La Rete di Lilliput Lazio ha organizzato un incontro all'Università La Sapienza di Roma per parlare del problema del debito dei paesi del terzo mondo.

Inseriamo qui di seguito l'intervento dell' economista Alberto Castagnola che ci parla del modello economico dominante i sui punti di forza ma anche le sue crepe delineando inoltre alcune considerazioni sul modello alternativo mettendo in evidenza innanzittutto che:

"Le fasce più sensibili della società civile hanno ormai l’obbligo di denunciare con forza i meccanismi più dannosi in atto, di indicare senza esitazioni le modifiche più urgenti da apportare al sistema; di elaborare e cercare di imporre alternative tecnologiche e produttive, di delineare modelli alternativi di convivenza e di consumo."

Pensieri e azioni per un anno

(Spunti per il dibattito)

(di Alberto Castagnola)

  1. Caratteristiche del modello dominante

a). Può espandersi nei prossimi 10-15 anni senza particolari difficoltà di natura produttiva e tecnologica. E’ il tempo necessario al sistema globale dell’informazione e della comunicazione per integrare settori oggi ancora separati e distinguibili secondo il vecchio schema in via di superamento, in un unico sistema a dimensione planetaria.

La pluralità di fusioni e ristrutturazioni in corso tra imprese di telecomunicazioni, telefoniche, radio-televisive, elettroniche e telematiche, editoriali, dei divertimenti, ecc. fa ancora solo intravedere la struttura finale e richiederà anche un periodo di assestamento. Anche l’evoluzione tecnologica fa intravedere continuamente nuove potenzialità, dai film digitali ai telefoni collegati da satelliti, dalle nuove "basi" per i computer ai modelli in parallelo e superveloci, mentre siamo solo agli inizi degli usi commerciali e finanziari di Internet.

Evoluzioni di analoga portata sono prevedibili per le biotecnologie, finora applicate solo ad alcune specie di piante e di animali, e che vengono "spinte" per ottenere subito dei risultati economici, mentre le sperimentazioni su campi vegetali e animali più ampi e sui reali rischi ecologici sono ancora poco finanziate. I danni e i rischi ambientali sono in larga misura riconducibili alla forsennata e imprudente ricerca di applicazioni ad alto profitto immediato, mentre non si riesce a far prevalere una visione più matura di un campo scientifico con notevoli potenzialità.

Al momento, sembra perfino chela "vecchia" spinta esercitata sull’economia da ricerca e produzione bellica, che si poteva sperare essere in fase di ridimensionamento dalla fine degli anni ’80, possa trarre nuovo vigore dalle nuove funzioni attribuite alla NATO senza trovare ostacoli rilevanti.

b).I paesi avanzati (i 19 dell’OCSE più le zone industrializzate dalle transnazionali nel Sud del mondo) mostrano da oltre dieci anni una scarsissima capacità di creare nuovi posti di lavoro e presentano una disoccupazione ormai considerata strutturale, cioè che non varia di molto a seconda delle fasi delle economie.

Si potrebbe addirittura ipotizzare che si sia interrotto uno dei meccanismi che ha caratterizzato storicamente il sistema capitalistico, per il quale ad ogni innovazione corrispondeva una riduzione di occupazione nelle attività superate, ma si registrava un aumento di posti di lavoro nelle imprese che introducevano l’innovazione e soprattutto nei nuovi campi di attività che emergevano per gli stimoli indotti dal salto tecnologico.

Negli ultimi anni sembra che l’occupazione stia diminuendo proprio nelle imprese che controllano l’innovazione mentre i prodotti sono in gran parte a bassa intensità di lavoro diretto e a scarsa capacità di induzione di nuovi posti di lavoro in altri settori.

