|
M i chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di
rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per
non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia
alcuni gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria!
Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa
essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso,
politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché
altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano
sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene».
E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d'una rabbia fredda, lucida,
razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina
di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso.
Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be
angry. It's
good to be angry, it's healthy. Siate
arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo
so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin
Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un
detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta.
Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta io, quest'Apocalisse. Di
fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella. Ero a casa,
la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la
sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi
riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento,
quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva,
e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get
down! Giù! Buttati giù». L'ho
respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e
fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia
vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno
2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho
fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l'audio non
funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi
cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco
fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di
terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo,
mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco,
grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva
verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta
sull'obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento
l'audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge.
«God! Oh,
God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio!
Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella seconda torre come un
coltello che si infila dentro un panetto di burro.
Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei
quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il
mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla
prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si
buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio.
Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si
butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così
lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell'aria. Sì, sembravano
nuotare nell'aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però,
acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi
gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a
sasso e paf! Sai, io credevo d'aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi
ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche
quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre
visto la gente che muore ammazzata. Non l'ho mai vista la gente che muore
ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d'un ottantesimo o
novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che
scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due
torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa.
La seconda s'è fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è sciolta proprio come un
panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m'è parso, in un
silenzio di tomba. Possibile? C'era davvero, quel silenzio, o era dentro di me?
Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di morti.
Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento. Come
a Dak To, in Vietnam. E quando il
combattimento è finito, gli americani si son messi a raccattarli, contarli, non
credevo ai miei occhi. Nella strage di Mexico City, quella dove anch'io mi
beccai un bel po' di pallottole, di morti ne raccolsero almeno ottocento. E
quando credendomi morta mi scaraventarono nell'obitorio, i cadaveri che presto
mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri
lavoravano quasi cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad
evacuare. Gli ascensori non funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi
dagli ultimi piani ci voleva un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo
conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?).
Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l'intensità di questa
Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre
Apocalissi. E poi le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di
creature son troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di
membra sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra
caffè macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un
lampo si polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila
sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati.
Che cosa
sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà.
No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà. A
me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre
stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra
Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar l'arrivo delle
truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a
Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o
eroi, come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972.
(Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo dove i suoi marescialli
addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero vanesi e
basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso il cinema o la politica
o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una morte che invece del
Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà
(credono) ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel
Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì.
Scommetto che sono vanesi anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia
dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»: il romanzo che incomincia
con la distruzione della base americana (oltre quattrocento morti) e della base
francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l'erano fatta scattare
prima d'andar a morire, quella fotografia, e prima d'andar a morire erano stati
dal barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che
barbetta leccata, che basette civettuole...
Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui
non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di
opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di lui
espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli ho mai
perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente
presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella
puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo
incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul
muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i
martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe
umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la
seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che
lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri
sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i
passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è
schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per
loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che
ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa,
afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella
sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho
ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con
gli Arafat mi viene la febbre.
Preferisco
parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all'America.
Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e
aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da
un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che
sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d'Europa.
E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non
democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e
finanziato e aiutano i terroristi. L'Unione Sovietica, i paesi satelliti
dell'Unione Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi,
l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa
Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente
l'Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli
aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che
dorme. L'unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei
terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre
sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura
nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A
Washington, no. Devo ammetterlo.
L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non
è mai stato un problema di «se»: è sempre stato un problema di «quando».
Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella
inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente
alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre
domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l'audio non funzionava,
ci fosse quella sull'attentato? E perché credi che appena apparso il secondo
aereo abbia capito? Poiché l'America è il Paese più forte del mondo, il più
ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel
tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America nasce
proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua
modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda.
Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo
rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni
di americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene
diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di
frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli
proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che spero cambi) per studiare
chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra
batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah
dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell'acqua e
scateni una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un
bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni
limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate
nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale.
Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità
americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l'hamburger,
Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua
scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti, così
belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del
nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un
tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei.
Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra
aerea l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel
Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella
scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in
pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra
millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il
reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei,
con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più
in questo tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché
corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a
Beirut quando aveva vent’anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di
Maometto e di Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai
guadagni d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un
esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.
Il fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare,
di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza
eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una
patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della
Libertà, anzi della libertà sposata all'idea di uguaglianza. Lo è anche perché
a quel tempo l'idea di libertà non era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno.
Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li
trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l'Encyclopedie, questi
concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi
e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano
ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da
mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della
Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel
1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776.
(Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene
ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea venne
capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle
colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader
straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The
Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma
hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas
Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera? Altro
che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della
Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i
Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il
greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di
latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in
greco s'eran letti Aristotele e Platone, che in latino s'eran letti Seneca e
Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l'eran studiati come
nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso
che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l'italiano. (Lui diceva
«toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le
duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che
in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva
portato varie copie d'un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato
«Dei Delitti e delle Pene». Quanto all'autodidatta Franklin, era un genio.
Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore.
Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva inventato il
parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari, questi
uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e comunque
ineducati si ribellarono all'Inghilterra. Fecero la guerra d'indipendenza, la
Rivoluzione Americana.
Bè... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni
guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione
Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La
fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una
patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata
all'uguaglianza. La Dichiarazione d'Indipendenza. «We
hold these Truths to be self-evident... Noi
riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che
sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti
v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per
assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi...». E quel
foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male
copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale
dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma
i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita
anzi le ordina di governarsi, d'esprimere le proprie individualità, di cercare
la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva
proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e
mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un
regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le
palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo»
diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo
trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame.
Bè, secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America.
Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi.
Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi
piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor
della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il
buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad
esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d'Inghilterra sembra
chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più
forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la
Plebe Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti.
Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se
le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a
patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una
visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu,
Monsieur le President, bienvenu!». Il
guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda
sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell'Occidente non
smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano.
Non sto
parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle macerie e
ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle persone che pur
non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E
a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar
contro corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché
il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete
capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al
doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire
che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia
di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che
essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del
nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre
anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà.
All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di
pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e
divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si
oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E
distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a
migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura
non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la
nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo!
Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere
voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la
barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate
la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa
vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i
calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi,
perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v'importa
neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione
di lasciarmi ammazzare perché lo sono.
Da vent'anni lo dico, da vent'anni. Con una certa mitezza, non con questa
passione, vent'anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il «Corriere».
Era l'articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i
credi, d'una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le
intolleranze, d'una laica senza tabù. Ma era anche l'articolo di una persona
indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra Santa a venire, e ai figli
di Allah gliene perdonava un po' troppe. Feci un ragionamento che suonava press'appoco
così, vent'anni fa. «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso
ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la
nostra? Io voglio difendere la nostra, e v'informo che Dante Alighieri mi piace
più di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!».
Eh, furono gli stessi progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a
crocifiggermi. Del resto quell'insulto me lo presi anche quando i sovietici
invasero l'Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che
prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi
del Signore? «Allah
akbar! Allah akbar!». Io li ricordo
bene. E a veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i
brividi. Mi pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo: «I sovietici sono quello
che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi.
E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine
non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah
commettevano sui militari fatti prigionieri. (Gli segavano le braccia e le
gambe, rammenti? Un vizietto a cui s'erano già abbandonati in Libano coi
prigionieri cristiani ed ebrei). Non volevano che lo dicessi, no. E pur di fare
i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura
dell’Unione Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano. Addestravano
i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden. Via-i-russi-dall'Afghanistaaaan!
I-russi- devono-andarsene-dall'Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono andati
dall'Afghanistan: contenti? E dall'Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama
Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni
libanesi palestinesi sauditi che componevano la banda dei diciannove kamikaze
identificati: contenti? Peggio: ora qui si discute sul prossimo attacco che ci
colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari. Si dice che la
nuova strage è inevitabile perché l’Iraq gli fornisce il materiale. Si parla
di vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà...
Contenti?
Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto
l'America è lontana, tra l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no, cari
miei. No. C'è un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino
dell'Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi.
L'America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi
austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi
belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l'America, crolla
l'Europa. Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè
nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e ingenua,
dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano
che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»). In tutti i sensi
crolliamo, caro mio. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto
delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di
cammella. Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha
capito. È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli
inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una
solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare.
Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita ufficiale.
Una visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle
due torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi
inconfessabile, ma non s'è sbilanciato. Durante l'intervista alla Cnn ben
quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in
qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro volte
Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come un'anguilla. Veniva voglia
di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa
quanti americani sono crepati in Normandia per cacciare i nazisti anche dalla
Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra gli altri europei vedo
Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia dove il governo non ha
individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin
Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio! Malgrado la paura della guerra, in ogni
paese d'Europa è stato individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin
Laden. In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove
le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che
inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la
Cupola di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno. Mi spieghi, signor
cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e carabinieri? Son così
coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E son tutti
stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e succede, i figli di
Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare
chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme di subire il solito
ricatto razzista-razzista? Io, vede, no.
