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Il testo che qui riportiamo è stato raccolto da Alessandro, uno dei partecipanti all'incontro di Imola, e si basa sugli appunti presi in quel giorno.

In seguito inseriremo anche il testo che contiene la trascrizione esatta dell'intervento di Gesualdi

 

 Francesco Gesualdi (CNMS)

  “Cambiare rotta….”  

Imola, 24 Giugno 2001.

-         Appunti per un’analisi

-         Tempo di scelte

-         Progettare l’alternativa

 Appunti per un’analisi

 La considerazione iniziale da cui partire è che oggi il mondo sta seduto sopra due bombe: una bomba ecologica e una sociale. E questo avviene in un contesto in cui la stragrande maggioranza delle persone mostra di non accorgersene, né tantomeno di preoccuparsene.

Una delle manifestazioni negative più immediate del sistema capitalistico è l’enorme divario che questo crea nella disponibilità delle risorse e nella distribuzione della ricchezza: il mondo cosiddetto “ricco”, che in termini di popolazione rappresenta il 20% dell’umanità, ha a disposizione l’86% delle risorse, mentre all’opposto esiste un 20% che può disporre solo dell’1,4% di tali risorse; in termini assoluti, la Banca Mondiale rileva che 3 miliardi di persone vivono con meno di 2$ al giorno, e tra questi almeno un miliardo vive quotidianamente con meno di 1$.

La nostra analisi deve occuparsi delle cause che hanno portato a tali squilibri; se riusciamo a cogliere almeno l’essenziale riguardo a questi meccanismi, avremo a disposizione degli strumenti per combattere questo stato di cose e per proporre delle alternative.

Intanto bisogna fare chiarezza su alcuni punti fondamentali, utili per sbaragliare diverse ingenuità ed errori di giudizio di cui oggi ci facciamo portatori. L’economia mondiale non è gestita per fare l’interesse della gente, ma persegue unicamente l’interesse del mercato, e in particolare dei mercati più forti. In generale, l’interesse della gente non coincide con l’interesse dei mercati; è vero piuttosto che tali interessi sono necessariamente e quasi costantemente in contrasto tra loro, mentre si investe moltissimo per farci credere il contrario, ovvero per ottenere una nostra generale approvazione sui metodi adottati, e una nostra generale cecità sulle perversioni prodotte. In pratica, si cerca la nostra complicità. Benché ci venga mostrato il progresso dell’economia come un processo naturale e improgrammabile, in realtà esso è frutto cosciente di decisioni prese a salvaguardia di interessi e rapporti di forza ben consolidati, e nella sua evoluzione storica è sempre stato guidato da principi e scopi ben definiti e inequivocabili.

 Per iniziare poniamoci due domande:

- quali sono gli interessi dei mercanti?

- dove si sono sviluppati i mercati?

Quali sono dunque gli interessi dei mercanti? Unicamente fare quattrini, ovvero accumulare quanta più ricchezza possibile. In termini pratici: massimizzare i guadagni, ossia creare la massima differenza tra costi e ricavi. La preoccupazione costante del mercante-capitalista è dunque quella di abbattere i costi, con qualsiasi mezzo e senza alcuno scrupolo per le conseguenze sociali e ambientali che si producono. Laddove la legislazione e i controlli sociali sono scarsi o del tutto assenti, questo si traduce, senza possibilità di scampo, in sfruttamento e schiavitù, cui vanno ad aggiungersi spreco, inquinamento e deterioramento delle risorse naturali e ambientali. L’ambiente, almeno quanto l’uomo, è vittima di questa logica di profitto in quanto economicamente non vale niente, ossia non ha un valore intrinseco di scambio economico. Le imprese non pagano per ripristinare o per evitare i danni che arrecano all’ambiente (all’aria e all’acqua in particolare); tali costi, le cosiddette esternalità, sono a carico della società che in pratica paga di tasca propria per garantire un saggio di profitto più alto alle imprese. Questo atteggiamento è trionfante perché i potenti, assieme ai mercanti che li sostengono, credono, tra l’ingenuità e la malafede, che la via maestra per soddisfare i bisogni dell’uomo sia il libero mercato con le sue non regole, e che solo il prevalere della sua logica potrà portare benessere e giustizia a tutti e dovunque.

