che ho sopra citato fece appena l'atto di uscire che fu freddato sulla soglia; il vecchio aveva per mano un suo nipotino che anche quello rimase cadavere. Dopo poco una signora si lamentava forte perché oppressa da forti dolori; forse quello stesso soldato che poco prima aveva ucciso il vecchio rientrò e con un colpo di fucile uccise la signora facendo una cinica risata come per dire: ora non ti lamenterai più [...]. Nel pomeriggio del sabato, 30 settembre, visto che non eravamo tutti morti, rientrarono in chiesa e ci dissero: "Fra 20 minuti tutti kaput!" Non tardai molto a sentire che ricaricavano i fucili ricominciando a sparare. La sparatoria durò pochi minuti e io, ancora viva, ero sempre in attesa della morte perché temevo che ricominciassero a sparare. Invece cessati gli spari, passarono in mezzo ai morti depredandoli di quanto avevano di prezioso e naturalmente passarono anche vicino a me. In quel momento, per timore si accorgessero che ero ancora viva, trattenni il respiro". A. Cinti, op. cit., pp. 50-52.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti a Cerpiano sono 47.

 

Scheda storica n° 7: Brigadello

 

"Centro di antica origine, Brigadello fu soggetto ai conti di Panico che nel Duecento vi possedevano un castello. Censito dal Cardinal Anglic vi si trovano nel 1371 cinque fumanti. Ancora nel 1385 era comune separato da Vado, vi abitavano allora sette famiglie, due delle quali coltivavano terreni appartenenti ai conti delle Bedolete; le abitazioni sorgevano nelle località Archiano, Poggio, Pibigo, Cornio, La Strada. La zona è attualmente spopolata a causa delle distruzioni belliche che hanno risparmiato soltanto pochissimi edifici. 1 ruderi posti in questa località presentano un paramento murario databile al Trecento". Provincia di Bologna, op. cit., p. 6.

 

Scheda storica n° 8: San Giovanni di Sotto

 

"La testimonianza più incisiva sull'eccidio di San Giovanni di Sotto sembra quella che Margherita Janelli raccolse dalla bocca di Malvina [Stefanelli]: "quella brutta mattina di fine settembre qualcuno riferì di avere sentito dire che i nazisti uccidevano tutti. Eravamo smarriti, non sapevamo da quale parte andare. Qualcuno ci invitò nel rifugio a pregare, perché fra la gente c'era a anche Suor Maria Fiori. Mentre una parte raggiunse il rifugio, poco lontano di qui io vidi i nazisti sbucare [...]. Io mi avviai nel bosco e una figlia (Paolina) mi seguì; invece l'altra (Genoveffa) con Pietro mio marito andò con gli altri. 1 nazisti li uccisero tutti davanti al rifugio [...]". L. Gherardi, op. cit., p. 126.

"Quarantasette persone, tra cui dodici bimbi e due suore, cercarono scampo in un rifugio di San Giovanni. Trovarono la morte più orrenda". R. Giorgi, op. cit., p. 75.

"Alle 7.00 circa del 29 settembre 44 ero in piedi fuori della mia casa quando vidi venti soldati tedeschi avvicinarsi [...] e andai nei boschi lì vicini [...]. Ritornai a casa mia il 1 Ottobre 44 e vidi molti corpi di uomini, donne e bambini sul bordo della strada vicino a casa [...]". T Stefanelli Malvina in B. Magni (a cura di), op. cit., p. 79.

"I1 29 settembre, quando ritornarono [i tedeschi], giunsero qui poco prima delle 11, provenienti dalla via che sale dal Casoncello [...]. Gli uomini si diedero subito alla fuga. Ildebrando Paselli scappò verso la montagna [...] fu visto da lontano e colpito a morte quando stava per raggiungere il Poggio. [...] Prima che arrivassero i soldati, gli altri che si trovavano nelle due case si raccolsero ammucchiati dentro un rifugio [...] irruppero i tedeschi e li fecero uscire dal rifugio radunandoli nel cortile davanti alla stalla di S. Giovanni di Sotto, nell'area destinata a raccogliere il letame [...]. L'aia davanti alla stalla era un cimitero di morti, un groviglio di cadaveri[ ...]. Maria Sandri era andata a morire un po' oltre, vicino alla teggia, che fu poi incendiata [...]. Il padre, Mario Fiori, trovò la bambina più piccola, Lea di due anni e mezzo, un po' distante dai cadaveri [...]. Mario Fiori trovò sua moglie, Maria Giovannetti, in disparte [...] era caduta vicino alla porta della stalla". D. Zanini, op. cit., pp. 445-448.

