Il testo che qui riportiamo è stato raccolto da Alessandro, uno dei partecipanti all'incontro di Imola, e si basa sugli appunti presi in quel giorno. In seguito inseriremo anche il testo che contiene la trascrizione esatta dell'intervento di Gesualdi
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Francesco Gesualdi (CNMS)
“Cambiare rotta….”
Imola, 24 Giugno 2001.-
Appunti
per un’analisi -
Tempo
di scelte -
Progettare
l’alternativa Appunti per un’analisi La considerazione iniziale da cui partire è che oggi il mondo sta
seduto sopra due bombe: una bomba ecologica e una sociale. E questo avviene in
un contesto in cui la stragrande maggioranza delle persone mostra di non
accorgersene, né tantomeno di preoccuparsene. Una delle manifestazioni negative più immediate del sistema
capitalistico è l’enorme divario che questo crea nella disponibilità delle
risorse e nella distribuzione della ricchezza: il mondo cosiddetto “ricco”,
che in termini di popolazione rappresenta il 20% dell’umanità, ha a
disposizione l’86% delle risorse, mentre all’opposto esiste un 20% che può
disporre solo dell’1,4% di tali risorse; in termini assoluti, la Banca
Mondiale rileva che 3 miliardi di persone vivono con meno di 2$ al giorno, e tra
questi almeno un miliardo vive quotidianamente con meno di 1$. La nostra analisi deve occuparsi delle cause che hanno portato a tali
squilibri; se riusciamo a cogliere almeno l’essenziale riguardo a questi
meccanismi, avremo a disposizione degli strumenti per combattere questo stato di
cose e per proporre delle alternative. Intanto bisogna fare chiarezza su alcuni punti fondamentali, utili per
sbaragliare diverse ingenuità ed errori di giudizio di cui oggi ci facciamo
portatori. L’economia mondiale non è
gestita per fare l’interesse della gente, ma persegue unicamente l’interesse
del mercato, e in particolare dei mercati più forti. In generale, l’interesse
della gente non coincide con l’interesse dei mercati; è vero piuttosto che
tali interessi sono necessariamente e quasi costantemente in contrasto tra loro,
mentre si investe moltissimo per farci credere il contrario, ovvero per ottenere
una nostra generale approvazione sui metodi adottati, e una nostra generale
cecità sulle perversioni prodotte. In pratica, si cerca la nostra complicità.
Benché ci venga mostrato il progresso dell’economia come un processo naturale
e improgrammabile, in realtà esso è frutto cosciente
di decisioni prese a salvaguardia di interessi e rapporti di forza ben
consolidati, e nella sua evoluzione storica è sempre stato guidato da principi
e scopi ben definiti e inequivocabili. Per iniziare poniamoci due domande: -
quali sono gli interessi dei mercanti? -
dove si sono sviluppati i mercati? Quali sono dunque gli interessi dei mercanti? Unicamente fare quattrini, ovvero accumulare quanta più ricchezza
possibile. In termini pratici: massimizzare i guadagni, ossia creare la
massima differenza tra costi e ricavi.
La preoccupazione costante del mercante-capitalista è dunque quella di
abbattere i costi, con qualsiasi mezzo e senza alcuno scrupolo per le
conseguenze sociali e ambientali che si producono. Laddove la legislazione e i
controlli sociali sono scarsi o del tutto assenti, questo si traduce, senza
possibilità di scampo, in sfruttamento e schiavitù, cui vanno ad aggiungersi
spreco, inquinamento e deterioramento delle risorse naturali e ambientali.
