Cacciati dai loro
tuguri. Sfrattati con la forza dal fango e dalla melma. Mortificati nei
diritti più elementari. E' durissima la vita per i circa 500mila baraccati
che abitano nelle bidonville di Nairobi. Korogocho, Kibera Kahawa, Kamae
sono nomi diventati oggi tristemente famosi, autentiche discariche ai bordi
della capitale del Kenya, dove vivono ammassate l'una sull'altra decine di
migliaia di famiglie, dove l'istruzione e la sanità sono indistintamente
negate, dove la criminalità non conosce limiti, dove i soprusi sono
all'ordine del giorno, dove lo sfruttamento sessuale è prassi quotidiana,
dove un pasto al giorno è un'aspirazione impossibile, dove la speranza
rischia di trasformarsi soltanto in un lontano ricordo. E proprio qui, tra
la disperazione di chi è costretto a stare 24 ore curvo alla ricerca di
qualcosa di "utile" tra montagne di rifiuti, il governo del Kenya ha deciso
di mettere in atto le sue politiche liberticide. Da un paio di giorni si sta
infatti procedendo a suon di demolizioni e sgomberi contro il popolo delle
bidonville, con tutte le conseguenze sociali facilmente immaginabili. Dove
sarà costretta a fuggire tutta quella gente? Su questo, Nairobi tace. La
terra che "ospita" le baracche, alcune in legno, altre di lamiera quando non
di fango, viene considerata bottino appetibile dalle bande criminali e da
chi già ci vede il sorgere di lucrose attività.
Che cosa fare allora? Innanzitutto respingere con ferma decisione la
scelta attuata dal governo di Nairobi. E poi sostenere ancora di più da
vicino le popolazioni colpite, fare pressione perché si possa giungere a
condizioni di vita dignitose.
In questi giorni molte associazioni mondiali si stanno attivando per
evitare la "catastrofe" e si stanno raccogliendo adesioni alla campagna
"Viva Nairobi Viva", contro le demolizioni e gli sgomberi (vedere sul sito
www. giovaniemissione.it , oppure telefonare all'Unione inquilini allo
049691771). L'iniziativa di solidarietà viene promossa dalla Iai (International
alliance of inhabitants), dai Giovani impegno missionario e da Unimondo, e
risponde alle richieste del Kutoka network of parishes in the informal
settlements, ovverosia, il coordinamento delle parrocchie degli slums di
Nairobi, dove svolge la sua missione il comboniano Daniele Moschetti, che ha
preso in eredità il lavoro di padre Alex Zanotelli. Decisiva la spinta anche
di molte ong locali. Tra i primi firmatari Abbé Pierre, Alex Zanotelli,
Cesare Ottolini, monsignor Luigi Bettazzi, Vincenzo Simoni. «Le motivazioni
del governo del Kenya, cioè la messa in sicurezza rispetto alla linea
elettrica e alla ferrovia, e la costruzione di una tangenziale - dice Cesare
Ottolini, coordinatore dell'Iai - non giustificano questa deportazione di
massa». In assenza di una immediata retromarcia del governo keniano,
Ottolini chiede all'Unione europea un segnale forte per bloccare i fondi
destinati alle infrastrutture causa degli sgomberi.
Dati alla mano e uno sguardo ai piani del governo di Nairobi illustrano
che cosa sta accadendo nella periferia della capitale del Kenya: oltre
20.100 baracche demolite perché sorgono a ridosso della ferrovia; 17mila per
permettere la realizzazione di una tangenziale; 4.500 perché vicino alla
linea elettrica. Così facendo, Nairobi violerebbe le convenzioni
internazionali che prevedono l'obbligo di trovare soluzioni alternative
quando gli sgomberi sono inevitabili. Cosa che finora non è avvenuta. E a
pagare sono sempre i soliti.
«Già oggi - afferma Zanotelli - oltre un miliardo di persone vive nelle
baraccopoli, scelta obbligata per la maggior parte della popolazione urbana
in Africa. Due milioni e mezzo sopravvivono nei 168 slums di Nairobi. E'
immorale che siano costretti su appena il 2,5% del territorio della città,
esposti ad ogni tipo di ricatto. Il blocco degli sgomberi - continua il
missionario comboniano, oggi al fianco dei disagiati di Napoli - è il primo
passo per ottenere maggiore giustizia nella distribuzione della terra».
Sarebbe fondamentale che i baraccati fossero proprietari di quella stessa
terra nella quale abitano. Ma così non è.
Korogocho oggi assomiglia molto all'inferno. Su un'area lunga un
chilometro e larga un chilometro e mezzo, vivono 150mila persone in oltre
11mila baracche, tra putridume e fogne a cielo aperto. Ogni residente ha a
disposizione uno spazio che non supera i 20 metri quadrati. Il terreno di
Korogocho è di proprietà governativa, oltre il 65% dei residenti, inoltre,
paga l'affitto. E il 40% dei proprietari delle baracche non ci vive.
Korogocho è dunque concentrata nelle mani di pochi proprietari che vivono
fuori dalla baraccopoli e passano solo a ritirare gli affitti. Nel tugurio
che ha ospitato Zanotelli per oltre 10 anni, oggi vive Daniele Moschetti,
impegnato in una missione che non concede respiro. «Abbiamo il sogno di una
Korogocho diversa - scrive in una lettera - dove ci sia più sicurezza,
dignità per le persone, lavoro, servizi basilari, sanitari, educativi,
acqua, toilets, luce, un ambiente più sano, più pulito, più umano. Dove il
cittadino non deve difendersi dal ladro, ma nemmeno dal poliziotto corrotto.
Dove i giovani e i bambini possano crescere con un sogno per il loro
futuro». Almeno il sogno di non veder demolite le baracche.
Fabio Rosati
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