Cristo! Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della
guerra è un cretino. E chi vuol far credere di non avere paura alla guerra,
l’ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo. Ma nella Vita e
nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura. Casi in cui aver
paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di coraggio
o abitudine a tenere il piede in due staffe si sottraggono a questa tragedia, a
me sembrano masochisti.
Masochisti,
sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami
Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio
perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due
realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra
civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è Platone, c'è Aristotele, c'è Fidia,
perdio. C'è l'antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della
Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo
concetto della Legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura.
I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue
strade. C'è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato
(e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell'amore e della
giustizia. C'è anche una Chiesa che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che
mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d'accordo. Che mi ha oppresso
per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e
Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha
zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o
no? E poi dietro la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è Leonardo da
Vinci, c'è Michelangelo, c'è Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e
di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella
musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o
supposta cultura è proibita. Guai se fischi una canzonetta o mugoli il coro del
Nabucco. E infine c'è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie
malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza:
non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il
treno, l'automobile, l'aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su
Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di
questo pianeta con l'elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a
proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che ho
appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai. Ed ora ecco la fatale
domanda: dietro all’altra cultura che c’è?
Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi
suoi meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci trova
anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo
coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla
mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e
la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si
smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la
matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli
adopriamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte
le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto,
tra i Maya... I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che
qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono
le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei
con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano.
Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli
esperti dell'Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che il
Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Del resto lo dice anche
Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro
milioni di americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che sanno sugli
eventuali parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come
la mettiamo con la storia dell'Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente? Come la
mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il volto delle
musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle infelici devon
guardare attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi? Come la
mettiamo con la poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei
cammelli, che non debbano andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non
debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo col veto degli alcolici e
la pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra
mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico.
Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al
mondo c'è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli
pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador
anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all'altezza degli
occhi, peggio per loro. Se son così scimunite da accettar di non andare a
scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro.
Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio
per loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino,
idem. Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel
concetto di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è
vario». Ma se pretendono d'imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo
pretendono. Usama Bin Laden afferma che l'intero pianeta Terra deve diventar
musulmano, che dobbiamo convertirci all'Islam, che con le buone o con le cattive
lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E
questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar
le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la
morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia,
ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno
dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città,
nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia.
Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in atto
da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da una
perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada quando
gestiva l'Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile. Ragionarci,
impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E
chi crede il contrario è un illuso.
***
Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in
Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in
Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in Italia. Lo ha conosciuto, ed anche
attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti conferme.
Io non dimentico mai quel che mi accadde all'ambasciata iraniana di Roma quando
chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai
con le unghie smaltate di rosso. Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono
come una prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo
immediatamente quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa
gradivo levare, anzi tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi
accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta
da tutti gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per
mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans
dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare l'operazione
nell'automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma l'interprete me lo impedì.
Lei-è-pazza, lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati.
Preferì portarmi all'ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci
prestò l'ex Sala del Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare
alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata
dall'asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il Corano
vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d'un tratto la porta si
aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe strillando
vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v'era solo un modo per non finire
fucilati: sposarsi. Firmare l'atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi) che
il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l'interprete aveva una
moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la
poligamia, e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano con la moglie
spagnola e nient'affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo
non volevo finir fucilata ossia perdere l'intervista con Khomeini. In tal
dilemma mi dibattevo e...
Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo
episodio non te lo racconto. Per farti piangere ti racconto quello dei dodici
giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca.
Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel
torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune
applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar». Lo so, lo
so: nel Colosseo gli antichi romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura
va fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni. Lo
so, lo so: in tutti i paesi d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali
malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del
Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici. Però è trascorso
parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di
Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno. Dopo i dodici
giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello condannato
a morte s'era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa con gli
scarponi da militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la
cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì
con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò. Comunque il
punto che mi preme sottolineare non è questo. È che, concluso lo scempio, i
ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in
maniera scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente
composero un corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre
tuonando Allah-akbar, Allah-akbar. Li distrussero come le due Torri di New York.
Li ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate.
Oh, potrei continuare all'infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare
i capelli in testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo
l'intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo accusavo di
tagliare i seni alle donne. Da tale comizio ricavò un video che per mesi venne
trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando l'anno successivo tornai a
Teheran, venni arrestata appena scesa dall'aereo. E la vidi brutta, sai, proprio
brutta. Era il periodo degli ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib
Rahman che, sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in
quanto europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un
colonnello inglese mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che per venti
minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa. Dio, che gente! I
soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto cioè
il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico
dell’Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein. Ma quei due erano
musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la conclusione del mio
ragionamento. Una conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la
propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale. E visto che
intimiditi dall’impropria parola «razzista», tutti tacciono come conigli.