A scala internazionale questo fattore sembra aver limitato la già scarsa capacità del Sud di fare fronte alle nuove leve di forza lavoro derivanti dalla esplosione demografica in corso e le previsioni di fabbisogni occupazionali sono ormai fortemente divaricate perfino rispetto alle previsioni più ottimistiche sull’espansione dei capitali multinazionali.

c).L’espansione delle attività finanziarie continua senza incontrare ostacoli, poiché i fallimenti di banche e fondi, pur rivelatori del reale funzionamento dei meccanismi finanziari e monetari, sono stati di fatto considerati degli incidenti di percorso (largamente nella media delle perdite normali del sistema capitalistico) e i ravvedimenti di alcuni guru del settore non hanno finora determinato alcuna modifica nei modi di funzionamento e soprattutto nei tassi di espansione dell’altra metà dell’economia.

Ciò che più preoccupa è comunque il crescente ritardo con il quale dovrebbe emergere una consapevolezza diffusa sul cambiamento delle proporzioni tra economia reale ed economia finanziaria. E’ evidente ormai che più della metà dei profitti viene accumulata in attività diverse da quelle tradizionali del produrre e del commerciare, e che quote rapidamente crescenti delle risorse disponibili in ogni momento viene drenata a favore delle attività finanziarie.

Esse non sono quindi "solo di carta" o "puramente virtuali" come si cerca di far credere, e non possono essere considerate solo "speculative" in senso dispregiativo o legate ai riciclaggi dei proventi di attività illegali (che pure esistono e andrebbero combattute), ma sono ormai funzionali al modello dominante e come tali andrebbero finalmente regolamentate, anche se ancora non vi è traccia di spinte in questo senso nelle autorità preposte.

d).Il dibattito sulla parola "globalizzazione" ha permesso di approfondire contenuti reali e portata mistificatoria dei fenomeni in espansione su scala mondiale. Pochi però hanno percepito fino in fondo l’esistenza di profonde divaricazioni tra Nord e Sud del mondo e all’interno dello stesso Sud, molto maggiori di quelle combattute negli ultimi 50 anni di politiche di cosiddetto sviluppo e probabilmente non più eliminabili in prospettive temporali accettabili e senza modifiche radicali degli strumenti di intervento.

La povertà estrema (meno di un quarto di dollaro a testa al giorno), che meglio sarebbe definire "esclusione" per sottolineare la pratica impossibilità, con le politiche attuali, di affrontare il problema dell’inserimento in una qualche evoluzione verso livelli più umani di sopravvivenza, era già una realtà, secondo la Banca Mondiale prima del 1990. E sono passati altri dieci anni in una indifferenza a scala mondiale.

Il modello dominante, peraltro, sembra poter sopportare queste divaricazioni senza danni al sistema produttivo, conservando i processi di sfruttamento delle materie prime, imponendo investimenti stranieri ad alto sfruttamento della manodopera ma ben accolti perché considerati gli unici possibili, mantenendo bassi i livelli di accoglimento degli immigrati espulsi dalla fame e dalla mancanza di prospettive, cancellando dai sistemi informativi o trattando come episodi di cronaca le situazioni umane più drammatiche o gli eventi bellici e naturali di maggiore spettacolarità.

e) Anche sul piano delle preoccupazioni ambientali il modello sembra essersi tranquillizzato su un trattamento "normalizzato" delle notizie, dopo gli sforzi, rivelatisi in gran parte solo formali, di affrontare i problemi più urgenti. Dall’ottica del singolo individuo si possono indicare tre fasce di problemi, tutti già gravemente dannosi, ma percepiti attraverso il filtro dei mezzi di comunicazione di massa in modo articolato anche se con analogo senso di impotenza ai fini della loro modifica.

Lontani nei cieli e nei tempi sono considerati fenomeni come i danni alla fascia dell’ozono e l’effetto serra, (e la sparizione di isole e la nube di smog sull’India sono catalogati tra le notizie montate ad arte dai giornali dei periodi estivi). Anche le drammatiche previsioni sulle disponibilità di acqua sono ancora considerate tra i problemi del centro dell’Africa e non un’emergenza internazionale.

Un secondo gruppo di fenomeni, come l’inquinamento urbano e quello del mare e dei fiumi, è collocato (insieme agli incidenti di auto, agli omicidi bianchi e agli impianti chimici e industriali inquinanti), tra le conseguenze inevitabili di comodità ormai irrinunciabili.