"Alle 7.00 circa del 29 Settembre 44, vidi parecchie case che bruciavano nei dintorni. Partii con mio cognato Sandri Gaetano e andammo a nasconderci nei boschi, lasciando la mia famiglia in casa.

Ritornai il 2 Ottobre 44 e trovai la mia casa bruciata e tutt'intorno all'esterno circa quaranta persone, fra uomini, donne e bambini, tutti morti, all'apparenza erano stati fucilati". T Fiori Mario, in B. Magni (a cura di), op. cit., p. 77.

"[Fiori Gerardo, scappa la mattina del 29 settembre 1944:] Tornai a casa la mattina del 2 ottobre successivo, e vidi che l'intera mia famiglia era stata uccisa ... preciso che la mia famiglia non venne uccisa nella casa posta a S. Giovanni di Sopra, ma nelle contrade di S. Giovanni di Sotto, ove i tedeschi avevano raccolto tutte le persone che poi uccisero". A. Cinti, op. cit., p. 60.

"[Nadalini Luigi:]'Poiché mi trovavo a circa 40 metri di distanza, potei vedere un tedesco che piazzava una mitragliatrice in terra e che apriva il fuoco sulla gente che era raggruppata presso un muro". A. Cinti, op. cit., p. 61.

"[Stefanelli Malvina:] I tedeschi fecero uscire dal ricovero tutte le persone ivi rifugiate, le tradussero a S. Giovanni di Sotto, nei pressi della mia casa e le uccisero con raffiche di mitra. Le vittime, come ho detto, furono 46 o 47. La Stefanelli ebbe pure il marito di 70 anni ucciso a circa 30 metri dalla casa". A. Cinti, op. cit., pp. 61-62.

[Sandri Gaetano:] Si nascose, e, tornando a S. Giovanni di Sotto, trovò i cadaveri di tutti coloro che, essendo lì di casa, erano andati in un rifugio, ammassati contro il muro della casa. "Erano circa 37 o 38 e tra questi anche i miei familiari - narra egli - cioè la moglie e tre figli. Poco distante vi erano sul viottolo altri nove cadaveri che si presentavano non ammucchiati uno sull'altro. Più distante ancora altri due. Ho l'impressione che questi ultimi siano stati colpiti mentre non erano radunati come prima, cioè mentre tentavano forse una fuga. In totale i morti erano 49". A. Cinti, op. cit., p. 62.

"Giuseppe Lorenzini, di trentacinque anni, era nascosto sulla montagna da diverse ore, da quando cioè era stato svegliato nella sua abitazione di Casoncello dal rumore delle sparatorie [...]. Aveva appena fatto in tempo a saltar giù da una finestra dietro la casa e a distendersi in un fosso, che una pattuglia di SS era arrivata alla porta e aveva buttato fuori tutti quelli che erano dentro: sua moglie, i suoi due figli piccoli e nove o dieci altre persone tutti suoi parenti. Poi i tedeschi avevano dato fuoco all'edificio e avevano incolonnato i suoi cari facendoli marciare verso il podere di San Giovanni. Ora lui era su tra i cespugli, aveva davanti campi di grano, ma c'era una collinetta che gli impediva di vedere San Giovanni [...] vide che [ i tedeschi] si stavano divertendo a dare la caccia a un vecchio lungo il sentiero. Mentre uno di loro lo braccava, un altro venne per tagliarli la strada, e Giuseppe con terrore si rese conto che le SS stavano avvicinandosi al suo nascondiglio [...]. Allora vide uno dei tedeschi colpire il vecchio col calcio del mitra con tale forza da farlo volare via. Mentre il poveretto a terra si lamentava, i due gli riempirono a turno la testa di pallottole. Poi si diressero alla volta di San Giovanni". J. Olsen, op. cit., p. 193.