L’ambiente, almeno quanto l’uomo, è vittima di questa logica di profitto in
quanto economicamente non vale niente, ossia
non ha un valore intrinseco di scambio economico. Le imprese non pagano per
ripristinare o per evitare i danni che arrecano all’ambiente (all’aria e
all’acqua in particolare); tali costi, le cosiddette esternalità,
sono a carico della società che in pratica paga di tasca propria per garantire
un saggio di profitto più alto alle imprese. Questo atteggiamento è trionfante
perché i potenti, assieme ai mercanti che li sostengono, credono, tra
l’ingenuità e la malafede, che la via maestra per soddisfare i bisogni
dell’uomo sia il libero mercato con le sue non
regole, e che solo il prevalere della sua logica potrà portare benessere e
giustizia a tutti e dovunque. Dove sono nati i mercati? Individuiamo le radici storiche dei mercati
nell’Europa e nel Nord-america: qui la necessità di concentrare i fattori di
produzione attorno ai luoghi di lavorazione e di trasformazione ha dato vita
alla rete commerciale per spostare e accumulare grandi quantità di risorse
produttive. Tale meccanismo commerciale si è avvalso di sistemi di controllo e
di repressione sempre più subdoli e sofisticati nei vari periodi storici;
dapprima il colonialismo e la deportazione delle risorse materiali e umane, le
guerre commerciali e la riduzione in schiavitù dell’uomo; oggi la globalizzazione
che, dietro l’intenzione generica di ridistribuire la ricchezza, di fatto
accresce unilateralmente le potenzialità del sistema capitalistico di sottrarre
ai paesi sottosviluppati le loro risorse. Questa politica è attuata con
l’appoggio di istituzioni mondiali che agiscono attraverso mezzi finanziari e
commerciali, cioè agendo rispettivamente sulla morsa del debito e sulla difesa
di politiche spietate di scambio ineguale. Di fatto,
il Sud si sacrifica per investire mezzi e risorse per produrre beni da regalare
al Nord. In quest’ottica, si può affermare che i mezzi commerciali e
finanziari hanno assunto quel ruolo di difesa degli interessi del commercio, se
non di attiva repressione, che una volta poteva essere sostenuto solo attraverso
l’azione militare. Riprendendo il discorso, capiamo quindi come la globalizzazione altro
non sia se non il tentativo di trasformare il mondo in un unico grande mercato a
vantaggio dei più ricchi, dove poter attingere liberamente le risorse
produttive e dove piazzare i propri prodotti, senza alcun tipo di vincolo a
tutela di quanto non sia esprimibile mediante un interesse economico. In un
contesto simile, è facile intuire come la mancanza di regole comporti
necessariamente l’eliminazione dal mercato dei suoi protagonisti più piccoli
e più deboli, e come l’attuale spinta verso la cancellazione di ogni regola
vada nettamente in tale direzione. Se un tempo le imprese avevano interessi in
ambito regionale o al massimo nazionale, ora tali interessi si estendono
all’intero pianeta; di conseguenza, se prima si richiedeva da parte dei
governi la protezione commerciale all’interno dei confini nazionali, ora tale
atteggiamento si è capovolto e gli stessi confini sono percepiti come qualcosa
di ostile e limitante. Per questo il sistema commerciale globale sente
l’esigenza di creare riferimenti e istituzioni di carattere
giuridico/economico a livello sovranazionale, per regolare, o meglio, deregolare,
i rapporti commerciali. Nella pratica, si spinge per un radicale e selvaggio
abbattimento di tutte quelle norme di carattere ambientale e sociale, contenute
nelle legislazioni dei vari Stati, che costituiscono un ostacolo per gli
interessi del commercio. L’istituzione di riferimento per tale azione è il WTO (World Trade
Organization), l’organizzazione mondiale per il commercio, istituita nel 1995
e composta da membri non eletti,
ovvero non sottoposti al controllo e al giudizio dei cittadini degli stati
membri. Il vertice di tale istituzione è costituito dalla conferenza
intergovernativa dei ministri economici ed esteri dei vari paesi membri. Il
potere di questo organismo è enorme, tanto da rappresentare nei fatti una costituzione mondiale implicitamente sottoscritta dai singoli Stati
attraverso l’adesione ai sempre più numerosi trattati commerciali e
finanziari che essa propugna. Agendo con strumenti di ritorsione e
discriminazione commerciale contro chi non recepisce i trattati adottati, il WTO
ha di fatto il potere di imporre ai singoli stati la modifica della propria
legislazione, laddove questa sia in conflitto con la libertà di commercio.
