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da La Repubblica

La fine dell'innocenza americana

LA TESTIMONIANZA

di CARLO DE BENEDETTI

SAREI dovuto salire al 106 piano del World Trade Center. Avrei dovuto
raccontare ai promotori americani dove investire. Avrei dovuto parlare della
crisi che sta colpendo i titoli hi-tech. Avrei dovuto spiegare che valeva la
pena avere coraggio, anche in quella congiuntura sfavorevole. Avrei dovuto.
Ma non l'ho potuto fare. Perché il 13 settembre, giorno in cui era fissata
l'annuale conferenza dell'Economist sui fondi di investimento, il World
Trade Center non esisteva più. Perché le torri più alte del mondo erano
crollate, ferite a morte dalla ferocia del fanatismo. Perché gran parte
della platea di gestori e investitori che avrebbe dovuto ascoltare quel mio
intervento era ormai sepolta, in una gigantesca bara d'acciaio.
La tragedia dell'America l' ho vissuta con gli americani. Il 10 settembre,
infatti, ero a Washington per alcuni incontri di lavoro. E l'11 avrei dovuto
trasferirmi a New York. La notizia degli attacchi mi è arrivata proprio
mentre ero in partenza per Manhattan. Così mi sono fermato nella capitale
Usa. Dove sono rimasto bloccato dalla completa paralisi dei trasporti fino a
domenica scorsa. Ho anche tentato di raggiungere il Canada in autobus o in
treno, ma è stato inutile.