Dove sono nati i mercati? Individuiamo le radici storiche dei mercati nell’Europa e nel Nord-america: qui la necessità di concentrare i fattori di produzione attorno ai luoghi di lavorazione e di trasformazione ha dato vita alla rete commerciale per spostare e accumulare grandi quantità di risorse produttive. Tale meccanismo commerciale si è avvalso di sistemi di controllo e di repressione sempre più subdoli e sofisticati nei vari periodi storici; dapprima il colonialismo e la deportazione delle risorse materiali e umane, le guerre commerciali e la riduzione in schiavitù dell’uomo; oggi la globalizzazione che, dietro l’intenzione generica di ridistribuire la ricchezza, di fatto accresce unilateralmente le potenzialità del sistema capitalistico di sottrarre ai paesi sottosviluppati le loro risorse. Questa politica è attuata con l’appoggio di istituzioni mondiali che agiscono attraverso mezzi finanziari e commerciali, cioè agendo rispettivamente sulla morsa del debito e sulla difesa di politiche spietate di scambio ineguale. Di fatto, il Sud si sacrifica per investire mezzi e risorse per produrre beni da regalare al Nord. In quest’ottica, si può affermare che i mezzi commerciali e finanziari hanno assunto quel ruolo di difesa degli interessi del commercio, se non di attiva repressione, che una volta poteva essere sostenuto solo attraverso l’azione militare.

 

Riprendendo il discorso, capiamo quindi come la globalizzazione altro non sia se non il tentativo di trasformare il mondo in un unico grande mercato a vantaggio dei più ricchi, dove poter attingere liberamente le risorse produttive e dove piazzare i propri prodotti, senza alcun tipo di vincolo a tutela di quanto non sia esprimibile mediante un interesse economico. In un contesto simile, è facile intuire come la mancanza di regole comporti necessariamente l’eliminazione dal mercato dei suoi protagonisti più piccoli e più deboli, e come l’attuale spinta verso la cancellazione di ogni regola vada nettamente in tale direzione. Se un tempo le imprese avevano interessi in ambito regionale o al massimo nazionale, ora tali interessi si estendono all’intero pianeta; di conseguenza, se prima si richiedeva da parte dei governi la protezione commerciale all’interno dei confini nazionali, ora tale atteggiamento si è capovolto e gli stessi confini sono percepiti come qualcosa di ostile e limitante. Per questo il sistema commerciale globale sente l’esigenza di creare riferimenti e istituzioni di carattere giuridico/economico a livello sovranazionale, per regolare, o meglio, deregolare, i rapporti commerciali. Nella pratica, si spinge per un radicale e selvaggio abbattimento di tutte quelle norme di carattere ambientale e sociale, contenute nelle legislazioni dei vari Stati, che costituiscono un ostacolo per gli interessi del commercio.

L’istituzione di riferimento per tale azione è il WTO (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale per il commercio, istituita nel 1995 e composta da membri non eletti, ovvero non sottoposti al controllo e al giudizio dei cittadini degli stati membri. Il vertice di tale istituzione è costituito dalla conferenza intergovernativa dei ministri economici ed esteri dei vari paesi membri. Il potere di questo organismo è enorme, tanto da rappresentare nei fatti una costituzione mondiale implicitamente sottoscritta dai singoli Stati attraverso l’adesione ai sempre più numerosi trattati commerciali e finanziari che essa propugna. Agendo con strumenti di ritorsione e discriminazione commerciale contro chi non recepisce i trattati adottati, il WTO ha di fatto il potere di imporre ai singoli stati la modifica della propria legislazione, laddove questa sia in conflitto con la libertà di commercio. L’azione del WTO pretende dai singoli Stati una forte revisione, ovviamente al ribasso, delle proprie norme in materia di difesa ambientale, di politiche sociali, di definizione di standard qualitativi ed etici da imporre alle merci da importare. Questo scenario è perlomeno paradossale, in quanto consente alle imprese multinazionali di dettare le regole ai Parlamenti nazionali, provocando un ribaltamento dei ruoli fin troppo palese e inquietante. È la prima volta nella storia che gli Stati sono esplicitamente costretti a rinunciare alla propria sovranità in nome del commercio. Se i Parlamenti, in quanto strumenti della democrazia, si trovano ad abdicare al proprio ruolo di progettazione, di regolamentazione e di controllo sugli eventi economici, e acconsentono alla globalizzazione finanziaria, produttiva e commerciale, si può parlare a tutti gli effetti di una dittatura del commercio, che in realtà è una dittatura di quelle multinazionali che detengono le quote più rilevanti degli scambi. In tal senso i popoli della Terra, considerati sempre più come consumatori e sempre meno come persone, avranno ognuno un proprio valore legato unicamente alla capacità che avranno di servire gli interessi delle multinazionali.

