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L'ETEROGENEITA' DEL MOVIMENTO COME PROGETTO POLITICO

Vi scrivo (a titolo personale: le sigle servono solo a identificare il
mio ambito di provenienza) chiedendovi attenzione, nonostante che parte
delle cose che dirò siano in contrasto con quanto finora emerso sul
"nostro" giornale: non è un caso che scriva proprio al Manifesto,
l'unico quotidiano cui sia abbonato.
Indipendentemente dalle motivazioni che hanno spinto con convinzione
ognuno di noi a costruire il controvertice genovese, ed a partecipare
alle manifestazioni di piazza, sarebbe ingenuo non partire da ciò che
emerge come il dato prioritario che ci riguarda tutti: il cambio netto
avvenuto nella cultura politica di questo paese (e non solo), e nelle
dinamiche repressive con le quali si è deciso di affrontare il dissenso
sociale, e nello specifico questo movimento. Siamo di fronte ad una
svolta autoritaria, che non riguarda più solo i G8 o il GSF, quanto i
rapporti di forza all'interno dell'Italia, il rapporto tra i "poteri
costituiti" e la piazza, il ruolo del nuovo governo. Anche chi come il
sottoscritto è parte del movimento del commercio equo e solidale e
lillipuziano, e si è mobilitato a Genova (assieme a tantissimi altri)
partendo da contenuti relativi soprattutto alla politica internazionale,
allo squilibrio Nord/Sud ed alla giustizia economica, deve tener conto
del nuovo contesto nel quale i suoi obiettivi e le sue forme
organizzative si collocheranno d'ora in poi.