Un terzo gruppo di danni ambientali, ancora poco conosciuto a livello delle persone e delle famiglie, riguarda i residui di pesticidi nei cibi, i rischi delle produzioni alimentari su scala industriale (quindi non solo la diossina belga), i prodotti transgenici ormai giunti al consumo. I meccanismi dell’assuefazione, potenziati dai sistemi di vendita, e quelli della passiva subordinazione ad una unica alternativa, ossessivamente riproposti dalla pubblicità, sembrano ancora non presentare incrinature.

Altri terribili meccanismi, come la deforestazione, la rapida perdita dei combustibili non rinnovabili, la scarsità di terreni coltivabili, la veloce riduzione della varietà genetica, la diffusione di organismi ormai resistenti ai più temibili prodotti chimici, appaiono lontani dalla percezione: catene biologiche fondamentali si interrompono o scompaiano senza che l’uomo con tutte le sue scienze abbia gli strumenti per rendersene conto.

f).La forma Stato sopravvive con poteri e contenuti sempre più ridotti e sembra che la sua esistenza sia accuratamente calibrata sulle esigenze prettamente economiche delle grandi transnazionali e delle entità finanziarie, affinché garantisca tutele minime per le persone e massime per le imprese.

Nei paesi sottosviluppati sembra sia stata saltata la grande espansione degli stati dell’800 e si oscilli con rapide oscillazioni tra pseudo democrazie e governi militari o dittatoriali, mentre si comincia a dubitare della applicabilità dei valori e delle norme di tipo democratico in larga parte del mondo ormai da tempo uscito dal colonialismo politico (ma spesso ancora non da quello economico). D’altra parte, non ferve certo il dibattito su forme alternative di Stato che potrebbero dimostrarsi più adeguate, mentre i tentativi di creazione di un governo sovranazionale si sta dimostrando molto più lento e difficile di quanto sperato nel secondo dopoguerra.

Il modello dominante, quindi, sembra aver bisogno solo di Stati deboli e poco rappresentativi, in grado di sopravvivere con una base economica molto più ridotta che in passato e con politiche economiche fortemente condizionate dall’evolversi dei meccanismi globali.

Sarebbe importante valutare quanta parte del sistema economico un tempo nazionale è rimasto sotto il controllo degli Stati, anche quelli apparentemente più potenti, dopo che le attività transnazionali e finanziarie si sono sottratte ai controlli storicamente esercitati dai poteri nazionali, mentre meccanismi come quelli della fissazione del prezzo delle materie prime o del progressivo indebitamento con l’estero non hanno di fatto mai permesso agli Stati di nuova costituzione nemmeno di assumere poteri reali.

g).Il funzionamento del modello, poi, sembra richiedere ben delimitate o addirittura inesistenti, forme di partecipazione da parte delle popolazioni. Non si parla qui soltanto della ormai strutturalmente scarsa partecipazione alle elezioni nei più "democratici" paesi dell’Occidente, ma della emarginazione dalle forme di governo più elementari di numerose minoranze etniche (spesso numericamente maggioritarie), di intere componenti di religione diversa, degli abitanti di aree di fatto escluse da meccanismi di rappresentanza significativi.

E tutto ciò convive con l’apparato apparentemente decisionale dell’ONU e delle istituzioni finanziarie istituzionali, dove partecipano Stati vuoti di poteri e solo formalmente rappresentativi. Se non la piena coscienza, almeno la sensazione di questo scollamento è presente in molta parte dell’umanità e spiega una quota non irrilevante della passiva sottomissione ai meccanismi economici.

h).Senza che questo richiamo appaia rituale, non si possono dimenticare le esclusioni dalla partecipazione di numerose categorie sociali, delle donne in particolare, che sono le prime vittime delle condizioni di sottosviluppo e di povertà estrema, mentre danno spesso la prova che potrebbero costituire una componente fortemente innovativa dell’organizzazione sociale nelle situazioni più diverse.