L’azione del WTO pretende dai singoli Stati una forte revisione, ovviamente al
ribasso, delle proprie norme in materia di difesa ambientale, di politiche
sociali, di definizione di standard qualitativi ed etici da imporre alle merci
da importare. Questo scenario è perlomeno paradossale, in quanto consente alle
imprese multinazionali di dettare le regole ai Parlamenti nazionali, provocando
un ribaltamento dei ruoli fin troppo palese e inquietante. È la prima volta nella storia che gli Stati sono esplicitamente
costretti a rinunciare alla propria sovranità in nome del commercio. Se i
Parlamenti, in quanto strumenti della democrazia, si trovano ad abdicare al
proprio ruolo di progettazione, di regolamentazione e di controllo sugli eventi
economici, e acconsentono alla globalizzazione finanziaria, produttiva e
commerciale, si può parlare a tutti gli effetti di una dittatura del commercio, che in realtà è una dittatura di quelle
multinazionali che detengono le quote più rilevanti degli scambi. In tal senso
i popoli della Terra, considerati sempre più come consumatori e sempre meno
come persone, avranno ognuno un proprio valore
legato unicamente alla capacità che avranno di servire gli interessi delle
multinazionali. Tempo di scelte Partendo dall’analisi ora delineata, è doveroso per ognuno
porsi di fronte a delle scelte decisive e pesanti, che comportano una netta
presa di posizione nell’ambito dei temi esposti e che devono essere portate
avanti nella vita di ognuno, anche per quel poco che a ognuno è consentito. Perciò dovremmo chiederci: -
da che parte vogliamo stare? -
cosa è possibile fare per “cambiare rotta”? Per quanto riguarda la prima domanda, la decisione spetta solamente alla
nostra coscienza individuale, quindi non si può aggiungere molto; ma
certamente, qualunque sarà la nostra scelta, ognuno di noi, se condivide nella
sostanza l’analisi appena esposta, sarà perlomeno chiamato a misurarsi con la
responsabilità morale dell’atteggiamento che vorrà seguire. Continuare a
nascondere la testa sotto la sabbia ormai non è più pensabile; di fronte alla
sproporzionata forza offensiva messa in campo dalle multinazionali è giunto il
tempo di abbandonare i comportamenti ambigui e gli stili di vita conniventi con
un sistema di questo tipo. Non è paranoico chi ci parla del male che esiste nel
mondo; piuttosto è ingenuo o in malafede chi questo male si ostina a coprirlo o
a giustificarlo. Come dobbiamo dunque agire per invertire la situazione? La lotta va
affrontata a due livelli diversi seppure paralleli, che richiedono a quanti
vogliano impegnarvisi attitudini e capacità molto differenziate, ma pari
coraggio e determinazione: -
affrontare le emergenze; -
riprogettare il sistema dalle radici. Le principali emergenze a cui dare risposta sono sicuramente quelle di
carattere sociale e ambientale: l’impoverimento e lo sfruttamento del Sud del
mondo, le condizioni di miseria, non solo materiale, di gran parte della
popolazione mondiale, la difficoltà di accesso alla sanità, all’istruzione e
alla comunicazione; il deterioramento dell’ambiente e dell’ecosistema
globale, l’esaurimento delle risorse e delle materie prime. Gli interventi in
questi ambiti devono essere concepiti solo come dei tamponi d’emergenza per
riparare le falle maggiori e più gravi, e dovranno essere attuati con strumenti
di vario genere, il più rapidamente possibile: non è dato sapere, infatti, per
quanto tempo resteranno ancora innocue le bombe sociali e ambientali sulle quali
così irresponsabilmente dormiamo. Per questo dobbiamo spingere innanzitutto
perché la situazione non peggiori ulteriormente; bisogna fare in modo che il
WTO non venga arricchito di altri trattati commerciali che sottomettano
ulteriori sfere della società al gioco esclusivo del mercato, mentre la
tendenza attuale è proprio diretta alla privatizzazione e alla liberalizzazione
selvaggia di quei servizi essenziali finora di prerogativa pubblica: la sanità
e il controllo alimentare, l’istruzione, i trasporti, le comunicazioni e la
difesa ambientale. Attraverso successivi trattati si imporranno agli apparati
legislativi dei singoli Stati nazionali ulteriori passi indietro, a vantaggio
delle multinazionali, in tantissimi settori decisivi quali l’agricoltura, la
deforestazione, gli appalti e i lavori pubblici, i brevetti sui farmaci, le
manipolazioni genetiche, gli investimenti e le speculazioni finanziarie, la
fornitura e la gestione dell’energia. Ogni Stato dovrà rinunciare a
intervenire autonomamente riguardo a tali decisive tematiche, che saranno quindi
soggiogate alle necessità e alle esigenze di un commercio e di una finanza
globalizzati. Per accorgersi delle conseguenze devastanti che tali provvedimenti
potrebbero comportare nella nostra vita, si pensi al caso dei farmaci prodotti
in India. Attualmente la legislazione indiana non costringe le case
farmaceutiche a pagare il brevetto sui principi attivi dei farmaci che vengono
importati dall’estero; ora, al fine di difendere gli affari delle
multinazionali chimico-farmaceutiche, attraverso nuovi trattati del WTO si
vorrebbe costringere l’India a imporre il pagamento di tali brevetti alle
proprie case farmaceutiche, provvedimento questo che comporterebbe un aumento di
20 volte del costo dei farmaci; è evidente che quest’effetto ne precluderebbe
l’accesso della maggior parte dei malati. Contro tali tendenze è provato che
la mobilitazione internazionale può ottenere grandi risultati, poiché il
profitto e il potere di ogni multinazionale sono strettamente legati
all’immagine dell’azienda stessa; l’incrinarsi di questa immagine, a
seguito di campagne di denuncia e di sensibilizzazione, può essere fatale per
gli interessi in gioco. Se un’impresa percepisce che si sta facendo “terra
bruciata” attorno ad essa, per cui sente diminuire l’appoggio da parte delle
banche e delle istituzioni e sente raffreddarsi la “simpatia” dei
consumatori, allora puntualmente fa marcia indietro sulle decisioni incriminate.