"Alfredo Comellini, uno dei proprietari del grosso podere di San Giovanni, era anche lui quella mattina tra i cespugli sotto la pioggia, mentre si udivano spari da ogni parte. Per un attimo sperò che i nazisti trascurassero il suo podere, ma non aveva fatto a tempo a pensarlo che vide due SS col mitra sbucare dal bosco dietro la stalla. Mentre egli si prendeva le labbra con le dita per non gridare, i due si avvicinarono a suo cugino cieco, Ildebrando Paselli e con un'unica raffica lo stesero. Altri due uomini, Edoardo Castagnari e Pietro Paselli, lo zio di Alfredo, udirono gli spari e corsero a sciogliere le bestie prima che i tedeschi dessero fuoco alla stalla, ma anche loro furono subito uccisi. Poi sopraggiunsero altri soldati che si divisero in gruppi per circondare il podere e bloccare la gente che c'era dentro. Dai tre grossi edifici venne fatta uscire una dozzina di persone tutte con le mani in alto. Varie altre dozzine furono stanate dal rifugio antiaereo sul fianco del monte, e altre otto o dieci persone vennero condotte sul posto dai soldati. Tranne alcuni sfollati, Alfredo li riconobbe tutti. Dopo averli riuniti - ad Alfredo sembrò che fossero quarantacinque o cinquanta - le SS li fecero mettere davanti alla concimaia, con i bambini in prima fila, e piazzarono tre mitragliatrici pesanti. Quando cominciò la sparatoria Alfredo si girò dall'altra parte e si tappò le orecchie. Gli sembrò che il fuoco durasse senza interruzione per un quarto d'ora. Svanita l'ultima eco si fece coraggio e guardò: sulla concimaia giaceva immobile una massa di corpi". J. Olsen, op. cit., p. 194.

Paselli Pietro, nipote di Malvina Stefanelli, oggi residente a San Giovanni di Sotto, ha confermato che l'eccidio avvenne contro il muro della concimaia, oggi legnaia e che al tempo stesso alcuni furono uccisi mentre tentavano di scappare.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei nazifascisti a San Giovanni di Sotto è 51.

 

Scheda storica n° 9: Chiesa e cimitero di San Martino

 

L'esistenza di questa località, sia pure sicuramente solo come sede di una pieve, è attestata nel 831 e nel 851; nel primo testo si ricorda un confinante di un terreno con queste parole: ab uno latere Sancti Martini presso terre situate a Mugnano, in destra Reno; nel secondo si afferma che si sono vendute varie terre, fra cui Sirano, Sibano e Bezano, vel ubi (sic) intra pleve S. Martini que vocatur Rucensi. Una pieve di tale nome situata fra le montagne fra Reno e Setta non è ricordata in altre occasioni, neppure negli elenchi ecclesiastici del XIV sec., ma data la coincidenza del nome in queste due carte vicine cronologicamente, possiamo affermare che vi esistesse, con buona probabilità, almeno nel IX sec.. Probabilmente è da riconoscersi in questa località il Sancto Martino da cui proviene Bernardo che detiene beni nella montagna intorno a Camugnano e che vengono venduti dai proprietari alla ciesa di S. Maria di Montepiano nel 1153. L'identificazione è permessa dal fatto che la moglie di Bernardo è figlia di Rodolfo de arce Sanguineta, che sorge in sinistra del Reno a pochi chilometri da S. Martino. La chiesa che è menzionata nelle decime del 1300, allora suffraganea della Pieve di Panico, è stata distrutta durante l'ultima guerra; nulla si intravede salvo delle macerie ed un concio con decorazioni a fogliame, murato in una casa colonica edificata nei pressi". Provincia di Bologna, op. cit., p. 11.