 

Tempo di scelte

 Partendo dall’analisi ora delineata, è doveroso per ognuno porsi di fronte a delle scelte decisive e pesanti, che comportano una netta presa di posizione nell’ambito dei temi esposti e che devono essere portate avanti nella vita di ognuno, anche per quel poco che a ognuno è consentito.

Perciò dovremmo chiederci:

- da che parte vogliamo stare?

- cosa è possibile fare per “cambiare rotta”?

Per quanto riguarda la prima domanda, la decisione spetta solamente alla nostra coscienza individuale, quindi non si può aggiungere molto; ma certamente, qualunque sarà la nostra scelta, ognuno di noi, se condivide nella sostanza l’analisi appena esposta, sarà perlomeno chiamato a misurarsi con la responsabilità morale dell’atteggiamento che vorrà seguire. Continuare a nascondere la testa sotto la sabbia ormai non è più pensabile; di fronte alla sproporzionata forza offensiva messa in campo dalle multinazionali è giunto il tempo di abbandonare i comportamenti ambigui e gli stili di vita conniventi con un sistema di questo tipo. Non è paranoico chi ci parla del male che esiste nel mondo; piuttosto è ingenuo o in malafede chi questo male si ostina a coprirlo o a giustificarlo.

 

Come dobbiamo dunque agire per invertire la situazione? La lotta va affrontata a due livelli diversi seppure paralleli, che richiedono a quanti vogliano impegnarvisi attitudini e capacità molto differenziate, ma pari coraggio e determinazione:

- affrontare le emergenze;

- riprogettare il sistema dalle radici.

Le principali emergenze a cui dare risposta sono sicuramente quelle di carattere sociale e ambientale: l’impoverimento e lo sfruttamento del Sud del mondo, le condizioni di miseria, non solo materiale, di gran parte della popolazione mondiale, la difficoltà di accesso alla sanità, all’istruzione e alla comunicazione; il deterioramento dell’ambiente e dell’ecosistema globale, l’esaurimento delle risorse e delle materie prime. Gli interventi in questi ambiti devono essere concepiti solo come dei tamponi d’emergenza per riparare le falle maggiori e più gravi, e dovranno essere attuati con strumenti di vario genere, il più rapidamente possibile: non è dato sapere, infatti, per quanto tempo resteranno ancora innocue le bombe sociali e ambientali sulle quali così irresponsabilmente dormiamo. Per questo dobbiamo spingere innanzitutto perché la situazione non peggiori ulteriormente; bisogna fare in modo che il WTO non venga arricchito di altri trattati commerciali che sottomettano ulteriori sfere della società al gioco esclusivo del mercato, mentre la tendenza attuale è proprio diretta alla privatizzazione e alla liberalizzazione selvaggia di quei servizi essenziali finora di prerogativa pubblica: la sanità e il controllo alimentare, l’istruzione, i trasporti, le comunicazioni e la difesa ambientale. Attraverso successivi trattati si imporranno agli apparati legislativi dei singoli Stati nazionali ulteriori passi indietro, a vantaggio delle multinazionali, in tantissimi settori decisivi quali l’agricoltura, la deforestazione, gli appalti e i lavori pubblici, i brevetti sui farmaci, le manipolazioni genetiche, gli investimenti e le speculazioni finanziarie, la fornitura e la gestione dell’energia. Ogni Stato dovrà rinunciare a intervenire autonomamente riguardo a tali decisive tematiche, che saranno quindi soggiogate alle necessità e alle esigenze di un commercio e di una finanza globalizzati. Per accorgersi delle conseguenze devastanti che tali provvedimenti potrebbero comportare nella nostra vita, si pensi al caso dei farmaci prodotti in India. Attualmente la legislazione indiana non costringe le case farmaceutiche a pagare il brevetto sui principi attivi dei farmaci che vengono importati dall’estero; ora, al fine di difendere gli affari delle multinazionali chimico-farmaceutiche, attraverso nuovi trattati del WTO si vorrebbe costringere l’India a imporre il pagamento di tali brevetti alle proprie case farmaceutiche, provvedimento questo che comporterebbe un aumento di 20 volte del costo dei farmaci; è evidente che quest’effetto ne precluderebbe l’accesso della maggior parte dei malati. Contro tali tendenze è provato che la mobilitazione internazionale può ottenere grandi risultati, poiché il profitto e il potere di ogni multinazionale sono strettamente legati all’immagine dell’azienda stessa; l’incrinarsi di questa immagine, a seguito di campagne di denuncia e di sensibilizzazione, può essere fatale per gli interessi in gioco. Se un’impresa percepisce che si sta facendo “terra bruciata” attorno ad essa, per cui sente diminuire l’appoggio da parte delle banche e delle istituzioni e sente raffreddarsi la “simpatia” dei consumatori, allora puntualmente fa marcia indietro sulle decisioni incriminate. È chiaro che per ottenere risultati significativi bisogna tenere costantemente sotto osservazione e sotto pressione le multinazionali per denunciare le loro malefatte, specie in campo sociale e ambientale; è altresì ovvio che tale atteggiamento non può essere portato avanti da singoli gruppi, ma deve divenire una preoccupazione di chiunque, così come chiunque deve impegnarsi a prendere sul serio le campagne lanciate da tutte quelle associazioni che, oltre ad avere scarsissima visibilità, sono continuamente ricoperte di discredito e di accuse di malafede da parte di chi strumentalizza a proprio vantaggio la malriposta fiducia dei cittadini.