È chiaro che per ottenere risultati significativi bisogna tenere costantemente
sotto osservazione e sotto pressione le multinazionali per denunciare le loro
malefatte, specie in campo sociale e ambientale; è altresì ovvio che tale
atteggiamento non può essere portato avanti da singoli gruppi, ma deve divenire
una preoccupazione di chiunque, così come chiunque deve impegnarsi a prendere
sul serio le campagne lanciate da tutte quelle associazioni che, oltre ad avere
scarsissima visibilità, sono continuamente ricoperte di discredito e di accuse
di malafede da parte di chi strumentalizza a proprio vantaggio la malriposta
fiducia dei cittadini. È fondamentale inoltre rimanere ben desti e non farci ingannare da chi
vuole renderci complici dei propri interessi, propinandoci la solita teoria del
“libero mercato” come la bacchetta magica per risolvere ogni problema di
qualsiasi tipo. Oltre a riconoscere come questa sia una teoria economica
vergognosamente grezza e antiquata, e ampiamente smentita e superata dai fatti,
dobbiamo avere ben chiaro che l’unica
vocazione del libero mercato è di arricchire chi è già ricco; se poi
qualche vantaggio può ricadere occasionalmente anche per la società, tanto
meglio; ma non saranno altro che le famose “briciole” del sontuoso pranzo
che altri stanno consumando. L’unico
risultato sistematico della liberalizzazione selvaggia del mercato è
l’incremento del divario tra ricchezza e povertà. In quest’ottica è
nostro compito esercitare pressione sulle istituzioni nazionali perché cessino
di farsi strumento di ingiustizia; basta pensare a quante volte i governi ci
ripetono che è necessario tagliare le spese sociali (sanità, istruzione,
trasporti…) oppure ci convincono che bisogna privatizzare tali servizi, mentre
dall’altro gli stessi governi mostrano una continua indecisione nella lotta
all’evasione fiscale, acconsentendo tacitamente alla fuga all’estero dei
capitali, verso i cosiddetti paradisi
fiscali, e rinunciando di fatto a consistenti entrate fiscali che andrebbero
a vantaggio di tutta la società. A livello internazionale, è necessaria una forte azione correttiva e di
revisione riguardo alle politiche e agli atteggiamenti delle istituzioni
mondiali, in particolare verso la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario
Internazionale (FMI). Questi organismi, che in linea di principio hanno il
compito di equilibrare i meccanismi della finanza e del commercio mondiale,
troppo spesso nei fatti manifestano gravi contraddizioni. È ben nota
l’ambiguità e l’indecisione che mostrano sul tema dell’abolizione del
debito; per di più, alcune iniziative che hanno assunto contrastano nella
pratica con i principi che le hanno ispirate. Infatti, pur non schierandosi per
la cancellazione completa del debito, tali istituzioni hanno mostrato
apparentemente la benevola intenzione di diminuire tali debiti: il risultato di
tale politica è che, se da un lato era impensabile che i Paesi poveri potessero
mai pagare l’intero debito (e quindi nei
fatti nessuno lo pretendeva), ora tali Paesi sono costretti a dissanguarsi
per pagare quella quota ritenuta plausibilmente
esigibile del debito. La conseguenza di questo è che la gran parte del PIL
di tali Stati viene bruciato per far fronte a tale adempimento, con il risultato
del taglio delle spese sociali, già molto scarse. Sempre a livello mondiale,
bisogna spingere i governi a ritornare a discutere e a decidere nelle sedi
legittime, come l’ONU; è sotto gli occhi di tutti la crisi che attraversa
tale istituzione, che ha le mani legate dagli interessi contrastanti che la
dominano e di fatto si trova esautorata dei propri poteri, restando relegata a
un ruolo marginale e puramente formale. Per ciò che riguarda le emergenze, possiamo perciò sintetizzare le
principali linee di intervento in tre punti: -
creare ostacoli allo strapotere commerciale e finanziario delle multinazionali; -
sensibilizzare chi ancora dorme, ovvero chi non riesce o non vuole vedere le