Così viene descritta a metà ‘800: "La sua origine è ignota affatto; e le sue poche e confuse memorie che si trovano nel suo archivio ci nhostrano bensì remota la sua esistenza, e come più volte venisse rialzata dai fondamenti per cura dei popolani, i quali avevano il diritto di presentare il paroco, ma non si conosce l'epoca della sua fondazione, né quella dei suoi mutamenti e né tantopoco la sua forma e grandezza. L'odierna sua eleganza non risale che all'anno 1725, in cui l'arciprete piisssimo don Gian Pellegrino Demaria fece sagrifizio de' suoi averi per ampliarla e per ridurla in volto con eccellente metodo di architettura. Ne' di ciò pago, alzò anche la torre delle campane e vi collocò un orologio; acquistò il battistero di squisito marmo veronese, poi provvide la sagrestia di ricche suppellettili e di magnifici arredi. L'interno della chiesa è d'ordine jonico; ha una lunghezza di piedi 53 sopra 19 di larghezza, ed è alta piedi 22 e mezzo. Un arco maestoso che poggia su due colonne dipinte a mano introduce nel presbiterio, ove fu posto nel 1807 il bellissimo altare di legno tolto dalla chiesa del Carobio di Bologna. Sopra il coro è il quadro del Titolare dipinto dal Giusti, cui fa meraviglioso contorno l'ornato del bolognese Venturoli; e dalla parte del Vangelo avvi la cantoria con organo antico del Bresciani e molte Ss. Reliquie. Discendendo dal presbiterio si vedono due cappelle laterali, una dedicata alla B.V. del Rosario, l'altra a S. Vincenzo Ferreri, entrambe benissimo architettate, ma che nulla contengono di notabile. Bella è finalmente la canonica che devesi alle cure e generosità dell'arciprete don Gian Pellegrino Paselli; e grande e decorosa la sagrestia fabbricata nel 1828 dall'arciprete Paolo Musiani". Le Chiese Parrocchiali, op. cit., pp.42-43.

Ancora alla fine dell'800 la chiesa di San Martino offriva "l'immagine architettonica quale apparve dopo il restauro del 1725 ad iniziativa di don Gian Pellegrino De Maria". L. Gherardi, op. cit., p. 27.

"La maggior parte dei terreni lì attorno era di proprietà della curia, quindi anziché col padrone come gli altri contadini della zona, quelli di San Martino spartivano i raccolti con il prete". J. Olsen, op. cit. p. 41.

"La piccola frazione [di San Martino]era composta di alcune stalle e annessi e di una casa colonica a tre piani dove vivevano ammassati i ventidue componenti delle varie famiglie. Anche il pianerottolo del caseggiato era adibito a stalle; sopra c'erano le cucine, e all'ultimo piano le camere da letto. L'edificio, costruito con la pietra locale, era rivestito di un intonaco rosa pallido, sgretolato e sfaldato; il tetto era di embrici e tegole. Davanti alla casa colonica c'era un grande piazzale acciottolato, che serviva da luogo di ritrovo, cortile e campo da bocce. In fondo alla strada c'era la chiesa, anch'essa di pietra intonacata, su cui si alzava un campanile grazioso e snello". J. Olsen, cit., p. 42.

"[Guido Tordi] Presso il cimitero e la località di S. Martino trovammo parecchi morti, massacrati e disseminati lungo il nostro cammino". R. Giorgi, op. cit., p. 59.

"[Giuseppe Lorenzini:] Il giorno dopo, a S. Martino, vidi lontano un gruppo di gente, tutti donne e bambini, con un solo uomo in mezzo con una gamba offesa, sparpagliarsi per i campi a branco, senza una direzione precisa. Sentii dei colpi, poi i nazisti li circondarono e li raggrupparono. Fecero presto, ve lo dico io, picchiavano sulle dita e sulle unghie delle mani e dei piedi con calci dei fucili. Li portarono davanti alla porta della nostra casa, dove li fecero ammucchiare e li massacrarono tutti con le mitraglie. Poi, uno per uno, gli diedero un colpo di fucile alla nuca. Tornarono ad ammucchiarli, perché nel morire s'erano un poco dispersi, spinsero sul posto un carro di fascine, in modo da coprire tutti i cadaveri, fuori non spuntava neppure un piede, poi diedero fuoco. Inutile dire che anche le case furono tutte bruciate". R. Giorgi, op. cit., p.'76.

"[Duilio Paselli:] Passò una prima squadra di nazisti, il giorno 29, e non fecero nulla; pensammo che anche questa volta ce la saremmo cavata con la paura. Invece il 30 arrivò una seconda squadra: presero tutti quelli che poterono, li misero contro la case dei contadini del parroco e li falciarono con le mitraglie. Poi bruciarono con le fascine e con dell'altra roba che avevano loro". R. Giorgi, op. cit., p. 77.

