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"Mio figlio, una maschera di sangue"


Un padre, famoso giornalista, racconta l'incubo del figlio, raccolto
all'uscita del carcere di Pavia, dopo essere stato arrestato e
pestato a sangue dai Carabinieri per aver cercato di filmare i cortei
di Genova.
di Gian Paolo Ormezzano


Voleva soltanto filmare le manifestazioni
E' stato arrestato e pestato a sangue
Contro di lui, soltanto un verbale-fotocopia
Dice di aver perso i suoi ideali, io li ho ritrovati
Un minuto dopo essere uscito dal carcere di Pavia, liberato da un
magistrato genovese che non ha creduto all'atto di accusa stilato in
fotocopia per tanti, resistenza e lesione a pubblico ufficiale
durante la contestazione al G8, e che non ha neppure convalidato
l'arresto, mio figlio ha disobbedito a me ed a sua madre.

Gli avevo chiesto di farmi vedere tutte le ferite coperte dagli
abiti, mi ha detto di no, dovevo "accontentarmi" dello scempio
visibilissimo sul viso, otto punti al sopracciglio, un occhio
circondato dal viola dell'ecchimosi e invaso dal sangue, il labbro
rotto, e della visione della schiena, piagata dalle manganellate e
dai colpi calati col calcio del fucile. Oh, si vedevano anche i segni
delle manette che gli erano state strette troppo fortemente ai polsi,
ma dire manette è un errore, il termine tecnico è un altro che lui sa
e io no, sono specie di ceppi che segnano la carne. I pantaloni
scendevano perchè la cintura non c'era più, era stata sfilata di
brutto all'ingresso in cella, rompendo tutti i passanti, e si vedeva
qualcosa delle mutande piene di sangue. Però lui non ci ha lasciato
vedere tutto, non voleva farci del male con quello "spettacolo".

Erano le 19 di lunedì. Settantacinque ore prima mio figlio, che ha 26
anni ed è creatura gentile, tenera, prudente sino ad essere
paurosetta, massima esplosione di esuberanza fisica il tifo urlato e
cantato per il suo e mio Toro, aveva compiuto il grave errore di
partire con amici da una località di mare in provincia di Savona per
andare a Genova e filmare - lui che studia anche giornalismo
televisivo a Torino e mette insieme documentari assortiti - qualcosa
del Genoa Social Forum, della contestazione contro il G8. Filmare e
basta, cercando immagini di protesta corale e coreografica, filmare
accanto a un gruppo di vecchie signore che vendevano magliette-
ricordo.

Una carica dura delle forze dell'ordine, è la zona dove è stato
appena ucciso quel ragazzo, le signore alzano le mani, i suoi amici
scappano, lui non può perchè cercando di allontanarsi si inciampa,
cade, resta in ginocchio, a mani alzate. Gli piombano addosso, quelli
delle forze dell'ordine, e gli spaccano la telecamera e la faccia,
gli tatuano la schiena, gli martoriano tutto il corpo. Tanti vedono,
nessuno può intervenire. Se lo disputano come ricettacolo di colpi
poliziotti e carabinieri: ad un certo punto lui si trova con una mano
nella manetta di un agente, l'altra nella manetta di un carabiniere.
Implora una scelta, mica possono squartarlo.

Se lo aggiudicano i carabinieri, che lo portano via, gli dicono che
un loro commilitone è stato ucciso, in una caserma, questo sarà lo
spunto per altri pestaggi, stavolta specialmente con calci. C'è anche
il passaggio in un ospedale per una medicazione, fra medici
sbalorditi, indignati. Poi - ormai è notte - via su un torpedone
verso il carcere di Pavia, la cella di isolamento: la richiesta di
poter orinare prima del viaggio viene respinta con un pugno sul viso
ferito e invito al fachirismo o al farsela addosso, comunque unica
violenza fisica da parte della polizia penitenziaria. Poi la
prigione, senza ora d'aria, con poco cibo e l'acqua calda del
rubinetto. Passa tutto il sabato, passa tutta la domenica. Tocca agli
infermieri del carcere inorridire per le ferite da medicare. Al
lunedì mattina la decisione del magistrato, sollecitato da un bravo
avvocato che sa smontare le accuse inventate sul verbale in
fotocopia, come quella di detenere uno scudo in plastica, vistoso e
imbarazzante, ancorchè strumento di difesa, non di offesa, ma
inesistente, inventato. Fra la decisione del magistrato e la
scarcerazione passano sei ore per le cosiddette pratiche
burocratiche. Sei ore di vita libera tolte ad un ragazzo pienamente
scagionato. Sei ore di attesa per noi nel forno davanti al carcere.
E' uscito senza la telecamera ed uno zainetto, spariti. Gli hanno
ridato il telefonino, lo aveva in tasca, è stato distrutto dalle
manganellate.