È fondamentale inoltre rimanere ben desti e non farci ingannare da chi vuole renderci complici dei propri interessi, propinandoci la solita teoria del “libero mercato” come la bacchetta magica per risolvere ogni problema di qualsiasi tipo. Oltre a riconoscere come questa sia una teoria economica vergognosamente grezza e antiquata, e ampiamente smentita e superata dai fatti, dobbiamo avere ben chiaro che l’unica vocazione del libero mercato è di arricchire chi è già ricco; se poi qualche vantaggio può ricadere occasionalmente anche per la società, tanto meglio; ma non saranno altro che le famose “briciole” del sontuoso pranzo che altri stanno consumando. L’unico risultato sistematico della liberalizzazione selvaggia del mercato è l’incremento del divario tra ricchezza e povertà. In quest’ottica è nostro compito esercitare pressione sulle istituzioni nazionali perché cessino di farsi strumento di ingiustizia; basta pensare a quante volte i governi ci ripetono che è necessario tagliare le spese sociali (sanità, istruzione, trasporti…) oppure ci convincono che bisogna privatizzare tali servizi, mentre dall’altro gli stessi governi mostrano una continua indecisione nella lotta all’evasione fiscale, acconsentendo tacitamente alla fuga all’estero dei capitali, verso i cosiddetti paradisi fiscali, e rinunciando di fatto a consistenti entrate fiscali che andrebbero a vantaggio di tutta la società.

A livello internazionale, è necessaria una forte azione correttiva e di revisione riguardo alle politiche e agli atteggiamenti delle istituzioni mondiali, in particolare verso la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Questi organismi, che in linea di principio hanno il compito di equilibrare i meccanismi della finanza e del commercio mondiale, troppo spesso nei fatti manifestano gravi contraddizioni. È ben nota l’ambiguità e l’indecisione che mostrano sul tema dell’abolizione del debito; per di più, alcune iniziative che hanno assunto contrastano nella pratica con i principi che le hanno ispirate. Infatti, pur non schierandosi per la cancellazione completa del debito, tali istituzioni hanno mostrato apparentemente la benevola intenzione di diminuire tali debiti: il risultato di tale politica è che, se da un lato era impensabile che i Paesi poveri potessero mai pagare l’intero debito (e quindi nei fatti nessuno lo pretendeva), ora tali Paesi sono costretti a dissanguarsi per pagare quella quota ritenuta plausibilmente esigibile del debito. La conseguenza di questo è che la gran parte del PIL di tali Stati viene bruciato per far fronte a tale adempimento, con il risultato del taglio delle spese sociali, già molto scarse. Sempre a livello mondiale, bisogna spingere i governi a ritornare a discutere e a decidere nelle sedi legittime, come l’ONU; è sotto gli occhi di tutti la crisi che attraversa tale istituzione, che ha le mani legate dagli interessi contrastanti che la dominano e di fatto si trova esautorata dei propri poteri, restando relegata a un ruolo marginale e puramente formale.