"[Guerrino Avoni:] Quando la sera del 29 settembre, quelli di noi ancora in vita passarono S. Martino, tutto era intatto. Di ritorno la sera del 30, per la stessa località vedemmo in lontananza bagliori di incendi davanti alla chiesa, sul piazzale che serviva da aia [...]. Inoltrandomi sull'aia, mi si presentò una lunga riga di corpi irrigiditi, crivellati di colpi: erano 46, tutte donne, stese sul terreno fianco a fianco [...] si seppe in seguito che s'erano rifugiate in chiesa a pregare, e i nazisti le avevano di lì strappate e fucilate sull'aia". R. Giorgi, op. cit., p. 78.

"[Giuseppe Lorenzini] Guardando attraverso un campo scoperto da una distanza di trecento metri, vide una pattuglia di venti o trenta SS irrompere sul piazzale della chiesa. Una di esse battè col calcio del fucile contro la porta e ne uscì una marea di gente. Notò con costernazione che la gente di San Martino cercava di darsela a gambe sciamando attraverso i campi in tutte le direzioni, ma i tedeschi avevano formato un anello tutt'attorno. Dopo un succedersi terrificante di urla, di grida e di centinaia di raffiche di mitra sparate in aria, le SS riuscirono a riunire tutti sul piazzale della casa colonica. Giuseppe sentì degli spari sporadici e gli sembrò che di tanto in tanto qualcuno della folla si azzuffasse coi tedeschi, ma nel giro di pochi minuti tutti - saranno  stati quattro o cinque dozzine - finirono allineati contro il muro della casa colonica. Le mitragliatrici cominciarono subito a lavorare e, quando Giuseppe osò guardare di nuovo, alcune SS camminavano lungo i corpi distesi sparando con la pistola ai sopravvissuti [...]. Guerrino [Avoni] con tre o quattro uomini scese in ricognizione nel villaggio dove avevano tanti amici, e vide che non c'erano tedeschi in giro. Fece un cenno anche agli altri e tutti insieme entrarono nel piccolo abitato. Sulla facciata della chiesa lessero una grande scritta: "questo è un ammonimento per gli antinazisti e antifascisti". Alcuni passi più avanti trovarono un mucchio di corpi semicarbonizzati, che sembravano quasi tutti donne e bambini. Per quanto poterono capire, erano quarantacinque o quarantasei persone". J. Olsen, op. cit., pp. 234-236.

"[Angelo Bertuzzi] Giunto in vista di San Martino, notò che c'era stato un incendio, più che un odore di fumo s'era lasciato dietro come un puzzo di rifiuti. Passando davanti alla casa colonica in rovina gli sembrò di vedere un braccio che penzolava da una finestra e più in giù lungo la strada s'imbattè in diversi cadaveri in decomposizione. Oltrepassata la curva, proseguendo verso la chiesa vide perfettamente allineati in fondo alla piazza i quaranta o cinquanta corpi mezzi bruciati. Davanti ai cadaveri era stato messo un grande cartello". J. Olsen, op. cit., p. 294.

"[Angelo Bertuzzi dopo la guerra] Non andò più lontano della sua solita prima tappa: San Martino. Vide cadaveri disseminati lungo il sentiero e, superato il boschetto abbrucciacchiato della collinetta di San Martino, si fermò e aguzzò gli occhi. Davanti a sé, dove avrebbero dovuto esserci una chiesa, un villaggio, diverse grandi stalle e dei pagliai non c'era più niente. Tutto era stato spianato. Gli unici resti di ciò che un tempo era stato San Martino erano un fonte battesimale rovesciato in un fosso, alcuni mucchi di pietre e avanzi di muro del cimitero". J. Olsen, op. cit., p. 331.