Il modello dominante non sembra avere molto bisogno di esse, anzi tende ad escludere o svilisce la loro funzione riproduttiva (chi ha più bisogno di giovani lavoratori?), usa solo come manodopera schiava i suoi figli in eccesso, privilegia riproduzioni in provetta e forme sempre più scientifiche di controllo delle nascite. Per non parlare della scarsa partecipazione a forme emergenti di attività formativa e di ricerca scientifica, se si tengono presenti le cifre e non gli articoli ad effetto dei giornali patinati "per donne".

Eppure una lettura del modello dominante nei danni esercitati specificamente sulle donne non viene spesso richiamata, forse anche perché disponibile solo in spezzoni poco conosciuti.

2 Punti di crisi e di debolezza del sistema dominante.

Dopo aver cercato di descrivere un quadro non certo colmo di speranza, è ora opportuno fare il tentativo inverso, cioè quello di individuare le contraddizioni , i punti di rottura o di crisi, i momenti di debolezza del sistema dominante, non per introdurre elementi di speranza in una sua caduta o mutamento o diverso orientamento, magari a tempi brevi, ma solo per trarne indicazioni per azioni di opposizione o di resistenza e per evidenziare ipotesi di strategia e di alternativa.

1).finora il modello è stato applicato al massimo delle sue potenzialità, cioè senza badare agli effetti collaterali sulle persone, sulle società, sull’ambiente. Spinto e tirato dalle multinazionali, l’aumento della concentrazione delle risorse nella fascia globalizzata (più di un terzo delle attività economiche, tutte quelle finanziarie, ecc.) ha progredito senza ostacoli, anzi con la partecipazione e la collaborazione anche di alcune "vittime", in particolare Stati.

Il M.A.I. e ora anche il 2B2M del PNUD, possono essere letti come i più recenti tentativi di garantirsi questa libertà assoluta di manovra. Ne seguiranno degli altri, e ciò non significa che l’espansione ha raggiunto i suoi limiti, ma soltanto che le ulteriori concentrazioni di risorse toccheranno beni essenziali e sfere di potere finora lasciati sopravvivere e funzionare in quanto utili per ridurre i costi delle imprese e per garantire il drenaggio delle risorse dall’economia reale.

Si dovrebbero quindi aprire delle aree di duro conflitto, non in grado di bloccare o ritardare l’applicazione del modello, ma forse di far emergere delle difficoltà al suo interno.

2).Rispetto ai problemi occupazionali del Nord, il modello dominante è riuscito finora a far credere che si è ancora di fronte al classico alternarsi di crisi e riprese delle economie nazionali con relative espulsioni e rientri di lavoratori da strutture produttive ancora sostanzialmente nazionali. Dibattiti e conflitti tra governi, partiti e sindacati sono ancora tutti interni a questa logica e con ogni probabilità vi resteranno per molti altri anni.

Le contrapposizioni sono su misure del tutto tradizionali (delle quali si discute opportunità, dimensioni, durata, ecc.) senza mai chiedersi se, pur applicate con il massimo di efficacia, sarebbero i grado di riavviare i processi di creazione di nuovi posti di lavoro stabili in misura adeguata almeno alle popolazioni del Nord. E tutto il dibattito (come previsto dal modello) si svolge con popolazioni di fatto non in aumento, e quindi con nuove leve di lavoratori di dimensioni contenute.

Una improvvisa constatazione della reale natura della attuale disoccupazione e una presa di coscienza dei rapporti esistenti con la drammatica offerta di lavoro del Sud (non rappresentata solo dai flussi di emigrati e rifugiati, ancora molto ridotti malgrado la drammaticità della situazione di molti di essi) costituisce ormai un rischio reale per il modello, cosa di cui a livello di Unione Europea e di OCSE si è piuttosto avvertiti.

