I Perché della Guerra

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I perché della guerra

Le ragioni della pace

 

DOSSIER GUERRA

a cura di PeaceLink

Versione n. 7 del 12/11/2001

 

Riprodotto in proprio presso il Cipax, via Ostiense 152, Roma

 

 

 

PeaceLink, casella postale 2009, 74100 Taranto

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L'ITALIA E' IN GUERRA

 

ROMA - Anche il Senato, dopo la Camera, ha approvato il dispositivo comune delle mozioni presentate dalla maggioranza e dall'Ulivo per la partecipazione militare italiana in Afghanistan. I due dispositivi sono identici e sono stati posti in votazione insieme. Alla Camera il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini ha messo in votazione i dispositivi delle risoluzioni di maggioranza e opposizione, per la sostanziale identita' dei testi. Questo il risultato del voto: 513 i si', 35 i no, due gli astenuti. 'Prova di intelligenza' per Berlusconi che aveva fatto appello all'unita' nazionale.

07/11/2001 18:10 ANSA

GUERRA: Si' intervento italiano, scoppia un caso al Senato

ROMA - Sono 14 i senatori Ds che hanno deciso di votare contro il dispositivo comune della mozione dell'Ulivo che impegna l'Italia ad intervenire nella guerra in Afghanistan. In dichiarazioni di voto a nome di questo gruppo ha parlato Maria Chiara Acciarini che ha elencato i nomi dei dissenzienti. Polemico il vicepresidente del gruppo, Brutti: 'al Senato si e' verificato non un voto di coscienza ma una vera e propria dissociazione di una specie di sottogruppo'.

07/11/2001 20:26 ANSA

GUERRA: Voto Camera, anche Ulivo soddisfatto

ROMA - L'Ulivo accoglie con soddisfazione la scelta parlamentare bipartisan che da' il via libera all'invio di truppe italiane in Afghanistan. Non un 'assegno in bianco' per il governo, chiarisce Rutelli, che definisce tuttavia 'estremamente positivo il risultato di una decisione difficile'. E se l'ex premier D'Alema pone l'accento sul contenimento dei dissensi ('estesi dai giornali'), Fassino guarda ai Ds: 'escono dal voto con un esito 'fortemente positivo'.

07/11/2001 16:37 ANSA

GUERRA: Intervento italiano; Pecoraro, si pensi a profughi

ROMA - 'Ora si pensi ai profughi', afferma il presidente dei deputati Verdi, Pecoraro Scanio, dopo il via libera del parlamento alla partecipazione alla guerra. 'Abbiamo solo 15 giorni prima che arrivi l'inverno - prosegue - e ci si trova di fronte a una vera e propria catastrofe umanitaria'. Quanto al voto di oggi, Pecoraro Scanio considera 'significativo che 60 deputati del centro-sinistra non abbiano votato a favore dell'invio delle truppe'.

07/11/2001 20:26 ANSA

GUERRA: Forze armate sotto comando Usa

ROMA- Il Capo di Stato Maggiore della Difesa cui spetta il comando operativo delle forze militari nazionali, cui restera' comunque la piena autorita' sui nostri reparti deleghera' l'impiego delle nostre forze armate al comandante in capo delle operazioni. Al comandante Usa verranno assegnate di volta in volta le unita' individuate per incarichi precisi. Lo ha detto il ministro della Difesa, Martino, nel suo intervento alla Camera.

07/11/2001 10:15 ANSA

RUTELLI: "L'Ulivo condividerà con in governo le responsabilità della guerra"

Durante il dibattito Francesco Rutelli pronuncia il sì della Margherita, ma avverte che "quello al governo non è un mandato in bianco". Rivolto al premier, Rutelli lo invita a "conquistare la fiducia di tutti gli italiani e del Parlamento nella gestione della crisi" e concludendo l'intervento invita i colleghi a ricordare che "questo non è il momento delle fanfare, delle adunate di piazza o delle bandiere al vento ma il momento delle responsabilità, che l'Ulivo condividerà con il governo".