"Pochi giorni dopo il loro rientro a Sperticano bussò alla porta una vecchia dicendo di avere sentito dire che vicino al cimitero di San Martino c'era il cadavere di un prete. Luigi Fornasini corse subito sulla montagna e in effetti trovò che tra i cespugli dietro il muro di fondo del cimitero c'erano dei cadaveri. Uno di essi era quello di un certo Moschetti, un vecchio di sessantasette anni, invalido della prima guerra mondiale. Le sue grucce erano appoggiate contro il muro del camposanto. Accanto c'era il corpo di un prete con vicino il proprio teschio". J. Olsen, op. cit., p. 334.

"[Giuseppe Lorenzini:] 'li portarono proprio davanti alla porta della nostra casa, dove li fecero ammucchiare e subito li massacrarono [...] spinsero sul posto un carro di fascine che rovesciarono sopra i morti [...] poi diedero fuoco". L. Bergonzini, op. cit., p. 318.

"[Duilio Paselli:] li misero contro la casa del Parroco di San Martino e li fucilarono con le mitraglie, poi bruciarono i corpi". L. Bergonzini, op. cit., p. 315.

"Il 30 settembre i soldati del 105 regg. Flak, di stanza lungo la Venola, ritornarono a Sperticano, salirono a S. Martino verso mezzogiorno, fecero uscire dalle case del parroco e del contadino tutte le persone che ancora vi si trovavano, e compirono la strage che avevano risparmiato il giorno prima. Mi dice Peppino Lorenzini: 'Da lontano-vidi i tedeschi che ammassavano la gente contro la nostra casa, li uccisero tutti, poi da una massa di fascine ammucchiate sull'aia ne presero da buttare sopra i cadaveri e diedero fuoco. Quando andai ad aiutare altri a seppellire, raccogliemmo soltanto delle ossa. Nel cimitero di S. Martino non fu ucciso nessuno'. Elena Ruggeri mi raccontò questa versione, confermata da Duilio Paselli: 'In quel giorno Dante Paselli uscì dal bosco dov'era nascosto per andare a vedere i suoi che erano nella chiesa di S. Martino; incontrò sua moglie, Anna Naldi (due sposi diciottenni), davanti alla chiesa mentre vi giungevano da altra parte anche i soldati, e lui, sospettato di essere partigiano, venne ucciso lì davanti alla moglie. Questa come impazzita, cominciò ad urlare disperatamente e andò contro i tedeschi coi pugni chiusi e con parole di fuoco. Lei, il suo bimbo Franco di 40 giorni e tutti gli altri furono uccisi per quello'". D. Zanini, op. cot., pp. 461- 462.

"[Ettore Benini:] In prossimità S. Martino vidi un gruppo di tedeschi giungere a un casolare chiamato 'Casadotto', ove abitavano tre famiglie. Fecero uscire tutte le persone che vi si trovavano e le uccisero con raffiche di mitra, dando poi fuoco al fabbricato. Subito dopo, lo stesso gruppo di tedeschi ammazzò altre persone che si erano nascoste nel rifugio posto nelle immediate vicinanze della casa stessa". A. Cinti, op. cit., p. 66.

Gino Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, oggi residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato che la casa contro la quale vennero allineati i massacrati era quella dei Lanzarini, i cui ruderi sono quelli oggi in corrispondenza della lapide posta dalla Chiesa. Ha confermato anche il ritrovamento dei cadaveri di Don Giovanni Fornasini e di Moschetti dietro il cimitero, infine il modo in cui vennero uccisi la Naldi e il figlio.

In Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei nazifascisti a San Martino è 57.

 

Scheda storica n° 10: Pozza Rossa

 