E proprio tenendo conto di ciò, mi e vi interrogo sulle prospettive del
movimento che a Genova ha dato così grande prova di sè stesso, e
contemporaneamente è stato sottoposto a così dura prova. Nel cercare di
dare un senso a quanto è successo, e una direzione al nostro agire
futuro, mi preme innanzitutto evitare che gli esiti dell'inedita
violenza manifestatasi a Genova ci facciano perdere di vista il senso e
i contenuti della nostra partecipazione, la limpidezza e chiarezza dei
nostri obiettivi, espropriandoci dei nostri valori e del percorso che ha
portato nelle strade centinaia di organizzazioni differenti e centinaia
di migliaia di persone di estrazione sociale e provenienza estremamente
diversa. E uno dei modi attraverso i quali questa perdita di senso e di
partecipazione può avvenire, è l'affermarsi all'interno del Genoa Social
Forum di una sorta di "pensiero unico" che - nella concitazione del
"giorno dopo" e dell'emergenza del "che fare" - perda di vista la
propria eterogenità, per proporre modalità, riti e parole d'ordine che
non rappresentano larghe parti della base del GSF. Mi sembra un rischio
davvero concreto, guardando agli avvenimenti di questi ultimi giorni.
Osservo l'affermarsi di slogan e modalità decisionali che  tendono ad
escludere, invece che includere, riproponendo come prospettiva
prioritaria per il movimento una strumentazione da sinistra
tradizionale, di piazza e movimentista, a mio avviso assolutamente non
in grado (come sostiene anche Pietro Ingrao, nella vostra intervista di
venerdì scorso) di cogliere e riproporre la richiesta di innovazione -
nelle forme e nei modi, oltre che negli obiettivi politici - che da
Seattle/Chiapas in poi ha costituito la vera novità politica del
panorama occidentale, e la vera minaccia ai poteri forti ed
all'abdicazione della politica istituzionale. L'enorme pressione che il
GSF (e prima di tutti Vittorio Agnoletto, cui va la mia solidarietà) ha
subito e subisce non giustifica l'evidente tentativo da parte di troppi
subcomandanti nostrani (e appunto non parlo di Agnoletto) di
egemonizzare il movimento, riducendone la complessità ed eterogenità ad
una dimensione non rappresentativa della sua base. Proprio per
salvaguardare una prospettiva politica e organizzativa in grado di
confrontarsi con la svolta autoritaria e col cambio di clima politico
che Genova ha evidenziato, è necessario mantenere al centro  del nostro
agire la ricchezza di contenuti e trasparenza di modalità (la scelta
vincolante della nonviolenza, aspetto ancora non digerito da chi ha
predicato "l'invasione della zona rossa")  che essa sola è in grado di
porsi come inclusiva verso chi a Genova non è venuto ma ha capito cosa
vi è successo, o verso chi a Genova c'era ma ora si sente disorientato e
incerto. Il disagio che cerco di esprimere "dall'interno" - e credetemi,
molto molto presente tra organizzazioni e persone - deriva dal
confrontarsi con una serie di indicazioni future che appare
improvvisata, e dal costituirsi di fatto di un "direttorio"
autoreferenziale all'interno del GSF che appunto esprime un "pensiero
unico" che guarda all'indietro invece di guardarsi attorno e avanti. Per
esempio: l'annunciato controvertice del novembre prossimo a Roma, in
occasione del meeting della Fao. Non è col semplice rilancio
d'iniziativa che rilanceremo il movimento e la sua capacità di
aggregazione e rappresentazione, bensì con la nostra capacità di
inventare forme nuove di mobilitazione capaci di confrontarsi con
l'imbuto di violenza e smarrimento che è andato in scena a Genova. O
crediamo che solo la ripetizione di ciò che è già stato possa dare
visibilità e capacità di incidenza al nostro agire? E come pensiamo di