Io
non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie
dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro
moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo
nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai
d'essere un'ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o
gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li
tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o
ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. E questo urlo di dolore
e di sdegno io te l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre
mi davano le apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso. A
volte invece di quelle vedevo l'immagine per me simbolica (quindi infuriante)
della gran tenda con cui un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e
smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia città.
Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li
ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l’Europa e
non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi,
fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei
parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo dell'Arcivescovado sul cui
marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori
dalle moschee. E insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote
dell'acqua con cui si lavavano i piedi prima della preghiera. Una tenda posta di
fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero
con le porte d'oro del Ghiberti. Una tenda, infine, arredata come un rozzo
appartamentino: sedie, tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per
scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col
puzzo. E, grazie alla consueta incoscienza dell'Enel che alle nostre opere
d'arte tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie
a un radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che
puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono
delle campane. Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che
profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi
figli di Allah! Ma come facevano a colpire l'obiettivo separato dalla ringhiera
di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro apparato urinario?) Con
le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di
San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle
spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in
cacatoio. Lo sai bene.
Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere»,
ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa
mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio ragione...». Ma la
tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì. Chiamai anche il
ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che
parlano con l'accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda. E pure
lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione, sì».
Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che
urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li
accontentò. (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli
zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare).
Cioè a Firenze e in altre città d’Europa. Allora cambiai sistema. Chiamai un
simpatico poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro
poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio.
Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani non
levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che
neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo
voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette. Così finisco su
tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di
poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase soltanto un'immensa e
disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto
non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano
quella che era la capitale dell'arte e della cultura e della bellezza, non
scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli
albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i
nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della
prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì: sono tutti
dov'erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il piazzale
degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia dell'Orcagna,
intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale,
all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si pigliano a
coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il
Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul sagrato della Chiesa
di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di
ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa estate, su quel
sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un'antica signora. E va da sé
che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì a
mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche strade dove bivaccano col pretesto
di vender-la-merce. Per merce intendi borse e valige copiate dai modelli
protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie, matite, statuette africane
che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je
connais mes droits, conosco i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno
a cui avevo visto vendere la roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta,
guai se gli risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. «Razzista,
razzista!». Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone
gli sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un
Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le
dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?». Se lo
mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma
e la progenie. «Razzista, razzista!». E la gente sopporta, rassegnata. Non
reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo:
«Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l'avete un po' d'orgoglio,
pecoroni?».
Succede anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino
che fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra
Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove i
piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce»
e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i
meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro e
deperiscono come belle donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il cinismo della
politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li corteggia nella speranza d'ottenerne
il futuro voto, e dove a proteggerli c'è lo stesso Papa. (Santità, perché in
nome del Dio Unico non se li prende in Vaticano? A condizione che non smerdino
anche la Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i dipinti di Raffaello:
sia chiaro). Mah! Ora son io che non capisco. Anziché figli-di-Allah in Italia
li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d'opera-di-cui-v'è-bisogno».
E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son
diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New
York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale's. Si vergognano a fare gli operai
e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato. Ma quelli di cui
parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono al bisogno
della mano d'opera che l'ex proletariato italiano non fornisce più? Bivaccando
nella città col pretesto della merce-da-vendere? Bighellonando e deturpando i
nostri monumenti? Pregando cinque volte al giorno? E poi c'è un'altra cosa che
non capisco. Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio
sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? Chi glieli dà i dieci milioni
a testa (come minimo dieci milioni) necessari a comprarsi il biglietto? Non
glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non
è solo una conquista di anime, è anche una conquista di territorio?
Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i nostri
ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è nessuno che
vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuol
mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova
Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio. E sbaglia chi
questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo. Sbaglia, soprattutto,
chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta sull'Italia e sull'Europa
con l'ondata migratoria che si rovesciò sull'America nella seconda metà
dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento. Ora
ti dico perché.
***
Non
molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei mille
presidenti del Consiglio di cui l'Italia s'è onorata in pochi decenni. «Eh,
anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di
fibra partiva per l'America!». O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No. Non
è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza semplici.
Il primo è che nella seconda metà dell'Ottocento l'ondata migratoria in
America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la
effettuava. Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un
preciso atto del Congresso. «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se
venite, vi si regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche un film, gli
americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale m'ha colpito il
finale. La scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina bianca
sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più forti ce
la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa muoiono.