contraddizioni e le perversioni del sistema che si è creato; -
informarsi e informare in modo corretto e incontaminato, denunciando gli atti di
sopruso e le ingiustizie, amplificandone la conoscenza; partecipare e diffondere
le iniziative di resistenza e di boicottaggio. Progettare l’aternativa Molto più complesso è il discorso sulla riprogettazione del
sistema, ed è evidente che in questo caso possiamo solo limitarci a indicare
delle direttive e dei principi ispiratori. Occorre qui evidenziare chiaramente
un aspetto: non si mette in discussione il
mercato, né tantomeno la produzione in quanto tali; essi sono degli strumenti
necessari alla sopravvivenza dell’umanità e intrinsecamente non hanno
un’accezione né positiva né negativa. È il loro cattivo uso e la loro
trasformazione da mezzi a fini che li rende strumenti di ingiustizia e di
sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Il processo da attuarsi deve andare nella
direzione di riportare l’economia e i suoi strumenti al servizio delle
persone, mentre oggi avviene il contrario. È necessario trasformare il sistema
economico da macchina di sfruttamento e di morte in fonte di benessere per tutta
l’umanità, riconoscendo come le
perversioni e le catastrofi socio-ambientali cui oggi assistiamo non sono il
frutto crudele ma necessario dello sviluppo, bensì sono più semplicemente la
conseguenza di politiche e atteggiamenti sbagliati ed egoisti. Questo è un
punto fondamentale, poiché spesso i gruppi e i movimenti di protesta
antiglobalizzazione vengono tacciati di ingenuità e di inconsistenza
propositiva, e viene loro contrapposta la visione di un mondo economico
magnificamente autoregolato. Siccome siamo convinti che il fantasma che regge l’economia sia molto più concreto e pericoloso
della ormai ridicola ‘mano invisibile’ del filosofo
Adam Smith, riteniamo sia, oltre che possibile, soprattutto doveroso
criticare e rivedere il sistema economico, e quindi riprogettarlo. Per fare questo, occorre fare chiarezza su alcuni aspetti metodologici
molto generali: -
gli obiettivi; -
le condizioni; -
gli strumenti. La condizione fondamentale per l’attuazione di un’economia
diversa è la partecipazione di tutti alle decisioni economiche, senza che
nessuno se ne senta escluso, né tantomeno disinteressato. Il nostro
atteggiamento di generale delega di ogni facoltà conoscitiva e decisionale agli
economisti corrisponde al primo e fatale passo verso l’abdicazione dai nostri
diritti di cittadini. La politica e le sue scelte sono un affare di tutti, e
perciò bisogna combattere quel sentimento di impotenza e di rassegnazione che
oggi dilaga e che rende l’uomo più che mai vulnerabile alle strategie del
sistema. Un nuovo sistema economico e produttivo deve basarsi sul concetto di sostenibilità, sia ambientale che sociale; questo perché è
indispensabile garantire alle future generazioni le risorse produttive e
ambientali di cui avranno bisogno per il loro sostentamento. Bisognerà mettersi
al riparo anche da quegli atteggiamenti pseudo-religiosi che nutriamo nei
confronti del mercato, che spesso sconfinano nell’idolatria; il mercato così com’è non è un dogma, e pensarlo
testimonierebbe la nostra stoltezza e la nostra avidità. Anche la cieca fiducia
nella tecnologia rispecchia in fondo un atteggiamento religioso: credere che
essa risolverà ogni problema è un assunto provvidenziale, che di fatto
sostituisce squallidamente il concetto di divino anche in chi si professa ateo. Il sistema economico fa leva su un aspetto singolare e inquietante della
società occidentale: la solitudine. L’uomo si pone di fronte alla società
come un individuo solo ed isolato, con pochi legami interpersonali, che sa che
il mercato gli può mettere a disposizione tutto ciò di cui ha bisogno in
cambio di denaro: il cibo, i beni di consumo, lo svago, i servizi base quali
l’istruzione, la sanità, i trasporti… Tutto quello che gli si chiede è di
produrre e di consumare; e più l’uomo si sente sovrastato da questo