allargare - non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente e cioè
aumentandone l'eterogeneità - la base partecipativa del GSF o di ciò che
ne prenderà il posto? Rivendico - anche in rappresentanza di
organizzazioni aderenti al GSF che finora hanno appreso dai comunicati
stampa le decisioni per il futuro - modalità decisionali partecipative,
e la presa in seria considerazione di modalità di protesta che, senza
rinunciare alla presenza in strada ed alla partecipazione delle persone,
possano dare sostanza a metodologie e manifestazioni che peschino
esplicitamente dall'abbondante - solo a volerlo guardare - patrimonio di
esperienze di forme di lotta della noviolenza praticata. Oltre il velo
di reazione e rabbia che ha mobilitato tanta attenzione e partecipazione
attorno al GSF dopo Genova, avverto tra i "reduci" anche un'interrogarsi
dubbioso che non costituisce affatto garanzia che la rete di
organizzazioni che ha costruito il GSF si presenti domani così ricca e
compatta. E' questo ciò che si vuole? Non sarebbe questa la più grande
sconfittà, oltre che sconfessione delle basi da cui il GSF è partito?
Abbiamo già una vasta esperienza del fallimento prima di tutto
culturale, e poi politico, di movimenti autoreferenziali che si avvitano
sui propri riti interni. C'è una secca contraddizione tra il rivendicare
l'ampia ed eterogena composizione del GSF e dei manifestanti di Genova,
e poi non saper rinunciare al fatto che sia una bandiera rossa (scusate
se forzo un pò) ad indicare la direzione e le forme della mobilitazione.

Ciò vale anche per il maggior simbolo che purtroppo Genova ci lascia:
Carlo Giuliani. Chiedo scusa a tutti per l'apparente freddezza di quanto
sto per dire, ma è necessario dirlo: alla tragedia vissuta da tutti in
relazione alla sua morte, non corrisponde affatto lo stesso significato
politico (sul valore umano della perdita irrimediabile e
ingiustificabile di una vita umana siamo tutti d'accordo) che le si
attribuisce. Mi permetto di dire che essa non mi rappresenta, e aggiungo
che ho la netta sensazione che siamo in tantissimi - silenziosi - a non
sentire come un valore il fatto che da Genova sia emerso un "martire",
un simbolo. Non possiamo ignorare le modalità nelle quali questo tragico
e assurdo fatto è avvenuto: una morte sbagliata in un modo sbagliato in
un contesto assurdo, di reciproca aggressione, di violenza esplicita e
voluta (e il fatto che le armi in "dotazione" ai due ragazzi fossero
diverse, non ne cambia purtroppo il significato). Questo contesto non mi
(ci) rappresenta, e sentiamo con disagio il fatto che esso assurga a
motivazione attorno cui aggregare sentimenti e partecipazione,
indirettamente legittimando quel contesto fatto di modalità che non solo
noi rifiutiamo, ma che riteniamo anche politicamente perdenti. Sono già
emersi - e tutti li abbiamo visti coi nostri occhi - sufficienti episodi
di carattere collettivo (l'aggressione violenta e ingiustificsabile al
Media center del GSF ed alla scuola di fronte, le violenze/torture nella
caserma di Bolzaneto), perfettamente in grado di rappresentare ciò che a
Genova è accaduto, il suo significato politico e soprattutto le
responsabilità delle persone e delle istituzioni. Non abbiamo affatto
bisogno di "eroi" (ricordate Brecht?), col rischio concreto - e per me
inaccettabile - di legittimarne le modalità. Mi rendo conto della
delicatezza dell'argomento, e mi scuso ancora con chiunque sia
direttamente coinvolto nella morte di Carlo: se mi permetto di dire ciò
è perché sono certo del fatto che è molto ampia la fascia di
organizzazioni e persone che la pensa pressapoco come me. E a voi lo
pongo come problema politico e culturale.