Sono rimasto per costrizione, dunque. Ma non solo. Perché chi è stato in
America in questi giorni non può non aver condiviso con gli americani uno
speciale sentimento di solidarietà, di unità, di consonanza. Ho incontrato
esponenti dell'amministrazione e della business community, ho parlato con i
molti amici che ho a Washington e con la gente di strada, ho passato ore
davanti alla Cnn. Ho sentito e detto parole. Ho avuto giornate intere per
riflettere.
Alla fine qualche idea me la sono fatta. E la prima, purtroppo, è un'idea di
sconfitta. Dopo quello che è accaduto, gli Stati Uniti non potranno più
essere gli stessi. Noi europei abbiamo millenni di storia e di guerra alle
spalle, la nostra è ormai una società disincantata. L'America, fino a ieri,
non aveva mai visto scorrere sul proprio suolo il sangue dei propri figli
per mano nemica. Viveva nell'illusione dell'incanto e dell'innocenza. Tutto
questo giace ora, con migliaia di corpi, sotto le tonnellate di polvere in
cui si sono disintegrate le Torri gemelle.
Quello americano - scriveva qualche giorno fa l'Economist, non senza un
pizzico di rimpianto - "was a fool's paradise", era il paradiso dei folli.
Una società in cui l'imperativo principale era la libertà. Libertà a tutti i
costi, anche a scapito della sicurezza. Per accorgersene bastava poco.
Prendere un aereo a New York, a Los Angeles, a Miami era come da noi salire
su un tram: bastava avere il biglietto, nessun controllo, nessuna
precauzione. Dirlo oggi ci appare fatalmente macabro. Ma fino a ieri nel
solo raccontarcelo provavamo l'ebbrezza di una società costruita senza
vincoli. Che nell'assenza di vincoli trovava la sua stessa ragion d'essere.
Quanti vincoli e quante barriere si erigeranno sin da domani. E quei muri,
per reazione, saranno più forti di quel che sarebbe necessario. La ricerca
di una maggior sicurezza si tradurrà giocoforza in una minore libertà.
L'America del nolimits finirà per sempre. Ce ne accorgeremo tornando al JFK
o a Newark: più controlli, più file, più burocrazia. Ma non solo. L'onda
d'urto di questa inversione di rotta arriverà anche in Europa. Viaggiare
sarà più difficile; lo sguardo occhiuto delle intelligence di tutto il mondo
lederà la nostra privacy; le merci, i capitali, le persone circoleranno meno
velocemente.
In una parola, saremo meno liberi. Il confine tra sicurezza e libertà è una
linea sottile in democrazia: la tragedia delle Torri gemelle sposterà quella
linea ben oltre il limite cui tutti noi ci eravamo abituati in questi anni.
Tra le sicurezze che abbiamo smarrito c'è quella della solidità del mercato
finanziario e delle nostre economie. C'è chi dice, ora, che tra gli
obiettivi di Bin Laden ci fosse anche quello di speculare al ribasso sul
crollo dei titoli di borsa. Di certo i kamikaze puntavano a destabilizzare
la fiducia nel sistema finanziario internazionale: un obiettivo che è stato
raggiunto. Wall Street ha tenuto: non c'è stato panic selling. Ma l'economia
globalizzata ha improvvisamente mostrato tutta la sua fragilità. L'effetto
terrorismo si è aggiunto alla crisi congiunturale. E ora ci vorranno decenni
prima che gli investitori recuperino coraggio e tornino in massa sul
mercato.
Ecco perché i barbari distruttori del World Trade Center la loro vittoria
l'hanno già incassata: hanno strappato agli Usa la loro innocenza, hanno
costretto l'Occidente a essere meno libero, hanno destabilizzato il mercato
globale.
Ma ora sta agli americani e a tutti noi impedire che la nostra sconfitta si
traduca in una debacle ancor più generalizzata. L'America straordinaria che
ho imparato ad amare e a conoscere in quarant'anni di visite frequenti e di
contatti quasi quotidiani è un miracolo di società multietnica,
multirazziale, multireligiosa. La tolleranza è la sua natura: se tutto
questo venisse meno, finirebbe l'America stessa, e i terroristi avrebbero
riportato la vittoria più importante.
Le facili semplificazioni non mi sono mai piaciute. Perciò rimango
sbalordito dinanzi all'equazione che in tanti fanno tra l'Islam e il nemico.
Capisco che la paura e l'ansia possano indurre in errore anche persone ai
più alti livelli di responsabilità. Ma se gli Stati Uniti tradurranno la
loro legittima reazione in una guerra di religione, a pagare non sarà solo
il mondo islamico, ma la civiltà tutta.
Sono rimasto sorpreso nel sentir pronunciare dal Presidente George W. Bush
la parola «guerra». Questa non è una guerra. Non fosse altro che per il
fatto che non ci sarà mai una pace. Tutte le guerre, dalla più lunga alla
più breve, sono sempre finite con la firma di una pace. Questa volta, però,
non sarà possibile. Perché l'avversario non è uno Stato, ma un inestricabile
intreccio di organizzazioni terroristiche. E il terrorismo non si sconfigge
con la guerra e non firma trattati di pace.
Un'azione bellica a tutto campo rischierebbe solo di alimentare la barbarie.
Ogni giorno nuovi martiri suicidi verrebbero fuori dalle loro tane disposti
a sacrificare la propria vita per combattere l'Occidente. La strada da
seguire è un'altra. E anche molti americani ne sono consapevoli: non la
rappresaglia generalizzata, ma un'offensiva mirata contro i responsabili
degli attentati, accompagnata da una fitta iniziativa diplomatica verso i
settori più colti e tolleranti del mondo islamico. Ho accolto con speranza
le prese di posizione contro il terrorismo dei tanti islamici sparsi per il
mondo: un'alleanza tra civiltà, questo deve essere lo sbocco, e non quel
"Clash of Civilizations" annunciato da Samuel Huntington.
Sono giorni amari per l'America. Per l'America e per il mondo intero. Ma non
ne verremo fuori dichiarando guerra all'Islam. Ne usciremo solo se gli
americani sapranno riscoprire lo spirito col quale nel secolo scorso
crearono le istituzioni globali. La Società delle nazioni, prima, e l'Onu,
poi, non sarebbero mai nate senza gli sforzi degli Stati Uniti. Perciò oggi
più che mai qualunque intervento sarebbe mille volte più efficace se
avvenisse sotto l'egida di una dichiarazione delle Nazioni Unite. Per la
prima volta c'è l'opportunità di un Consiglio di sicurezza non paralizzato
dai veti contrapposti. Non andrebbe sprecata.
Tra le cose più sensate che ho sentito dire in quei miei giorni a Washington
è che ora l'America, insieme con il suo orgoglio, deve riscoprire la sua
modestia. Non solo non dovrà reagire da sola, ma dovrà reagire con la calma
consapevolezza di chi sa che non esiste una sola verità, che la propria
organizzazione sociale è solo una delle tante possibili, che la propria
cultura trova il suo apice nella tolleranza verso le altre culture. Il
modello occidentale ha una sua "naturale" tendenza espansiva. Ma troppo
spesso l'America ha dato l'impressione di voler monopolizzare il modo di
organizzarsi e di vivere di popolazioni con antiche e differenti tradizioni.
Quell'errore, ora più che mai, non va ripetuto.
Non si può, e non si deve, imporre a nessuno un modello unico di vita e di
economia. Le culture, le religioni, le tradizioni devono essere multiple,
originali e trovare un equilibrio tra loro nella saggezza del sapere e nella
cultura della tolleranza e delle convivenza. Più di duecento anni fa un
viaggiatore geniale, Alexis de Tocqueville, rimase stupito ed estasiato
nello scoprire tutto questo nelle comunità di coloni che popolavano il nuovo
mondo. Se i discendenti di quei coloni sapranno ritrovare quello spirito, la
battaglia più importante contro la barbarie non sarà persa.