Repubblica on line 7/11/01

FASCISTI: "Anche noi per la guerra"

"Anche la Fiamma Tricolore di Rauti si è schierata per l'intervento. Ma con motivazioni che scatenano le proteste a sinistra e l'imbarazzo del presidente Pera. "L'intervento è doveroso - spiega il senatore Luigi Caruso - per sfatare la fama di inaffidabilità che trova radici nel tradimento operato nella seconda guerra mondiale a danno dei nostri valorosi camerati tedeschi"". (Corriere della Sera 8/11/2001)

Il ministro della Difesa Martino: "Non sara' breve"

ROMA - 'Nessuno si illude che la guerra al terrorismo possa essere breve, incruenta, limitata. Ma ci sorregge la consapevolezza che essa e' la lotta della civilta' contro la barbarie', ha detto Martino. 'Si tratta di una lotta alla quale non ci possiamo e non ci vogliamo sottrarre', per tutelare quel sistema di valori condiviso con i paesi a noi alleati e per rispondere agli interessi della nostra comunita' nazionale.

07/11/2001 11:42 ANSA

Chi si è opposto

Il no di Bertinotti alla guerra su http://www.rifondazione.it/oggi/11settembre2001/011107

No anche dei comunisti di Cossutta e dei Verdi.

De Mita: "Pacifisti imbelli"

Nell'Ulivo non tutti hanno detto si' all'intervento italiano in guerra e diversi parlamentari o non hanno preso parte al volto, o si sono astenuti o hanno dato voto contrario. Sul Corriere della Sera dell'8/11/2001 si legge: "I DS 'perdono' oltre 50 voti tra camera e senato (…) De Mita arpiona Ermete Realacci, il rutelliano presidente di Legambiente: 'Come hai votato?'. 'Non ho votato', risponde il deputato della Margherita. Ciriaco scuote la testa: 'Quello che hai fatto e' infantile… Devi crescere… Devi capire che il salto di qualita' si fa sulla politica estera'. Realacci: 'Puo' darsi che tu abbia ragione'. L'ex segretario dc: 'Non amo i pacifisti perche' sono imbelli, ma rispetto i tormentati'".

Dal vocabolario della lingua italiana si ricava che "imbelle" ha due significati: "colui che non vuole combattere" e, per estensione, "colui che è vigliacco". Abbiamo mai visto combattere o partire per la guerra uno solo dei parlamentari o dei figli dei parlamentari che votano il sì all'intervento militare italiano? Tutti imbelli...

LA GUERRA NON HA L'APPOGGIO DELLA GENTE

Abbiamo appena assistito alla votazione in Parlamento: via libera alla partecipazione italiana alla guerra, dunque.

Nessun partito che ha votato a favore della guerra si è preoccupato di spiegare la compatibilità di quel voto con l'articolo 11 della Costituzione: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione della controversie internazionali".

Andiamo in Afghanistan non per limitare ma per completare un massacro da cui gli afghani non hanno scampo.

Un giorno dovremo chiedere perdono a questo popolo.

Frontiere sigillate e inverno alle porte, abbiamo da offrire al popolo più povero della Terra solo vuota retorica e qualche pacchetto di viveri buttato sui campi minati. Gli afghani non hanno via di scampo, dovranno scegliere solo se morire di freddo lontano dalle bombe o al riparo sotto le macerie, arrostiti dalle bombe. E' difficile pensare che non ci maledicano. E' difficile pensare che non si batteranno fino all'ultimo, non per difendere il regime ma per difendere semplicemente se stessi. E' facile per converso pensare che Bin Laden diventi ciò che per gli irakeni è diventato Saddan Hussein e che nessuna alternativa politica da ora in poi potrà vincere lì. Questa guerra sarà probabilmente lunghissima e alla fine qualcuno dirà: "Questi afghani sono come i giapponesi di 60 anni fa, si arrendono solo con l'atomica". Anzi, qualcuno già lo sta bisbigliando.

La guerra per cui sventolerà quel tricolore di cui Ciampi va fiero, è un'offesa non solo alla libertà di un popolo - libertà di cui è già privato per mano di un regime oppressivo - ma è la negazione del diritto alla vita, di quella vita senza la quale è illusorio parlare di ogni aspirazione alla libertà. Noi andiamo lì dicendo di liberarli, e li massacriamo con bombe da 7 tonnellate. La guerra a cui ora ufficialmente partecipiamo come nazione è una mattanza, non dà vie di fuga: anzi i profughi afghani che dovessero scalare le montagne e navigare fino a noi sperando di sfuggire alla guerra li rispediremo a casa come sospetti terroristi.