Se l'eterogeneità è un valore, e non uno slogan o una risorsa per
qualcuno, essa deve diventare il centro di un progetto politico "capace
di futuro".

Giorgio Dal Fiume
Ctm altromercato/Lilliput

2)

LA TRAPPOLA DELLA VIOLENZA

Nanni Salio e' nato a Torino, segretario dell'IPRI (Italian Peace Research
Institute), si occupa da diversi anni di ricerca, educazione e azione per la
pace.

 

Non si scherza e non si gioca con la violenza, neppure in forma verbale o
"virtuale", come sarebbe stata, secondo Luigi Manconi, quella delle tute
bianche. "Le parole sono pietre", sosteneva giustamente Carlo Levi.
La posta in gioco e' troppo alta, per entrambi gli attori sociali
(istituzioni e movimenti), per illudersi che sia possibile affrontare la
molteplicita' di conflitti scatenati dai processi di globalizzazione in
corso con vecchie formule politiche e di lotta. Occorre cambiare rotta,
modificare il nostro stile di vita sia individuale sia collettivo (il
modello di sviluppo) per renderli autenticamente equi e sostenibili. Non e'
certo un'impresa da poco! L'american way of life e il modello di sviluppo e
di economia  ad esso sotteso sono largamente condivisi da ampi settori
dell'opinione pubblica nei paesi ricchi, dalle elite in quelli poveri e,
contraddittoriamente,  dallo stile di vita reale di molti degli stessi
oppositori.
Rabbia e paura sono due degli ingredienti negativi e pericolosi che sono
stati presenti nell'animo e nelle azioni di molti di coloro che hanno dato
vita alle manifestazioni del movimento di protesta, da Seattle in poi. Ma la
rabbia, contrariamente a quanto sostengono alcuni agitatori politici, e'
segno di debolezza, impotenza, ribellismo sterile e conduce facilmente
all'insuccesso.
Gli scontri avvenuti a Genova erano abbastanza prevedibili, alimentati tra
l'altro da un processo mediatico che ha irresponsabilmente enfatizzato
proclami violenti, portando alla ribalta personaggi  che ben poco avevano da
dire su "quale mondo migliore e' possibile". Con queste premesse, la scelta
di indire una grande manifestazione, condotta secondo schemi classici e
tradizionali, e' stata alquanto infelice. A maggior ragione se si considera
la quasi totale impreparazione nell'assicurare un servizio d'ordine e di
interposizione nonviolento che isolasse le frange nichiliste (un cocktail
letteralmente esplosivo di tute nere, neonazi e provocatori della polizia).
Dopo la tragedia, le accuse reciproche di violenza rischiano di essere
sterili, addirittura ingenue e superficiali.
Non c'e' bisogno di scomodare Pasolini per condannare senza alcuna
indulgenza azioni di guerriglia urbana che hanno come obiettivi polizia e
carabinieri e che portano con grande probabilita' a risultati tragici. La
morte di Carlo Giuliani e' la doppia tragedia di due giovani quasi coetanei
provocata da un'assurda e insensata quanto stupida concezione di lotta
violenta. Ma e' bene ricordare anche l'episodio, segnalato solo da alcuni
giornali, del poliziotto che ha ringraziato pubblicamente quel gruppo di una
quindicina di giovani che lo hanno difeso da un assalto delle tute nere,
inginocchiandosi e coprendolo con i loro corpi. E' un esempio di nonviolenza
attiva, del forte, del coraggioso, che avrebbe dovuto essere praticata da
migliaia di persone per impedire le scorribande dei provocatori.
La violenza innesca una spirale perversa. L'abbiamo visto troppe volte, in
ogni latitudine e nelle situazioni piu' disparate. Certo, coloro che hanno
impartito gli ordini alla polizia, e i poliziotti che li hanno eseguiti, si
sono comportati in modo vigliacco utilizzando metodi tipici delle squadracce
fasciste. Ma che cosa c'e' di nuovo in tutto cio'? E' il mestiere antico
delle armi, degli eserciti e delle polizie di tutto il mondo, sul fronte
interno e su quello esterno. Non ci sono solo i "morti di Reggio Emilia"
giustamente ricordati da Marco d'Eramo ("Il Manifesto", 24.7.2001), ma anche
le recenti incursioni nei centri sociali (Askatasuna a Torino, Leoncavallo a
Milano) condotte con lo stesso stile di quelle di Genova. Non
dimentichiamoci mai che lo stato moderno si fonda sul monopolio della
violenza e che le peggiori atrocita' sono state commesse proprio dalle
autorita' statuali nei confronti dei propri concittadini.
La via maestra per spezzare questo circolo vizioso e' quella della
nonviolenza attiva. In questi giorni abbiamo sentito molte volte, troppe
volte, usare a sproposito questa parola che, come tante altre, rischia di
subire un degrado entropico. Non bastano i proclami generici e gli slogan, e
tanto meno gli pseudo satyagraha elettorali dei radicali.
Come ci insegna Aldo Capitini, non siamo tanto sciocchi da definirci
nonviolenti ma piuttosto "persuasi e amici della nonviolenza", consapevoli
del lungo cammino da compiere sul piano individuale, interiore, e su quello
collettivo, politico. Ma non partiamo neppure da zero. Proprio l'evento che
forse piu' di altri ha contribuito a scatenare le forze, nel bene e nel
male, dell'attuale processo di globalizzazione, la "caduta del muro di
Berlino", e' il risultato di una serie di lotte nonviolente su larga scala
che per la prima volta hanno permesso di cambiare l'assetto internazionale,
quasi senza sparare un solo colpo di fucile.
Abbiamo molto da imparare, ma anche qualcosa da insegnare. Il compito di
autentici educatori e' fondamentale per evitare di crescere nuove
generazioni di nichilisti che teorizzano il "nulla", si autodistruggono e
impediscono a tutti noi di affrontare costruttivamente e creativamente i
conflitti in una grande opera di apprendimento reciproco della nonviolenza.
Questo percorso non consiste solo nell'acquisizione di competenze tecniche
per la  trasformazione nonviolenta del conflitto, ma ha anche una grande
valenza liberatoria delle nostre soggettivita' e delle nostre potenzialita'.
E' una rivoluzione permanente condotta con il sorriso sulle labbra,
all'insegna di una vita piu' semplice esteriormente, ma piu' ricca
interiormente e sul piano relazionale. E' cio' che chiedono, a volte
inconsapevolmente, bambini e bambine, giovani e meno giovani impegnati in
una miriade di piccole esperienze alternative che gia' prefigurano una
economia e una societa' nonviolenta. Sta a noi conoscere e valorizzare
questo potenziale umano e incanalare positivamente e costruttivamente queste
aspirazioni. La nonviolenza e' la sfida del XXI secolo per liberare oppressi
e oppressori, vittime e persecutori dalle catene della violenza che li
disumanizzano entrambi.


3)

APPUNTI SU G8 E DINTORNI

Alcune considerazioni in conclusione - parziale - dell'iniziativa sui G8.

A - innanzitutto la cosa che piu' ha colpito e' la partecipazione larga,
colorata, diversa, straripante, oltre ogni piu'rosea previsione, un
movimento di massa che ha saputo con molta forza imporsi sulla scena
politica  con le sue parole d'ordine, le sue immagini positive, le sue
proposte e con un metodo sostanzialmente pluralista e non violento che non
ha pari nel nostro paese da decenni.