meccanismo, più tende ad abdicare i propri diritti e la propria capacità
critica. In particolare, tenderà sempre più a percepire questo sistema come
l’unico possibile e a negarne delle alternative percorribili; e anzi giungerà
a difenderlo, per paura di perdere quel poco che è riuscito a strappare a
proprio vantaggio. ”Gli
schiavi non concepiscono una vita diversa dalla loro perché, se anche sanno di
aver poco, hanno paura di perdere anche quel poco” (M.L. King, La
forza di amare). Chi intende proporre alternative serie e progetti di
cambiamento può trarre da questa frase un‘indicazione metodologica molto
forte: nessuno deve sentirsi l’unica
vittima di un cambiamento di rotta, ma il carico da sopportare dev’essere
distribuito tra tutti coloro che avranno vantaggi dal cambiamento che
promuovono. Solo in tal modo è possibile coinvolgere anche coloro che il buio ha reso ciechi, e che temono che ogni cambiamento possa
ulteriormente danneggiarli. Risulta di conseguenza che la via maestra per invertire la rotta passa
attraverso una ritrovata solidarietà
collettiva: solo tale solidarietà avrebbe la forza di rivoluzionare lo
strapotere del mercato e di ricondurlo nei propri giusti limiti. Parlare oggi di
collettività, o collettivismo, è molto difficile, alla luce dell’equivoco
storico dell’esperienza comunista che, insieme alla malaugurata e pressoché
arbitraria idea della filosofia
Marxista di inserire il collettivismo nel solco dell’ateismo, non ha giovato
alla causa. L’alternativa al mercato e alla globalizzazione non passa per il
capitalismo di stato (modello URSS), che ha prodotto incredibili danni sociali e
ambientali, e più violenze e ingiustizie di quelle che intendeva sanare.
L’idea di collettivo che deve passare è quella del mantenimento in mani
pubbliche di un insieme di ambiti fondamentali della vita di ognuno, che vanno
pensati e gestiti in modo collettivo, attraverso i vari livelli territoriali,
dal locale allo stato centrale. Questo non deve impedire al mercato di muoversi
autonomamente, ma deve servire a garantire ai cittadini, e soprattutto ai più
deboli, i servizi di base e soprattutto un punto di riferimento sociale, per
combattere la rassegnazione e il senso di non-appartenenza alla comunità. La
solidarietà ha la prerogativa di mettere assieme le persone, di renderle parte
di un unico tessuto sociale in cui le ricchezze sono a disposizione di tutti e
non solo di chi può arraffarle; in fondo non è altro che la concezione cristiana
dei rapporti umani, che pone la giustizia davanti alla carità, laddove questa
viene degradata a una banale e umiliante elemosina. Per fare questo è necessario cominciare a porre sul tavolo dei valori
diversi, dire che a noi, come uomini e non più come consumatori, non basta
più la mera soddisfazione dei bisogni materiali, anche perché questo ci
obbliga a vivere e a colludere con un sistema perverso e distruttivo. Bisogna
imporre l’attenzione sulla qualità umana e spirituale della nostra vita, sul
bisogno comune di rapporti e di scambi, e contemporaneamente di radicamento alla
comunità e al territorio. Bisogna essere disposti a rinunciare a qualche
ricchezza materiale in cambio di altre ricchezze; ed è necessario mostrarlo nei
fatti, sperimentando e diffondendo una cultura
di sobrietà e di rispetto del limite, combattendo l’opulenza e lo spreco,
o per lo meno resistendo alle lusinghe di tali idoli. Esistono tantissime
iniziative cui far riferimento; quelle promosse dalla Rete
Lilluput sono solo un esempio. Sono importantissimi tutti i nostri
atteggiamenti personali e familiari: da un lato perché nel nostro piccolo li
possiamo portare avanti quotidianamente con poca fatica, e dall’altro perché
valgono come testimonianza concreta che l’alternativa è non solo possibile,
ma anche auspicabile. Cambiare rotta è indispensabile, ed è una responsabilità
che ci riguarda tutti, in prima persona. A
cura di Alessandro
Guernelli
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Un grazie a Silvia ed Alessandro per questo testo!! |