3) Esistono fondati sospetti che nei prossimi anni il modello dominante avrà bisogno di un numero di consumatori non particolarmente elevato. Finora tutte le analisi, sia quelle a livello di governi , partiti e sindacati e perfino di qualche sinistra estrema si sono mosse all’interno di uno schema che prevedeva il progressivo ampliamento del numero dei consumatori man mano che i prodotti diventavano più accessibili e i redditi aumentavano anche nelle classi più basse seppure in proporzione.

Oggi potrebbe sembrare che un numero crescente di prodotti, tutti incorporanti tecnologie ad altissimo livello, restino riservati, per i loro elevatissimi costi, ad una fascia numericamente contenuta di utilizzatori, in grado però di esprimere una spesa complessiva molto ampia. Il fenomeno della frenetica diffusione dei telefonini (verificatosi peraltro non in tutti i paesi industrializzati nella stessa misura) potrebbe cioè costituire l’ultimo esempio dei meccanismi tradizionali del sistema, e quella che W.Sachs definisce la "Classe media globale" (coloro che dispongono di un auto, di un conto in banca e di un computer) potrebbe veramente non superare più l’8% del totale mondiale.

Il numero dei consumatori di prodotti molto avanzati verrebbero quindi a costituire una isola felice, e a stimolare forti tensioni nel resto della popolazione (non solo dei poveri) di fatto esclusa dal mercato a più forte dinamica. L’ipotesi è ancora alla fase di sensazione, però sarebbe interessante fare qualche verifica empirica, ad esempio per comprendere quali dimensioni ha la fascia di consumatori che già oggi interessa le grandi multinazionali, quanta tecnologia è presente nei consumi di massa, ecc.

4).A livello internazionale, a partire dal 1990, è evidente la perdita di fede nel complesso di strategie e politiche di sviluppo finora adottate, ma nulla è stato finora fatto per innovare in profondità le proposte da presentare ai paesi sottosviluppati. Di conseguenza, hanno ripreso forza gli interventi di tipo militare, tra i quali emergono quelli che si è dato di recente la NATO, anche se esperienze come quelle del Libano, della Somalia, dell’Iraq, della Sierra Leone, dell’Angola avrebbero dovuto quanto meno far riflettere sulla scarsissima utilità degli interventi solo militari in situazioni di sottosviluppo estremo.

Anche la difesa ad oltranza del meccanismo dell’indebitamento con l’estero dei paesi del Sud (oltre al suo ruolo di estrazione di risorse dai paesi del sottosviluppo e soprattutto di controllo dei governi e delle politiche economiche di tutto il Sud) sembra nascondere una sostanziale incapacità di fare scelte qualitativamente diverse e di cominciare ad elaborare un modello solo per il Sud più adeguato e più ecologicamente ed umanamente sostenibile.

Dopo oltre 50 anni di tentativi di "sviluppo", forse si dovrebbe avere il coraggio di ammettere almeno i più grandi limiti dell’azione intrapresa e soprattutto di riconoscere che il modello Nord non è più estendibile al Sud, non fosse altro perché richiederebbe risorse energetiche e naturali che non esistono sul pianeta. Nelle sedi internazionali il fatto di essere giunti al capolinea è quasi palpabile (le assurde scelte del PNUD nei confronti delle multinazionali rivelano un organismo che non è più in grado di elaborare proprie scelte alternative pur avendo in mano tutti i dati se non anche le risorse economiche che sarebbero necessarie) e forse una incrinatura del modello potrebbe emergere proprio all’interno dell’apparato internazionale, (anche se ovviamente in base alle loro modalità e procedure). Le sedi più promettenti in questo senso potrebbero essere l’ILO, l’UNCTAD, l’UNICEF, l’IFAD e forse lo stesso PNUD.

5).Nei confronti dell’ambiente il distacco tra il modello dominante e la realtà dei danni è cosi forte che quasi ogni fattore di quelli sopra indicati potrebbe diventare la causa scatenante di una diversa presa di coscienza. Non possiamo augurarci che un disastro globale costringa finalmente a mutare in modo radicale le politiche, però una analisi "fredda" degli ultimi anni induce a pensare che sia statisticamente più probabile un percorso di questo tipo.