B - Il secondo aspetto importante e' che il movimento pur nelle sue
complesse sfaccettature ha saputo coltivare e coniugare le sue differenze
senza mai perdere di intensita', di compattezza, di forza , ha saputo
interpretare come poche volte nella storia del nostro paese un sogno di
liberta', di cambiamento

C - Il messaggio e' stato essenzialmente un messaggio pacifico ed etico,
una ribellione senza fraintendimenti allo statu quo interpretato dai paesi
dei G8 e dai loro rappresentanti

D - L'unita', la semplicita' e la pacifica determinazione di questo
movimento ha avuto anche una forza ed un impatto mediatico internazionale
positivo oltre ogni aspettativa sapendosi conquistare simpatie insperate ed
insperabili da media, istituzione e in particolar modo nell'opinione
pubblica internazionale, molto piu' che in occasione di Nizza, Praga, Davos
e dello stesso incontro di Porto Alegre.

E - Altra considerazione importante e' che per un insieme di vicende il
vertice g8 e' sostanzialmente fallito. In questo senso non poco hanno
giocato le contraddizioni interne agli stessi paesi del G8 , ma certamente
il movimento e gli accadimenti hanno di fatto invaso ogni spazio reale e
virtuale per i G8 togliendogli la parola, la visibilita', la credibilita'
internazionale con grande scorno del nostro presidente del consiglio e
delle istituzioni governative - e in larga parte anche di opposizione   (
solo tardivamente e di malavoglia accodatasi al gran fiume in piena fra
molti distinguo ).

A  queste considerazioni che in larga parte proiettano un cono di luce nel
mare - magnum della politica e della societa' italiana ed internazionale
vorrei aggiungere alcuni appunti di riflessione che gettano alcune ombre
sulla questione che comunque, lo ribadisco presenta un bilancio
politicamente positivo - positivo tout court non lo si potra' mai dire
perche' un morto e oltre settecento feriti non possono mai volgere un
qualsiasi bilancio in positivo.

A - In primo luogo c'e' stata una grande debolezza sui contenuti: se le
istanze, il comune sentire, la ribellione etica e morale al procedere
iniquo delle cose del mondo e' stata una grande forza l'articolazione delle
proposte e' stata debole, colta in senso sloganistico, poco articolata
nella massa delle persone, un dibattito fra poche centinaia di addetti ai
lavori e comunque molto opinabile. Faccio due esempi che hanno avuto
l'onore delle cronache e delle aule parlamentari: la proposta della Tobin
Tax e la problematica della "Governance" internazionale. Nel primo come nel
secondo caso le proposte sono vecchie , deboli, poco praticabili su un
piano tecnico economico e giuridico, non basta dirlo, ci vogliono proposte
e percorsi tecnici che non ci sono se non in parte e dare certe parole
d'ordine senza sapere far crescere l'articolazione pratica mette in risalto
una indubbia debolezza, limitatezza del movimento che resta fermo in una
certa ritualita' sloganistica, e che alle prese con l'attuabilita' delle
proposte rischia di frantumarsi in mille pezzi.

B - Il secondo problema che emerge e' quello del pacifismo e della non
violenza. E' indubbio che il movimento a Genova ha saputo e voluto essere
pacifico, non violento ma e' altrettanto indubbio che le ricette messe a
punto non hanno saputo difendere il movimento dai molti pericoli che ci
sono stati ( con funesti risultati ). Non credo si possa tornare indietro
rispetto alla richiesta di una metodologia non violenta e pacifica di
massa, ma bisogna riflettere sulle forme, sui metodi anche a partire da
cio' che molti sono riusciti ad inventarsi in piazza momento per momento e
abbandonare formule adatte forse a piccoli gruppi, a numeri bassi, credo
comunque sara' un grande e lungo lavoro di messa a punto e di formazione
per tutti ( a cominciare dai formatori ).