"Da una settimana don Casagrande aveva lasciato la sua casa e la sua chiesetta della Quercia, sotto gli archi del ponte della ferrovia Direttissima, e aveva raggiunto la sua famiglia, già sfollata, presso i Luccarini nella casa delle Calvane a S. Martino. Qui sperava di essere fuori dai rischi e di restare in pace. Ma la mattina del 29 settembre, quando i tedeschi poco lontano cominciarono ad uccidere gente e a bruciar case, don Ferdinando dovette sollecitamente abbandonare le Calvane, seguito dai Luccarini che si fermarono a S. Martino, e dai suoi, coi quali, passando accanto al cimitero, raggiunse un rifugio scavato nel castagneto sul versante del Reno. 1 soldati che il 30 settembre uccisero tutti i civili anche a S. Martino, non si avventurarono nel bosco, dove la famiglia Casagrande trascorse alcuni giorni, protetta dal rifugio [...]. Il 9 ottobre, dopo dieci giorni di rifugio e di fame, di freddo e di rischio, don Ferdinando uscì per andare al comando tedesco e chiedere il permesso di trasferirsi altrove. Lo seguì la sorella Giulia. Non fecero più ritorno. Il comando militare era alloggiato probabilmente nella canonica di S. Martino. Non si sa se i due fratelli lo raggiunsero. Caddero poco lontano, forse lo stesso giorno, sulla via che porta alle Scope, dove furono visti alcuni giorni dopo [...]. I corpi di don Casagrande e della sorella Giulia rimasero abbandonati fino alla primavera successiva sulla via campestre nella località che gli abitanti di S. Martino chiamavano 'pozza rossa' a motivo dell'acqua che ristagnava spesso la centro della via [...]. Armando Monari passò dalla 'pozza rossa' con un amico il 4 dicembre e vide don Ferdinando e la sorella Giulia stesi sulla via. Anche altri li videro, come i Fantini di Rioveggio che, per non affondare nella melma, dovettero spostare le due salme a lato della via. Poi altri, forse i soldati sudafricani, per liberare il passaggio tolsero dalla via i due corpi rovesciandoli lungo il pendio laterale [...]. Don Settimio Marconi descrive nel suo diario l'episodio: "[ ...] trucidati ambedue dai tedeschi nella prima quindicina di ottobre 1944 e gettati in un piccolo burrone distante poco più di 300 metri dalla Chiesa di S. Martino nella strada che va alla Steccola". D. Zanini, op. cit., pp. 544-546.

Gino Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, ora residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato che il burrone nel quale i due corpi furono ritrovati è quello sottostante la lapide posta in località Pozza Rossa che li ricorda.


Scheda storica n° 11: Monte Caprara

 

"Chiesa già citata nelle decime del 1300 ed in quelle del 1378; in quest'ultime vi si trova la dicitura di S. Michele del Castello di Caprara. Il castello dovette esistere nel Duecento ed era in possesso dei conti di Caprara, forse un ramo dei da Panico; nel Trecento era già sotto la giurisdizione di Bologna dalla quale fu tolto nel 1326 ad opera sempre dei Panico. Ripreso da Bologna, fu riedificata la chiesa a pubbliche spese nel 1328. Nel 1565 di questa contea fu investita, da Clemente VII, la famiglia Castelli. Del castello e della Chiesa di S. Michele oggi non rimangono tracce alcune". Provincia di Bologna, op. cit., p. 11.

 

 

 

 

LE QUERCE DI MONTE SOLE

  

SI PIEGANO LE QUERCE

COME SALICI

SUL CUORE DELLE ROCCE

A MONTE SOLE

HANNO MEMORIA LE QUERCE, HANNO MEMORIA

 

MEMORIA DI SANGUIGNE

UVE

PIGIATE IN TORCHI AMARI

MEMORIA DI STERMINI E DI PAURE

MEMORIA DELLA SCURE

NEL VENTRE DELLE MADRI

HANNO MEMORIA LE QUERCE, HANNO MEMORIA

 

MEMORIA DI RECINTI PROFANATI

MEMORIA DELL'ANGELO E DEL PASTORE

CROCIFISSI

TRA RELIQUIE DI SANTI

SULL'ALTARE

HANNO MEMORIA LE QUERCE, HANNO MEMORIA

 

MEMORIA DELL'INVERNO DESOLATO

MEMORIA DELLA BIANCA 

OSTIA DI NEVE

E DEL KYRIE DEGLI ANGELI

SUL CORPO DEL PROFETA

DECOLLATO

 

ARDONO LE QUERCE

COME CERI

SUL CANDELABRO DELLA NOTTE

A MONTE SOLE.

CRISTO FIGLIO DEL DIO VIVO, PIETA' DI NOI.

VERGINE DEL GIGLIO E DELL'ULIVO, INTERCEDI PER NOI

BEATI MARTIRI DI MONTE SOLE, PREGATE PER NOI.

