DICHIARAZIONE PER IL CONVEGNO DI PARIGI

SULLE ARMI LEGGERE – 22 SETTEMBRE 2000

L’esperienza italiana e il codice di comportamento europeo

    L’esperienza italiana in materia di esportazione di armi, presenta alcune caratteristiche particolari che vale la pena di valutare attentamente.

Già nel corso degli anni ottanta le organizzazioni pacifiste e del volontariato diedero vita ad una vigorosa campagna di denuncia contro quelli che vennero definiti come “mercanti di morte”.

La campagna ebbe un esito positivo: il parlamento varò, infatti, nel 1990 un importante provvedimento di legge particolarmente innovativo.

Quella legge nota come la 185/90 contiene alcuni punti importanti:

1.      Trasferisce alle competenze del Ministero degli esteri le maggiori responsabilità in fatto di esportazioni di armamenti considerando dette esportazioni come atti di politica estera

2.      Fa obbligo alla presidenza del consiglio di relazionare annualmente al parlamento sulla applicazione della nuova normativa. 

3.      Fissa i casi in cui le esportazioni non sono ammesse. In particolare fa divieto di esportazioni:

a)      verso paesi nei confronti dei quali sia stato dichiarato l’embargo

b)      verso paesi in conflitto

c)      verso paesi in cui siano violati diritti umani

d)      verso paesi che abbiano un bilancio della difesa sproporzionato alle loro esigenze e ai quali l’Italia fornisca aiuti allo sviluppo.

La legge dava vita a un comitato interministeriale ad hoc per con il compito di verificarne l’applicazione e prevedeva sanzioni anche penali a carico dei trasgressori. Faceva anche obbligo di accertare la destinazione finale di ogni singola operazione autorizzata.

            Gli effetti si fecero immediatamente sentire: l’Italia che occupava il 4° o 5° posto tra i paesi esportatori si trovò collocato nei primi anni di applicazione tra il 10° e il 20°.

            Fin dall’inizio contro la legge vi fu l’ostilità dichiarata degli esportatori di armi che si sentirono penalizzati nei confronti dei loro concorrenti europei e non europei.

E’ cominciata da allora una lenta opera di aggiramento, di revisione e di interpretazioni della legge che, a seguito di una serie di decisioni ministeriali e amministrative ha portato:

a)      ad una minore trasparenza della relazione annuale

b)      ad un trasferimento dei poteri dal comitato ad hoc al CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica)

c)      ad una interpretazione permissiva del concetto di “paesi in conflitto” e di “paesi che violano i diritti umani”.

Sempre su pressione degli esportatori di armi il governo D’Alema ha anche presentato un disegno di legge di revisione della 185/90 giustificandosi con la necessità di adeguare la legislazione italiana al codice di comportamento della comunità europea.

            Il tentativo è stato, al momento, bloccato dalla azione della Campagna italiana sulle armi leggere e da un vigoroso intervento di due noti scrittori italiani (Dacia Maraini e Antonio Tabucchi) che sul Corriere della Sera si sono fatti portavoce delle esigenze di mantenere attiva la normativa sulla esportazione di armi. Appare improbabile che, anche per la prossima scadenza della legislatura, il disegno di legge del governo possa essere approvato.

L’intera vicenda italiana può essere utile per trarne alcuni insegnamenti.

            In primo luogo la necessità di arrivare in sede comunitaria prima e in sede ONU poi ad un provvedimento avente le caratteristiche di un impegno legislativo valido per tutti, comprensivo di sanzioni per gli inadempienti, e per l’intera materia dell’esportazione degli armamenti.

            Un particolare rilievo dovrà avere la questione delle armi leggere che nel provvedimento italiano del 1990 non fu tenuto nella giusta considerazione perché l’opinione pubblica non era sufficientemente avvertita dei guasti enormi che la disseminazione incontrollata di armi leggere produce in una vasta area del pianeta che va dalle Filippine all’Indonesia, da Ceylon all’Afghanistan, alla Cambogia, all’area Caucasica, al Medio Oriente al corno d’Africa attraverso tutta l’Africa subsahariana sfiorando l’America centrale e la penisola balcanica.

            Si tratta di una fascia insanguinata in cui è coinvolta la responsabilità di quasi tutti i paesi sviluppati: tutti noi abbiamo il dovere di fare qualcosa.

L’esperienza italiana dice che bisognerà fare attenzione anche ai particolari, alle definizioni specifiche e che tra le armi leggere bisognerà tenere conto anche di quelle a doppio uso e alle munizioni non contemplate nella legislazione italiana.

Ultima questione: in Europa ci si avvia verso la costruzione di un importante industria degli armamenti. Le lettere di intenti recentemente firmate da sei membri della comunità a Londra è un chiaro segno in questa direzione. A prescindere dal giudizio politico generale che si vorrà dare, resta per tutti noi il dovere di sollecitare la nascita di un parallelo sistema di controllo che tenga costantemente sotto osservazione questo fenomeno destinato ad avere grandi ripercussioni nella vita dei nostri popoli e che potrà influenzare in maniera decisiva i rapporti dell’Europa con il resto del mondo.

Il potere dei gruppi militari industriali deve trovare il giusto contrappeso in robuste e democratiche strutture di controllo che lo mantengano rigorosamente entro i limiti e i binari delle necessità della Difesa e lo sottragga alla ricorrente tentazione di farne uno strumento di altra e diversa natura.