C - Quando si parla di leadership si tocca un tasto dolente, al di la degli
sforzi comuni di tenere comunque insieme la baracca questo movimento ha
avuto una leadership debole, poco carismatica piu' attenta a sgomitare, a
mettersi in mostra, a conquistarsi il palcoscenico con dichiarazioni di
guerra e di pace , con interventi ad effetto, con il gioco degli apparati e
di una democrazia di forma ma non di sostanza in cui molte decisioni son
state prese in maniera quantomeno opinabile nei modi e nei tempi, il tutto
con un'ambiguita' costante che per certi versi non lo nego e' stata anche
una forza ( ha tenuto insieme l'impensabile ) ma per altri ha prestato il
fianco a molte critiche.
In particolare si e' assistito in alcuni momenti ad un notevole
collateralismo con le forze politiche governative  ( ulivo s'intende ), ad
una diversita' di proposte e interpretazioni della violenza e della non
violenza ( fino in alcuni casi a giustificare pubblicamente l'azione dei
black block ), ad una certa ritualita' nelle proposte organizzative ( il
solito corteo bello ma rituale, poco incisivo se visto come unica modalita'
o la testimonianza "a parte" del digiuno di preghiera rispettabilissimo ma
certamente poco unitario nel suo svolgersi e rivolgersi, comunque poco in
sintonia con il movimento nelle sue componenti laiche ).
Infine l'eccessivo ecumenismo ha finito per danneggiare il movimento e
permettere il coinvolgimento di parti importanti di esso nei momenti piu'
degenerati delle manifestazioni ( il morto pesa su questa grave debolezza
del movimento)

A parte vorrei qui segnalare alcuni appunti piu' propri della mia parte .

In primo luogo ritengo che le tematiche ambientaliste pur essendo decisive
a mio giudizio per la messa a punto e la risoluzione di molti problemi
hanno trovato poco spazio nel dibattito e nella consapevolezza di massa e
questo a partire da una debolezza delle associazioni ambientaliste nel
proporsi sulla scena con la propria specificita'. Questa debolezza ha
determinato un deficit di presenza e di partecipazione dell'associazionismo
"verde" di notevole entita'. Alcune associazioni hanno visto coinvolto una
parte appena appena maggioritaria del proprio corpo militante, alcune si
sono distinte per la loro assenza pressoche' totale sulla scena e nel
dibattito in corso ( non parlo della manifestazione di sabato 21 luglio in
cui c'era una presenza anche significativa degli ambientalisti, parlo di
tutti i mesi precedenti, delle iniziative collaterali, dell'incapacita' -
non volonta' di darsi un coordinamento fra associazioni affini). Questo non
puo' non farci emergere delle domande sulla vitalita' e la direzione che le
associazioni ambientaliste hanno preso in Italia negli ultimi tempi per
riuscire ad aggiustare il tiro ed imparare dai nostri errori.
Andrea Agostini


 

4)

Forse è proprio perchè per noi qui a Genova ancora non è davvero finita che faccio fatica a lasciare andare la mia testa ad una riflessione complessiva, ancora troppo urgente è il quotidiano e difficile staccarsene.
Provo però a condividere alcuni spunti-flash, rimandando ad un momento più tranquillo una vera valutazione.