Per ciò che riguarda le emergenze, possiamo perciò sintetizzare le principali linee di intervento in tre punti:

- creare ostacoli allo strapotere commerciale e finanziario delle multinazionali;

- sensibilizzare chi ancora dorme, ovvero chi non riesce o non vuole vedere le contraddizioni e le perversioni del sistema che si è creato;

- informarsi e informare in modo corretto e incontaminato, denunciando gli atti di sopruso e le ingiustizie, amplificandone la conoscenza; partecipare e diffondere le iniziative di resistenza e di boicottaggio.

  Progettare l’aternativa

 Molto più complesso è il discorso sulla riprogettazione del sistema, ed è evidente che in questo caso possiamo solo limitarci a indicare delle direttive e dei principi ispiratori. Occorre qui evidenziare chiaramente un aspetto: non si mette in discussione il mercato, né tantomeno la produzione in quanto tali; essi sono degli strumenti necessari alla sopravvivenza dell’umanità e intrinsecamente non hanno un’accezione né positiva né negativa. È il loro cattivo uso e la loro trasformazione da mezzi a fini che li rende strumenti di ingiustizia e di sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Il processo da attuarsi deve andare nella direzione di riportare l’economia e i suoi strumenti al servizio delle persone, mentre oggi avviene il contrario. È necessario trasformare il sistema economico da macchina di sfruttamento e di morte in fonte di benessere per tutta l’umanità, riconoscendo come le perversioni e le catastrofi socio-ambientali cui oggi assistiamo non sono il frutto crudele ma necessario dello sviluppo, bensì sono più semplicemente la conseguenza di politiche e atteggiamenti sbagliati ed egoisti. Questo è un punto fondamentale, poiché spesso i gruppi e i movimenti di protesta antiglobalizzazione vengono tacciati di ingenuità e di inconsistenza propositiva, e viene loro contrapposta la visione di un mondo economico magnificamente autoregolato. Siccome siamo convinti che il fantasma che regge l’economia sia molto più concreto e pericoloso della ormai ridicola ‘mano invisibile’ del filosofo Adam Smith, riteniamo sia, oltre che possibile, soprattutto doveroso criticare e rivedere il sistema economico, e quindi riprogettarlo.

Per fare questo, occorre fare chiarezza su alcuni aspetti metodologici molto generali:

- gli obiettivi;

- le condizioni;

- gli strumenti.

 La condizione fondamentale per l’attuazione di un’economia diversa è la partecipazione di tutti alle decisioni economiche, senza che nessuno se ne senta escluso, né tantomeno disinteressato. Il nostro atteggiamento di generale delega di ogni facoltà conoscitiva e decisionale agli economisti corrisponde al primo e fatale passo verso l’abdicazione dai nostri diritti di cittadini. La politica e le sue scelte sono un affare di tutti, e perciò bisogna combattere quel sentimento di impotenza e di rassegnazione che oggi dilaga e che rende l’uomo più che mai vulnerabile alle strategie del sistema. Un nuovo sistema economico e produttivo deve basarsi sul concetto di sostenibilità, sia ambientale che sociale; questo perché è indispensabile garantire alle future generazioni le risorse produttive e ambientali di cui avranno bisogno per il loro sostentamento. Bisognerà mettersi al riparo anche da quegli atteggiamenti pseudo-religiosi che nutriamo nei confronti del mercato, che spesso sconfinano nell’idolatria; il mercato così com’è non è un dogma, e pensarlo testimonierebbe la nostra stoltezza e la nostra avidità. Anche la cieca fiducia nella tecnologia rispecchia in fondo un atteggiamento religioso: credere che essa risolverà ogni problema è un assunto provvidenziale, che di fatto sostituisce squallidamente il concetto di divino anche in chi si professa ateo.

