Milano,
città scomposta
La
città scomposta:
con questo titolo una pubblicazione della Caritas Ambrosiana
sottolinea la dimensione di frammentazione, di separatezza, di
incomunicabilità tra le parti che caratterizza Milano se la si
guarda, come recita il sottotitolo, dal punto di vista degli
“ultimi della fila”.
Il
dato essenziale che leggiamo quotidianamente è che accanto a una povertà
di risorse, indiscussa e da colmare, le fasce più deboli della
popolazione vivono anche una condizione di separatezza, di
distanza, di marginalità che le spinge sempre più verso
l’esclusione sociale.
Le
esemplificazioni possibili a questo riguardo sono numerose.
Pensiamo
ad esempio ai senza dimora, sempre più anche giovani, non
solo uomini, sempre più soli, la cui lotta è anche di matrice
culturale, volta a dover giustificare una condizione esistenziale
che la collettività rifiuta perché cozza con il modello di vita
vincente dell’adulto efficiente, produttivo, sufficiente a se
stesso, integrato. Si tratta prevalentemente di persone di età
compresa tra i 35 e i 49 anni, con situazioni diffuse di
solitudine affettiva e relazionale. Spesso, infatti, è proprio
l’insorgere di eventi negativi a livello familiare ad aprire la strada
alla rottura di quell’ombrello protettivo che solitamente viene
garantito dalla famiglia stessa.
Accanto
ai senza dimora c’è poi una ben più larga fascia di
popolazione debole - in primo luogo gli immigrati ma non
soltanto loro - che vive una pesante condizione di disagio
abitativo, dalle sistemazioni temporanee in dormitori e Centri
di accoglienza alle situazioni di alloggio improprio o precario. Secondo una stima dell’associazione Ares,
presentata nel rapporto Il colore delle case 2000
“il 30% circa degli immigrati sarebbe riuscito a trovare un
normale alloggio, un altro 30% abiterebbe in condizioni di
precarietà e sovraffollamento, il restante 40% sarebbe disperso
in mille rivoli senza fissa dimora”. Altri dati della ricerca
mettono in evidenza, oltre alla generalizzata difficoltà dei
proprietari ad affittare agli immigrati, i costi aggiuntivi
pretesi agli stranieri, il ricorso ad un patrimonio abitativo
ormai da tempo fuori mercato, la carenza, insieme alle case
d’abitazione, di realtà di prima e seconda accoglienza.
Ancora,
pensiamo agli anziani, soprattutto se soli o
non-autosufficienti, la cui presenza a livello cittadino ha fatto
registrare un indice di vecchiaia che si moltiplica col tempo.
L’aspetto più drammatico, e in parte sconosciuto, è quello
delle conseguenze, in termini di qualità della vita, di un
percorso di progressiva non autosufficienza. Considerando la
cerchia dei loro familiari (la loro famiglia base è composta in
media da poco meno di 3 componenti cui si aggiungono altri quattro
parenti non conviventi) il rapporto tra anziani non
autosufficienti e popolazione milanese che deve confrontarsi
quotidianamente con la non autosufficienza oscilla tra valori di
1/6 e 1/4. E’ allora l’evoluzione strutturale del panorama
delle necessità che richiede una sostanziale rifondazione della
rete dei servizi.
Complessivamente
tendono ad allargarsi a macchia d’olio quelle che definiremmo
situazioni a rischio di esclusione sociale. Essere “poveri”
a Milano, allora, non significa più semplicemente perdere le
risorse materiali per vivere, qualunque possa esserne la ragione o
l’evento scatenante; essere “poveri” significa anche
scoprire che, davanti a una o più situazioni drammatiche e
imprevedibili (una malattia grave, un handicap, un anziano
non-autosufficiente, la perdita di lavoro, un affitto che diventa
insostenibile) non si dispone dei supporti necessari per farvi
fronte. Un evento grave, ma di per sé non straordinario, può
rendere manifesto un contesto individuale e socio-relazionale
arido, al limite inesistente, sicuramente insufficiente per
sostenere il nucleo familiare o la persona in difficoltà. La
conseguente multidimensionalità del fenomeno “povertà”, è
data in realtà da un processo di esclusione sociale che si
innesca con l’evento scatenante e che trova terreno fertile in
una diffusa disattenzione delle istituzioni e/o dei vari soggetti
che indirettamente allontanano dalle risorse, talvolta anche
materiali, ma soprattutto dalla possibilità di acquisire capacità,
di agire, di esercitare e veder riconosciuti i propri diritti.
In
questo quadro diventa decisiva una politica di sostegno a favore
della famiglia che sappia accompagnare e integrare le sue
potenzialità e le sue risorse in un’ottica realmente
comunitaria e di condivisione e non si riduca alla semplice
‘delega’ giustificata tutt’al più da una ricompensa
economica. La famiglia, oggi più che mai, mantiene il proprio
ruolo centrale di crescita, sviluppo, accoglienza, e cura della
persone ma ha bisogno di collocarsi in un tessuto di appartenenza
più ampio del proprio nucleo, che le garantisca supporto e
risposte concrete di aiuto, di vicinanza nella gestione della
quotidianità. Ciò assume il carattere della necessità
imprescindibile quando la famiglia deve affrontare situazioni di
bisogno specifiche (dalla cura di un anziano alla presenza di un
disabile, alle famiglie monogenitoriali).
Città
scomposta a livello sociale, dunque. Ma anche a livello di
organizzazione dello spazio urbano. A fronte di un centro vitale,
all’avanguardia, sempre più produttivo e luminoso, anche se
sempre più disabitato, le periferie continuano ad essere
per lo più quartieri-dormitorio, vuoti di segni e riferimenti
culturali, contenitori di una quotidianità spenta. Eppure molti
di quelli che durante il giorno lavorano e vivono il centro hanno
poi nelle periferie la loro casa, le scuole, le strade o i
“muretti” dei propri figli. E’ paradossalmente proprio nelle
periferie, laddove non si investe in termini di cultura, di
educazione, di socializzazione, di qualità della vita, di salute,
che si svolge la vita normale di buona parte dei milanesi.
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