CARCERE E DIRITTI UMANI

a cura dei detenuti della Casa Circondariale di Montorio (VR)

 

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CARCERE E DIRITTI UMANI

La pace nelle nostre mani

Verona, 1 settembre 2001

 

 

CARCERE E DIRITTI UMANI

a cura dei detenuti della Casa Circondariale di Montorio (VR)

Voce 1

            Trovo molta difficoltà ad esprimermi, forse perché in particolari situazioni come questa certe emozioni restano dentro il cuore e possono uscire solamente attraverso uno sguardo, un sorriso, una lacrima, e non attraverso le parole.

 

Voce 2

Se qualcuno non si comporta secondo la legge, il carcere è quello che si merita: poteva pensarci prima.

 

Voce 3

E’ quello che ho sempre detto anch’io. Che senso ha parlare di riforme, di miglioramento della vita in carcere, perfino di televisione per dei delinquenti? Non avevo neanche bisogno di pensarci, tanto era una cosa che non mi riguardava. In fondo del carcere non mi fregava assolutamente niente - prima di entrarci.

 

Voce 2

Si tratta di una pattumiera umana, dove tanti sacchi neri ambulanti vengono raccolti e ammassati, in modo che non inquinino l’ambiente circostante e non diffondano la puzza in città.  Bisogna evitare che qualcuno di questi sacchi di spazzatura fuoriesca dal bidone, e, quando capita, rimettercelo dentro al più presto.

 

Voce 1

Che strano: ogni giorno si inventano leggi per impedire che i grandi ladri (quelli ricchi, quelli che comandano) finiscano dentro: l’immunità parlamentare, le rogatorie, il falso in bilancio, il condono fiscale, il legittimo sospetto, le mirabolanti perdite di tempo di chi può pagarsi o premiare con incarichi politici gli avvocati famosi; eppure le carceri non sono mai state così sovraffollate.

 

Voce 3

Ho provato anch’io, quando mi hanno beccato con lo stereo, a dire che sono perseguitato dai giudici comunisti. Ma non ha funzionato, forse perché avevo l’avvocato d’ufficio

 

Voce 1

E’ un sovraffollamento solo di poveracci, di quelli che sull’illegalità non hanno costruito fortune, che spesso anzi ci sono stati spinti dalla tossicodipendenza o dall’immigrazione, senza alternative. Almeno un terzo, e a Montorio più della metà, sono stranieri. Con la prossima legge ci saranno molti più clandestini che finiranno in carcere.

La convivenza tra etnie e religioni diverse è a volte problematica. Nel mondo esterno, se non si va d’accordo con qualcuno, ci si evita; in carcere non è così semplice e spesso si è costretti a condividere 18 metri quadrati (cesso compreso) in tre persone di provenienza, abitudini, mentalità differenti. La condivisione degli stessi, ristretti, spazi, produce il tipico “stress da gabbia”: è difficile trovare la giusta armonia, se non ci sono alternative al pestarsi i piedi. Quando poi a chi manca di tutto non viene dato nemmeno l’essenziale previsto dal regolamento, allora le tensioni diventano disperazione, episodi di autolesionismo e prevaricazione come guerre tra poveri.

Ogni detenuto viene prima o poi scarcerato. La qualità della vita che ha trascorso dietro le sbarre influisce in modo determinante sulla sua futura condotta in libertà.

            Secondo il nostro ordinamento, che è probabilmente migliore delle persone che lo applicano, a chi ha violato il patto sociale dovrebbero essere offerte occasioni per riprendere il filo interrotto, magari dopo un naufragio esistenziale. Gli dovrebbe essere concessa gradatamente fiducia con strumenti per riprendere il cammino, come un’attività lavorativa, un trattamento terapeutico, una messa in prova all’esterno del carcere.

 

Voce 3

Invece anche se in carcere c’è un oceano di tempo, da mattina a sera, la maggior parte di noi è costretta ad oziare senza costruire nulla, senza poter lavorare e riscattarsi dignitosamente e tempestivamente per gli errori commessi, ma anzi gravando ulteriormente sulle famiglie, già provate dalla vergogna e dall’umiliazione per le nostre vicende, e come parassiti sulle spalle della società. Secondo gli ultimi dati che conosciamo, a Montorio solo il 12% dei detenuti era ammesso a qualche attività. Resta il problema di dare un senso alle giornate che si susseguono l’una all’altra come millimetri su un metro.

L’incertezza e l’attesa rappresentano la nostra condizione fondamentale. La lentissima azione giudiziaria, che spesso si protrae per anni, è causa dei lunghi soggiorni in attesa di giudizio, mentre i benefici di legge spettano solo quando la sentenza diventerà definitiva. Ma in quel momento inizia un nuovo calvario perché il magistrato di sorveglianza decide solo dopo aver valutato una “relazione” del personale penitenziario. In un carcere con 570 detenuti, come fanno 4 educatori a conoscere le singole situazioni? Ma se a Montorio da anni non c’è nemmeno un direttore! Si allungano le liste d’attesa, prima per avere la carità di un colloquio e di una relazione, poi per entrare nel calendario delle udienze del tribunale di sorveglianza. Mesi e mesi, a volte anni di carcere in più, quando invece la legge prevede una misura alternativa.

 

Voce 1

Il sovraffollamento si morde la coda e cresce su se stesso. Più sono i detenuti, più si allungano i tempi delle scarcerazioni, più crescono i detenuti. Più si riducono le attività di recupero e le occasioni di reinserimento, più aumentano le recidive e quindi i detenuti. E aggiungiamo anche il pugno di ferro contro i poveracci (cioè gli immigrati).

 

Voce 2

Per questo si stanno costruendo nuove carceri.

 

Voce 1

E se, invece di costruire un carcere per contenere più detenuti, si assumesse qualche educatore e qualche giudice di sorveglianza per ridurli secondo la legge, non costerebbe infinitamente meno? Si moltiplicherebbero le attività di recupero, si applicherebbero le misure alternative. E, soprattutto, perché non pensare a pene, a forme di intervento diverse dal carcere, più certe, più efficaci, più tese a ricostruire la convivenza, a risarcire i danni, ad aiutare chi è in difficoltà?

 

Associazioni operanti: Ass. “La fraternità”, Gruppo Don Tonino Bello, Amnesty International.