Solo fenomeni umanamente molto costosi, localizzati nel Nord, che non si prestino ad interpretazioni equivoche e che siano quasi irreparabili sembrano in grado di perforare l’atmosfera densa di rassegnazione che respiriamo senza reagire ormai da molti anni. In termini più tecnici è l’alto costo della ricerca di nuovi principi attivi contro malattie e insetti nocivi per l’agricoltura che sta spostando molte transnazionali verso le biotecnologie; le spinte verso produzioni più biologiche è determinata dalle elevate possibilità di guadagno che offrono, non dai danni per la salute emergenti o dal desiderio diffuso di recuperare il sapore originario dei prodotti.

Si continua a sostenere che diossine e pazzie animali varie siano determinate da pochi truffatori isolati invece che essere la ovvia conseguenza di metodi di produzione e commercio spinti alla ricerca dei massimi livelli di produttività e profitto senza tenere conto delle esigenze sia pur minime dei consumatori. Perfino affermazioni irresponsabili tipo "se non ci fossero le produzioni industriali saremmo alla fame" non suscitano alcuna reazione o dibattito in grado di definire le esatte dimensioni dei problemi.

6). Quante delle sommosse, delle ribellioni, dei massacri, delle guerre, delle schiavitù e dei lavori forzati, potrebbero essere considerate parte del problema "quale evoluzione", cioè come garantire a tutti soddisfazione dei bisogni elementari e occupazione? Forse in un numero rapidamente crescente di regioni esistono già le condizioni per dei movimenti sociali che chiedono delle risposte che un singolo governo non è più in grado di dare.

Forse sono molte di più di quelle che pensiamo le aree che possono esprimere un processo evolutivo autonomo, che non può trovare spazio sufficiente finché il modello dominante è considerato l’unico possibile ed è caratterizzato da una così elevata capacità di diffusione.

7).Fino a che livello può giungere la disaffezione e il disinteresse per la partecipazione democratica senza porre le premesse per la richiesta di altri sistemi di governo? Il parametro non è naturalmente solo l’assenteismo elettorale, e non è tranquillizzante il fatto che delle "sinistre" siano al governo in alcuni paesi del Nord; la questione si pone piuttosto in termini di "distanza" che i cittadini percepiscono tra governanti e governati, che evidentemente è il sintomo dello svuotamento dei meccanismi di rappresentanza e di delega nella fase attuale, dove prevalgono i sistemi internazionali rispetto a quelli nazionali, mentre nessuna attenzione è data alle scelte che dovrebbero sorgere dal basso.

I sondaggi non sono nemmeno lontanamente un sostituto valido mentre le logiche egocentriche, (individuali, familiari e locali) prevalgono senza freni e senza rispetto di alcun valore collettivo. Le mafie, i capi bastone politici, le piccole clientele trovano ormai da tempo un terreno di coltura praticamente illimitato.

3. Il modello alternativo, prime considerazioni

Le analisi più realistiche sulla situazione e sulle prospettive del sistema economico internazionale, evidenziano un numero di contraddizioni crescenti all’interno del modello dominante.

  • La fase cosiddetta di globalizzazione, peraltro già iniziata da parecchi anni nelle sue componenti principali ( multinazionali, finanziarizzazione dell’economia, sistema globale della comunicazione e dell’informazione), è caratterizzata da una maggiore diffusione delle crisi monetarie, da una consistente e duratura disoccupazione, da un più frequente ricorso a guerre che coinvolgono direttamente i paesi industriali.
  • Anche i meccanismi di danno ambientale, specie quelli a carattere globale (effetto serra, buco nell’ozono, sparizione di specie animali e vegetali, inquinamento dell’acqua, drastica riduzione delle risorse marine), continuano a non suscitare la dovuta attenzione, mentre non vengono ancora di fatto toccati gli interessi industriali per uno sfruttamento senza limiti delle risorse naturali.
  • Infine, è ormai evidente che all’interno dei paesi sottosviluppati si deve registrare una drammatica frattura che separa almeno un miliardo e mezzo di persone dal resto delle popolazioni vittime dei meccanismi di sfruttamento da oltre 40 anni. La fascia di chi tenta di sopravvivere ben al di sotto della cosiddetta soglia di povertà comprende in realtà non dei poveri che con adeguate politiche economiche e sociali potrebbero essere reinseriti nell’economia dello sviluppo, ma degli esclusi che non rivestono alcun interesse né come produttori, né come consumatori, per il sistema economico dominante.