Ch’io sappia, in Italia non c'è mai stato un atto del Parlamento che
invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi.
Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi, se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti.
Da noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai
finanzieri che cercavano di rimandarli indietro. Più che d’una emigrazione
s’è trattato dunque d’una invasione condotta all’insegna della
clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e dolorosa.
È arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari
tutti e due. Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i
clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno.
Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose
che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi
sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata
dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si
nascondono». Stronzi! In quelle piazze ve n’erano migliaia, e non si
nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila,
prego-gentile-signore-s’accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto.
Il secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo capirebbe
anche uno scolaro delle elementari. Per esporlo bastano un paio di elementi.
Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà dell’Ottocento cioè
quando il Congresso Americano dette il via all’immigrazione, questo continente
era quasi spopolato. Il grosso della popolazione si condensava negli stati
dell’Est ossia gli stati dalla parte dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era
ancora meno gente. La California era quasi vuota. Beh, l’Italia non è un
continente. È un paese molto piccolo e tutt’altro che spopolato. Due:
l’America è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d’Indipendenza
si svolse alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci
perché la sua identità culturale non è ancora ben definita. L’Italia, al
contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila anni.
La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non
prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che
si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire:
io-con-la-chiesa-cattolica-non-c'entro. C'entro, ahimé c'entro. Che mi piaccia
o no, c'entro. E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese,
conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo
è stata la musica della campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che
all'Epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella
musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e
quel paesaggio che ho imparato cos'è l'architettura, cos'è la scultura, cos'è
la pittura, cos'è l'arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho
incominciato a chiedermi cos'è il Bene, cos'è il Male, e perdio...
Ecco: vedi? Ho scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo,
tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa
addirittura parte del mio modo d'esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio,
Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così
spontanee, queste parole, che non m'accorgo nemmeno di pronunciarle o di
scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai
perdonato le infamie che m'ha imposto per secoli incominciando dall'Inquisizione
che m'ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada
proprio d'accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica
delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei
Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania
delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di
pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son
più belle delle moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle
chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero
protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia
bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica. La bisnonna valdese non l'ho
conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand'ero bambina mi portava
sempre alle funzioni della sua chiesa in via de' Benci a Firenze, e... Dio,
quanto m'annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i
salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta,
quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito
aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente
incenso... Mi mancava perfino il puzzo dell'incenso, e avrei voluto trovarmi
nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c'erano. Le cose cui ero
abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v'è una minuscola
cappella. Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però
a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il
nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il
mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande
maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò
Berlinguer).
Santiddio! (Ci risiamo). Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle
condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio
di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di
respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e
molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un' ondata
migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il
nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c'è posto
per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo,
per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché
equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo,
Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o
male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io
l'Italia non gliela regalo.
Io
sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la
cittadinanza americana non l'ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano
me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir,
io all'America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure
le sono profondamente legata. L'America è per me un amante anzi un marito al
quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a
questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la
guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non
avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene
e m'è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e
porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un
gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso,
così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è sempre stata il Refugium
Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l'ho già, Sir. La mia
Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma. Sir, io amo l'Italia. E mi
sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana».
Gli risposi anche che la mia lingua è l'italiano, che in italiano scrivo, che
in inglese mi traduco e basta. Nello stesso spirito in cui mi traduco in
francese, cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli risposi che quando
ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-s'è-desta,
parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che
come inno è bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo
alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola.
Teppisti degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde
dell'Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi.
E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio
Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità
d'Italia non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro. La custodisco come un
gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati,
decapitati. Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni.
Ci abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la
guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno
Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un
razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena
dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e
torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera
famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e
Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l'anno
dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi
sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni
informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o
no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria.
Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai
le scarpe per me e per le mie sorelline.
Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia
godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in
pensione prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze
all'estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle
piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood
venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin
Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè
macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L'Italia
squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno
né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro
rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L'Italia
ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la
terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due
categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia dei
magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli
schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che
è»: animali! Si dice «Credo che sia»). Non è nemmeno l'Italia dei giovani
che avendo simili maestri affogano nell'ignoranza più scandalosa, nella
superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro
aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi
erano i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo
D'Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la
pupilla spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la
comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia,
sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i
piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo
aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità. Tra una
spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai
loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia è un'Italia
ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito
Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un'Italia
seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E
quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata,
guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché,
che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco
Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo
stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.
Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non
chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane.
Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato.
La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a
lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.
Oriana
Fallaci
|
|