Una battaglia contro la povertà

di JAMES WOLFENSOHN

direttore della Banca Mondiale

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 tratto da www.repubblica.it


I terrificanti eventi dell'11 settembre hanno aperto per molti un periodo di riflessione su come rendere il mondo un luogo migliore e più sicuro. La comunità internazionale si è già mossa con decisione affrontando direttamente il terrorismo e aumentando la sicurezza. Siamo stati testimoni anche di una vera collaborazione mirata a scongiurare la recessione globale.
Ma dobbiamo andare un passo oltre. La maggiore sfida a lungo termine che la comunità mondiale deve affrontare per costruire un mondo migliore è lottare contro la povertà in tutto il mondo.

L'imperativo è ancora più urgente oggi di fronte alla consapevolezza che a causa degli attacchi terroristici la crescita nei paesi in via di sviluppo vacillerà, spingendo altri milioni di persone nella povertà e causando la morte di decine di migliaia di bambini per denutrizione, malattie e privazioni.
La povertà in sé non porta immediatamente e direttamente al conflitto, tanto meno al terrorismo. Piuttosto che reagire alle privazioni scagliandosi contro gli altri, la grande maggioranza dei poveri del mondo dedica le proprie energie alla lotta quotidiana per garantirsi un reddito, cibo e opportunità per i figli.
Eppure sappiamo che l'esclusione può far nascere violenti conflitti. Un'attenta analisi ci dimostra che le guerre civili spesso sono derivate non tanto dalle differenze etniche – solito capro espiatorio – ma da un insieme di fattori dei quali, bisogna riconoscerlo, la povertà è ingrediente fondamentale. I paesi lacerati dai conflitti, a loro volta, diventano porti sicuri per i terroristi.
Il nostro obiettivo comune deve essere sradicare la povertà, promuovere l'inclusione e la giustizia sociale, portare gli emarginati nel flusso dell'economia e della società globali.
Un ruolo centrale nella prevenzione dei conflitti e nel processo di pace deve andare a strategie per la promozione della coesione e integrazione sociali. Integrazione significa assicurarsi che tutti abbiano opportunità di un impiego remunerato e che le società evitino ampi divari tra i redditi che possono minare la stabilità sociale. Ma l'integrazione va ben oltre il reddito. Significa adoperarsi perché i poveri abbiano accesso all'istruzione, all'assistenza sanitaria, e a servizi fondamentali come acqua potabile, fognature ed energia elettrica. Significa mettere le persone in grado di partecipare a decisioni chiave che interessano le loro vite. Ecco che cosa indichiamo con il termine "delega".
Ma davvero possiamo progredire nella lotta contro la povertà? La storia recente lo conferma. Dopo una crescita costante nell'arco di 200 anni, il numero delle persone che in tutto il mondo vivono in povertà ha iniziato a diminuire 15 o 20 anni fa. In vent'anni si è ridotto di forse 200 milioni, a fronte di un aumento della popolazione globale di 1,6 miliardi.
E il progresso va ben al di là dei termini riferiti al reddito. Anche l'istruzione e la salute pubblica sono migliorate. Dal 1970 la percentuale di analfabetismo nel terzo mondo si è radicalmente abbassata dal 47 al 25%. Dal 1960 l'aspettativa di vita è salita dai 45 ai 64 anni. Non dobbiamo però sottovalutare le sfide che ancora ci attendono. Metà del terzo mondo, circa 2 miliardi di persone, vivono in paesi in cui la crescita negli ultimi decenni è stata scarsa. Persino in quei paesi in via di sviluppo che hanno avuto un andamento relativamente soddisfacente, centinaia di milioni di persone sono rimaste ai margini del processo di crescita. Il risultato è che ben più di un miliardo di persone, circa il 20% della popolazione del pianeta, vivono oggi con meno di 1 dollaro al giorno.
La sfida è di dimensioni immense e per di più in crescita. Nei prossimi trent'anni la popolazione mondiale passerà da 6 a 8 miliardi di individui e i due miliardi in più saranno quasi tutti nei paesi poveri del mondo. Sulla scia della tragedia dell'11 settembre, è quanto mai importante affrontare queste sfide e intraprendere un'azione multilaterale per superarle. Quale deve essere la nostra agenda?
Prima di tutto aumentare progressivamente gli aiuti esterni. Sarà forse più difficile nell'ambito di un'economia internazionale in rallentamento, ma le esigenze e le poste in gioco non sono mai state così ingenti. Gli aiuti all'Africa sono scesi dai 36$ a persona nel 1990 ai 20 attuali. Eppure è proprio l'Africa, un continente che oggi sta producendo grandi sforzi di miglioramento, che potrebbe risentire più acutamente delle conseguenze degli attacchi terroristici sulla povertà. Non possiamo tralasciare l'Africa puntando lo sguardo altrove.
Secondo, ridurre le barriere commerciali. Il summit del Wto deve svolgersi e rappresentare una tornata di sviluppo, motivata soprattutto dal desiderio di usare il commercio come strumento per ridurre la povertà e per favorire lo sviluppo.
Terzo, aiuti finalizzati allo sviluppo per garantirne il successo. Questo significa migliorare il clima relativamente a investimenti, produttività, crescita e posti di lavoro. Quarto, agire a livello internazionale su temi globali. Questo significa opporsi al terrorismo, al crimine internazionale e al riciclaggio, ma anche combattere malattie trasmissibili come l'Aids e la malaria, costruire un sistema equo di commercio globale, salvaguardare la stabilità finanziaria per prevenire crisi profonde e improvvise e salvaguardare le risorse naturali e ambientali dalle quali dipendono i mezzi di sussistenza di tante persone .
Tutto questo va fatto con i paesi in via di sviluppo al posto di guida, autonomi nei loro programmi e nelle loro scelte. Dobbiamo però anche coinvolgere il settore privato, la società civile, i gruppi religiosi e i donatori internazionali e nazionali. La nostra deve essere una coalizione globale – per combattere il terrorismo, sì, ma anche per combattere la povertà.
Sta a noi decidere di accettare la sfida. Alcune generazioni ne hanno avuto il coraggio, altre si sono voltate dall'altra parte. I nostri genitori e nonni hanno risposto agli orrori indicibili della seconda guerra mondiale non tirandosi indietro ma riunendosi a costruire un sistema internazionale. Invece le scelte fatte dopo la prima guerra mondiale ebbero effetti disastrosi. Il corso che sceglieremo non determinerà solo il nostro futuro, ma anche se i nostri figli e nipoti potranno vivere in pace.

L'autore è direttore della Banca Mondiale
(Traduzione di Emilia Benghi)