Dovessi mettere un titolo direi "A Genova Lilliput è cresciuta, molto cresciuta": questo non ha niente di trionfalistico, si cresce anche con i passaggi dolorosi o con degli errori, ma sicuramente si è usciti più maturi e consapevoli.
Abbiamo affrontato una violenza che se da parte dei black era messa in conto anche se non in queste proporzioni da parte delle forze dell'ordine era e rimane inimmaginabile e lo abbiamo fatto con quella bellissima definizione di Stefano Barale: IL CORAGGIO DEI MITI. E' perfetta, racchiude ciò che Lilliput è stata a Genova. Ha avuto coraggio il venerdì cercando di interporsi ai black a mani alzate, ha avuto coraggio e determinazione sabato quando dopo ogni carica e dispersione a piccoli gruppi è andata avanti, chiamandosi "Lilliput qui" ed è arrivata in fondo al percorso. Tanto di cappello a tutti i lillipuziani.
Certo, per buona parte del corteo in molti tra noi coglievo più la sensazione di essere ad una scampagnata che nella situazione reale in cui eravamo (ricordo i defatiganti sforzi per fare un minimo di cordone laterale), però mi sono poi accorta che questa "mitezza" aveva anche una grande determinazione. Ecco, ora si tratta di assumere entrambe queste dimensioni, coniugarle, forse essere meno disincantati di fronte ad un potere che non guarda in faccia  a nessuno e se ne frega se ha di fronte "bravi ragazzi". E forse non dobbiamo nemmeno più essere "bravi ragazzi" ma persone adulte che sanno di essere portatrici di una grande potenzialità di movimento e di cambiamento, un cambiamento così centrato che non può non sollevare ed affrontare il conflitto.
Genova è stato davvero uno spartiacque tra un prima e un dopo, in questo dopo non possiamo più pensare che l'arma vincente sia la sola elaborazione culturale-politica; questo dopo fa emergere come passi concatenati e non separabili l'elaborazione, che produce denuncia, che produce reazione, che produce conflito (che non è la stessa cosa di scontro), che deve essere affrontato e gestito fino alla risoluzione. In modo nonviolento, e per questo ci vuole preparazione, molta più preparazione di quanta siamo riuscita a produrne in due mesi e molta più di quanto i nodi hanno percepito.
Diventa in questi giorni sempre più chiaro che a Genova, e in particolare il sabato, l'obiettivo della repressione non erano i black violenti ma noi stessi in quanto manifestanti, in quanto persone che volevano esprimere una critica. E' una verità dura da digerire, dura da mandare giù perchè sappiamo che è inaccettabile in un paese democratico, ma è la realtà di una violenza che ogni volta si incrudiva perchè il gradino precedente non era stato sufficiente a smontarci. Io stessa faccio ancora fatica a mettere a fuoco tutto ciò che è successo venerdì e sabato, devo fare uno sforzo per ricordarmelo: perchè nella testa mi rimbomba più forte ciò che ho visto sabato notte alla scuola Diaz. E' stato il gradino più alto, ma non ci ha smontato nemmeno quello, i nervi hanno retto in una miracolosa colla di adrenalina e abbiamo dato la migliore risposta che potevamo: le manifestazioni di martedì in tutta Italia. Voglio sottolineare la grande importanza di quel momento, per noi a Genova vissuta con una intensità ancora maggiore, perchè si sono sciolte lì molte paure e tensioni, perchè abbiamo dimostrato di voler ancora manifestare democraticamente, vogliamo e siamo in grado di farlo in modo pacifico e nonviolento. Lo dovevamo innanzitutto a noi stessi, per tutto ciò che abbiamo subito nei giorni precedenti, ma lo dovevamo anche a questo strano paese oggi per noi molto più sconosciuto di prima ma verso cui abbiamo ancora più responsabilità.
Vedete, credo sia scontata tra noi e nel GSF l' assoluta distanza che ci separa dai black (anche se ciascuno ha modi diversi di manifestarla), ma non dobbiamo tacere (e speriamo non venga insabbiato) che a Genova è andato in frantumi il rapporto di rispetto e fiducia verso le forze dell'ordine. Questo non c'entra nulla con lo slogan "assassini" non si tratta di questo, ma di dire con forza che le istituzioni in cui vogliamo credere non possono essere rappresentate da chi ha attaccato e colpito manifestanti inermi, da chi ha massacrato persone che dormivano. Dobbiamo dirlo con la massima serenità ma non dobbiamo lasciare che la grande paura provata, la grande violenza subita si trasformino in un terribile e assurdo senso di colpa come spesso accade. Lo dico con la paura negli occhi e nel cuore, con il senso profondo della comunità in cui vivo che mi scappa e che devo riaggrappare per tenerlo stretto ai miei pensieri, lo dico anche sapendo che ciò che abbiamo visto non ce lo siamo sognato ma convinta che sta a noi ricostruire un mondo diverso anche in questo, oggi più della settimana scorsa.
Dobbiamo ricostruire un filo che ricongiunge e tiene insieme il conflitto e la paura, la convivenza civile e la verità, la rabbia e la positività: per me in una parola la nonviolenza.
Non ritengo esatto chiamare ciò che abbiamo vissuto nè una vittoria, nè una sconfitta, ma un'esperienza densa, tragica ma anche piena di contenuto, che dobbiamo mettere a frutto.

Un grande abbraccio a tutti
Chiara Malagoli