Ho saputo venerdì nella notte, da una telefonata dei carabinieri, che
era in arresto e "stava benissimo". Non mi hannno detto altro. Mi
sono precipitato a Genova, comunque. Era l'alba di sabato,
telefonando ai carabinieri ho saputo che ero stato stupido a mettermi
in viaggio, chissà dove era mia figlio, Mi hanno detto comunque di un
avvocato di ufficio, nome e cognome: ma al telefono c'era soltanto
una voce meccanica. Ho trovato aiuti da giornalisti amici, ho trovato
un bravo avvocato, la procura di Genova era aperta e collaborativa,
ho saputo del trasferimento a Pavia. Ho goduto della posizione di
giornalista per rintracciare qualche informazione, molta solidarietà.
Ed anche per essere allenato a come avrei visto mio figlio: colleghi
esperti mi hanno detto, sì, di prepararmi a vederlo conciato male. Ma
nonostante tutto da venerdì notte alla fine della giornata di lunedì
ho vissuto una situazione da "Missing", il film americano sulla
tragedia del Cile ma anche sull'angoscia che ti prende quando sai
poco o nulla di una persona cara portata via, nella mio angosciata
particolare esperienza di immaginarti il figlio con le sue ferite,
per anestetizzarti all'impatto (non servirà a nulla, sarà comunque
una cosa tremenda).

Un bravo magistrato ha interrogato, eseguito riscontri, ascoltato
testimonianze, e non ha creduto alle accuse a mio figlio elencate in
un verbale che pareva proprio prestampato, eguale per tanti, ha
creduto al racconto dolente ed angosciato di un ragazzo nonostante
tutto più stupito che indignato, più sereno che dolente. Nella
giornata passata fuori dal carcere di Pavia ho parlato con tantissimi
parenti e amici di altri di quei provvisori desaparecidos. Ho visto
uscire dal carcere altri ragazzi coperti di ferite. Ho potuto anche
pensare che a mio figlio è andata bene, non è stato colpito alla
pancia, ha avuto un avvocato solerte, ha trovato i suoi genitori
fuori dal carcere ad aspettarlo, nei limiti del possibile
confortarlo. Una parlamentare che ha visitato il carcere ha parlato a
noi in attesa di ragazzi feriti, distrutti, piangenti, brutalizzati
direttamente dai colpi presi, indirettamente dalla situazione
kafkiana dell'isolamento. Lui mi ha detto che le visite di
parlamentari e consiglieri regionali sono state un balsamo comunque,
per quel poter parlare serenamente di qualcosa con qualcuno, senza
prendere colpi e ricevere insulti (una bella - cioè orribile -
antologia, quella delle aggressioni verbali in pratica continue, l'ha
messa per iscritto quando in carcere ha avuto una penna e qualche
foglio, c'è davvero tutto per umiliare uno che patisce anche le
parole).

Ho provato a chiedermi, da democratico assoluto, disperato, se
proprio non è possibile ad un cittadino filmare della sua Italia,
oltre che i monumenti e i tramonti e le feste di famiglia, anche una
manifestazione di protesta senza dover essere brutalizzato, ridotto
ad un manichino sanguinolento, sfregiato sul viso per sempre, da
forze dell'ordine violente con i deboli e impotenti di fronte ai veri
violenti, visibilissimi, colpibilissimi, le tute nere, nella
fattispecie di Genova. Cercherò di saperlo per vie legali, confido
nella legge. Mio figlio mi ha detto - spero perchè ferito ed
umiliato, non perchè definitivamente portato ad una scelta - che
rinuncia agli ideali. Ma non ci credo. E comunque ha rifornito di
ideali me.

(24 LUGLIO 2001, ORE 10)