Questa lettura degli ultimi anni del secolo stenta a essere condivisa anche nelle sedi internazionali, che pure dispongono di tutti i dati relativi, ma la società civile non può chiudere gli occhi davanti alla realtà, sia pure sconfortante e deprimente.

E’ la constatazione di queste profonde divaricazioni e contraddizioni e non solo il richiamo idealistico ad antichi valori quasi dimenticati, che costringono ad immaginare e tentare di realizzare modelli alternativi a quello dominante, sempre più lontano dalla possibilità di soddisfare bisogni primari urgenti e di impedire la moltiplicazione di conflitti legati alla difesa di risorse legate alla pura e semplice sopravvivenza.

Dobbiamo però essere convinti che il sistema dominante presenta delle crepe e che le caratteristiche del modello in corso di realizzazione non sono esenti da limiti e contraddizioni. Dobbiamo cioè essere convinti (ovviamente non in termini solo ideologici) che il sistema rimasto da solo a dominare il mondo lasci degli "spazi", offra egli stesso le condizioni per una alternativa. Ovviamente nulla sarà regalato, anzi le reazioni saranno feroci, e ogni spazio dovrà essere conquistato, però la potenzialità dell’alternativa è sul tappeto.

Solo profonde convinzioni, maturate non solo teoricamente, possono permettere di passare dall’utopia al concreto, per quanto faticoso e lungo possa essere questo passaggio.

Inoltre si deve essere convinti del fatto che solo assuefazioni e condizionamenti impediscano a molte persone di collaborare ad una alternativa, cioè che il nuovo modello è già nei desideri ma serve una complessa azione per farlo emergere. Da questo punto di vista i fattori in giuoco sono moltissimi e non ben conosciuti, quindi le analisi devono essere molto approfondite.

In questa fase storica caratterizzata da enormi abbondanze di beni e da profondi squilibri distributivi, la ricerca della giustizia e la riaffermazione della solidarietà hanno profonde radici economiche ed ambientali, oltre che etiche ed umane. La povertà e l’esclusione devono destare una indignazione e una capacità di rifiuto commisurate ai livelli tecnologici e produttivi finora raggiunti e presentati come illimitati in un pianeta che mostra invece sempre più chiaramente la fragilità delle sue difese di fronte al moltiplicarsi degli attacchi insensati alle sue risorse.

Le fasce più sensibili della società civile hanno ormai l’obbligo di denunciare con forza i meccanismi più dannosi in atto, di indicare senza esitazioni le modifiche più urgenti da apportare al sistema; di elaborare e cercare di imporre alternative tecnologiche e produttive, di delineare modelli alternativi di convivenza e di consumo.

Ciò è tanto più urgente e ineludibile quanto più riguarda paesi e fasce di popolazione posti ai margini od esclusi dai più potenti processi dominanti: è nel loro ambito che sono in essere le condizione economiche e politiche per l’emergere di sistemi alternativi, è in quei contesti che possono emergere nuovi protagonisti.

I nuovi modelli saranno tanto più validi ed attraenti quanto più riusciranno fin dall’inizio ad evitare gli errori del passato e del presente. E’ quindi necessario evitare di essere accusati di utopismo e di ingenuità, di perseguire obiettivi immensi senza valutare in termini realistici gli sforzi necessari, e soprattutto di credere che gli ideali perseguiti siano automaticamente in grado di coinvolgere masse consistenti, anche dove più numerose sono state e sono le vittime del sistema dominante.

 

 

torna alla pagina sulla Rete di Lilliput"