Il sistema economico fa leva su un aspetto singolare e inquietante della società occidentale: la solitudine. L’uomo si pone di fronte alla società come un individuo solo ed isolato, con pochi legami interpersonali, che sa che il mercato gli può mettere a disposizione tutto ciò di cui ha bisogno in cambio di denaro: il cibo, i beni di consumo, lo svago, i servizi base quali l’istruzione, la sanità, i trasporti… Tutto quello che gli si chiede è di produrre e di consumare; e più l’uomo si sente sovrastato da questo meccanismo, più tende ad abdicare i propri diritti e la propria capacità critica. In particolare, tenderà sempre più a percepire questo sistema come l’unico possibile e a negarne delle alternative percorribili; e anzi giungerà a difenderlo, per paura di perdere quel poco che è riuscito a strappare a proprio vantaggio.

”Gli schiavi non concepiscono una vita diversa dalla loro perché, se anche sanno di aver poco, hanno paura di perdere anche quel poco” (M.L. King, La forza di amare). Chi intende proporre alternative serie e progetti di cambiamento può trarre da questa frase un‘indicazione metodologica molto forte: nessuno deve sentirsi l’unica vittima di un cambiamento di rotta, ma il carico da sopportare dev’essere distribuito tra tutti coloro che avranno vantaggi dal cambiamento che promuovono. Solo in tal modo è possibile coinvolgere anche coloro che il buio ha reso ciechi, e che temono che ogni cambiamento possa ulteriormente danneggiarli.

Risulta di conseguenza che la via maestra per invertire la rotta passa attraverso una ritrovata solidarietà collettiva: solo tale solidarietà avrebbe la forza di rivoluzionare lo strapotere del mercato e di ricondurlo nei propri giusti limiti. Parlare oggi di collettività, o collettivismo, è molto difficile, alla luce dell’equivoco storico dell’esperienza comunista che, insieme alla malaugurata e pressoché arbitraria idea della filosofia Marxista di inserire il collettivismo nel solco dell’ateismo, non ha giovato alla causa. L’alternativa al mercato e alla globalizzazione non passa per il capitalismo di stato (modello URSS), che ha prodotto incredibili danni sociali e ambientali, e più violenze e ingiustizie di quelle che intendeva sanare. L’idea di collettivo che deve passare è quella del mantenimento in mani pubbliche di un insieme di ambiti fondamentali della vita di ognuno, che vanno pensati e gestiti in modo collettivo, attraverso i vari livelli territoriali, dal locale allo stato centrale. Questo non deve impedire al mercato di muoversi autonomamente, ma deve servire a garantire ai cittadini, e soprattutto ai più deboli, i servizi di base e soprattutto un punto di riferimento sociale, per combattere la rassegnazione e il senso di non-appartenenza alla comunità. La solidarietà ha la prerogativa di mettere assieme le persone, di renderle parte di un unico tessuto sociale in cui le ricchezze sono a disposizione di tutti e non solo di chi può arraffarle; in fondo non è altro che la concezione cristiana dei rapporti umani, che pone la giustizia davanti alla carità, laddove questa viene degradata a una banale e umiliante elemosina.

Per fare questo è necessario cominciare a porre sul tavolo dei valori diversi, dire che a noi, come uomini e non più come consumatori, non basta più la mera soddisfazione dei bisogni materiali, anche perché questo ci obbliga a vivere e a colludere con un sistema perverso e distruttivo. Bisogna imporre l’attenzione sulla qualità umana e spirituale della nostra vita, sul bisogno comune di rapporti e di scambi, e contemporaneamente di radicamento alla comunità e al territorio. Bisogna essere disposti a rinunciare a qualche ricchezza materiale in cambio di altre ricchezze; ed è necessario mostrarlo nei fatti, sperimentando e diffondendo una cultura di sobrietà e di rispetto del limite, combattendo l’opulenza e lo spreco, o per lo meno resistendo alle lusinghe di tali idoli. Esistono tantissime iniziative cui far riferimento; quelle promosse dalla Rete Lilluput sono solo un esempio. Sono importantissimi tutti i nostri atteggiamenti personali e familiari: da un lato perché nel nostro piccolo li possiamo portare avanti quotidianamente con poca fatica, e dall’altro perché valgono come testimonianza concreta che l’alternativa è non solo possibile, ma anche auspicabile. Cambiare rotta è indispensabile, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti, in prima persona.

 

 

A cura di

Alessandro Guernelli

 

Un grazie  a Silvia ed Alessandro per questo testo!!