 

 

LUCIANO GHERARDI

  

Francesco Pirini è uno dei testimoni sopravvissuti dalla strage.
E' un grande esempio di umanità e di fede;
i giovani dei campi estivi GIM e la redazione di Giovaniemissione l'hanno incontrato svariate volte...
ecco un resoconto dopo uno dei molti incontri.

TESTIMONIANZA DI FRANCESCO PIRINI

 Francesco Pirini è un testimone, ancora in vita, che ha vissuto nel 1944 le vicende note come la “strage di Marzabotto”.

L’incontro con Francesco è avvenuto proprio nei luoghi che in quei tempi furono teatro di queste drammatiche vicende. Decide di condividere la sua esperienza con noi, un gruppo di giovani in cammino, che, con l’aiuto della Parola, tenta di capire verso quale direzione ci accompagna Dio. Sono ormai alcuni anni che Francesco ha scelto di raccontare quei giorni della sua vita ai giovani di diverse nazionalità, cercando di soffermarsi sui sentimenti che lo hanno accompagnato per tutti questi anni. Non deve essere stato facile per lui scavare nei ricordi e aprirsi agli altri: in quei giorni, infatti, ha perso tutta la sua famiglia, tranne sua sorella Lidia. Nonostante le difficoltà da lui incontrate, c’è una responsabilità che chiede di essere adempiuta: il dovere della testimonianza, perché la memoria non scompaia.

La chiave di lettura di tutto il suo racconto è il PERDONO, passaggio obbligato perché si possa parlare di un futuro senza rancore dove regni la pace.

Francesco ha vissuto in prima persona l’esperienza del perdono, ma ne ha acquisito consapevolezza solo durante un episodio, che ricorda perfettamente, avvenuto pochi anni fa. Nel marzo del 2002 un giornalista, corrispondente per l’Italia di un giornale tedesco, contatta Francesco e gli comunica che sono emersi i nomi dei responsabili delle stragi avvenute nel 1944 a Montesole: si tratta degli ufficiali delle SS Meier e Rader. Meier è un uomo ormai anziano affetto da paralisi, il quale, circa gli avvenimenti di Montesole, sostiene freddamente: “Lo rifarei”. Il giornalista dopo aver fatto questa dichiarazione si rivolge a Francesco chiedendogli: “Se lei si trovasse di fronte a Meier adesso, cosa farebbe?”

Francesco risponde: “Lo PERDONEREI!”

Questa risposta non era affatto scontata…non era il risultato di un atto di buonismo ma la conclusione di un lungo percorso che ha portato Francesco a raggiungere una pace interiore, liberandolo dal rancore.

Mentre ci raccontava abbiamo visto i suoi occhi pieni di serenità e, soprattutto, ne abbiamo percepito la trasparenza, che solo chi ha saputo davvero perdonare può avere.

A molti la sua scelta, sentita fino in fondo, è sembrata impossibile e assurda: è molto più facile concepire un sentimento di odio, anziché di perdono, nei confronti di coloro che sono stati la causa di una così grande sofferenza.

Francesco non ha scelto la via più scontata, sicuramente il suo percorso è stato più difficile ma ora riconosce di aver trasformato il senso di oppressione che lo accompagnava in una grande liberazione.

Quest’uomo così semplice ci ha dato un grandissimo esempio di una Fede pura e genuina, è stata sicuramente questa una delle maggiori spinte che gli ha permesso di rileggere i fatti sotto una luce diversa. Alle nostre domande, in cui gli veniva chiesto come avesse fatto a perdonare quell’uomo, benchè non si fosse pentito, ha risposto da cristiano autentico: Meier - per lui - resta una creatura di Dio e, in quanto tale, ha dentro di sé anche dei sentimenti buoni.

 Non nascondiamo la nostra difficoltà a comprendere un tale pensiero, ma certamente Francesco è stato per noi un grande testimone, perché la sua persona e le sue parole sono la concretizzazione di una immensa Fede.

Francesco parla ai giovani perché il futuro è nelle nostre mani ed è convinto che solamente con la memoria storica si potrà evitare di rifare gli stessi errori, cercando, soprattutto, di rileggere gli avvenimenti senza superficialità, ricordandosi che dietro ogni evento ci sono delle persone.

 Laura e Francesca