Il Perù che vogliamo 

di Hubert Lanssiers

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Il Perù che vogliamo di Hubert Lanssiers

 

Che tipo di paese vogliamo? Questa domanda invita a formulare un’utopia e le utopie non mi piacciono. Credo nella necessità e nel potere di grandi aneliti collettivi più o meno articolati che non confonderò con l’utopia. Questa parola sembra un dischetto infettato da tutti i virus della storia.

Voglio un paese dove i lavoratori e gli impiegati possano vivere una vita equilibrata con il salario che ricevono, dove possono risparmiare e costruire per i loro figli un avvenire che colmi le loro aspirazioni ragionevoli; un paese dove le strutture, efficienti e misericordiose, riconoscano l’individuo, lo proteggano e lo promuovano; un paese dove ciascun cittadino si renda conto che la solidarietà manifestata concretamente nel piacere della vita quotidiana, facilita la vita degli altri e la propria; dove il burocrate, il benzinaio, il muratore, il poliziotto e il giudice capiscano che la loro onestà possa vivere senza la paura di essere ingannati; dove non mi crescano, per mutazione genetica, una moltitudine di antenne per detettare i pericoli che mi circondano; un paese dove la legge e quelli che l’applicano stiano al servizio dei deboli; dove non ci sia bisogno di “padrini” per ottenere giustizia, né denaro per comprarla.

Il paese che voglio è un paese dove gli anziani possano bere una birra in compagnia dei loro amici, dove essere vecchio non sia un delitto punibile con un vago disprezzo, dove la frase di Gonzales Prada: “i giovani all’opera, i vecchi alla tomba” non sia celebrata periodicamente da un gruppetto di imbecilli.

Voglio un paese dove un pensionato non dipenda dal buon umore del genero per procurarsi una sigaretta, dove le istituzioni pubbliche e private gli manifestino rispetto e dove non sia necessario ricorrere al dizionario per scoprire il significato della parola dignità.

Voglio che la anzianità non inizi a cinque anni nello sguardo spento dei ragazzi; ci volle una preparazione millenaria perché fiorisse, in un mondo buio, il sorriso fragile di un bambino.

Voglio che siano capaci (i ragazzi) di meravigliarsi e di avvolgersi nelle meraviglie dell’universo, nei fiori e le stelle, voglio che siano poeti. Voglio che non si uccida il piccolo Einstein che conta con le dita o a Mozart che muove la testa al ritmo di una sinfonia misteriosa.

Voglio che non siano educati “a manate” rendendoli così “incapaci”; non voglio che i maghi della pubblicità li trasformino in gremlins voraci che si riempiono di trivialità. Voglio che sappiano dove si trova la Somalia e che questa parola li faccia piangere.

Voglio un paese dove la giustizia sia personalizzata e si cambi in equità, dove il giustiziere non sia considerato come l’unico garante della civilizzazione, dove la speranza non venga, di tanto in tanto, come se fosse marmellata. Voglio, in poche parole, un paese normale. Desidero anche il mio paese sia il bel figlio del mio sforzo, della mia intelligenza e del mio amore.

Credo che Dio sia peruviano e che mi parla; credo che, in certe occasioni, apra il suo negozio in qualche posto sperduto della periferia e che quando mi avvicino, tutto tranquillo, per chiedere pace e armonia, Lui mi risponde sorridendo: “Ti sbagli figlio, qui non vendiamo frutta. Distribuiamo soltanto le sementi”.