A questa disperazione non diamo risposte: noi siamo criminali senza dubbi e senza proposte.

Ma c'è altro. I soldati italiani vengono oggi usati per la gloria e la carriera di un gruppo di politici.

C'è da dubitare che i parlamentari che hanno votato sì alla guerra manderebbero i propri figli a combattere sul campo per gli "ideali" per cui scrivono i loro discorsi.

C'è solo da sperare a questo punto che i militari italiani facciano una guerra finta, tenendo lontani i soldati italiani da un nuovo Vietnam. I militari conoscono bene ciò che ignorano tanti parlamentari che hanno scansato sia il servizio militare che il servizio civile.

Noi ci opponiamo alla guerra perché genera automaticamente nuovi terroristi, nuovi kamikaze, nuovi disperati. Questa guerra è un regalo ai terroristi. Lo hanno capito anche i più stupidi. A questa guerra si stanno opponendo anche coloro i quali all'inizio erano favorevoli. Ormai non si parla più della cattura di Bin Laden. Non potendo fare ciò che desidera, Bush desidera ciò che fa: la logica si ribalta.

E la gente se ne accorge.

I sondaggi ci dicono che il 55% degli italiani non appoggia questa guerra.

E' quindi evidente che questo Parlamento non rappresenta - almeno su tale scelta cruciale - il volere del Paese, non rispecchia l'opinione pubblica e neppure la consulta. Se ci fosse oggi un referendum consultivo apparirebbe netto lo scollamento fra classe politica e cittadini.

Noi che la guerra non la vogliamo siamo con la maggioranza degli italiani.

Attenzione: noi pacifisti siamo con la maggioranza anche se non siamo la maggioranza.

Per questo dobbiamo saper rappresentare una società civile variegata imparando a dialogare con tutti, anche e soprattutto con chi ha votato per coloro i quali hanno deciso per la guerra. Ci differenziaremo dai nostri politici che non coltivano dubbi se sapremo ascoltare i dubbi e anche le critiche. Noi pacifisti non siamo portatori della verità. Solo nel dialogo serrato e nella disponibilità all'ascolto delle diverse ragioni sapremo distinguerci e trovare le strade che conducono alla mente e alle ragioni di milioni di persone che maturano giorno dopo giorno la propria contrarietà e il proprio dubbio verso l'intervento italiano. La credibilità dei politici è in calo, quella del mondo del volontariato - di cui siamo parte - è in crescita. Siamo portatori di valori e di speranze diffuse, mentre "loro" sono portatori di interessi legati alla carriera. E ciò ci consente di vincere sulle grandi questioni ideali come quellla che abbiamo di fronte.

Ogni "settarismo pacifista", ogni orgogliosa chiusura nella "nostra verità" sarebbe la rinuncia al dialogo con tanta gente che pacifista non è ma che non è per nulla contenta di questa guerra. Dovremo saper dialogare ad esempio con tanti commercianti che non hanno sfilato da Perugia ad Assisi ma che sono oggi inviperiti per il calo delle vendite e per i contraccolpi economici della guerra.

Questo è il momento di unirci al di là degli schieramenti e delle particolarità.

Che fare?

Noi di PeaceLink faremo la nostra parte per ciò che sappiamo fare. Ecco alcune indicazioni concrete per la mobilitazione:

- cliccate su http://db.peacelink.it/volontari/search.php e cercate di unirvi con i volontari antiguerra della vostra regione e della vostra città; segnalate nel database la costituzione di comitati unitari contro la guerra;

- dopo esservi "linkati" segnalate (specificando in quale provincia operate) i vostri progetti di lavoro alla newsletter LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO di Peppe Sini; otterremo così (oltre al database dei volontari antiguerra) anche una "guida ragionata" alle idee e ai progetti per la pace; scrivete pertanto al "Centro di ricerca per la pace" (che cura la newsletter) inviando una e-mail a nbawac@tin.it e per conoscenza a info@peacelink.it

- se avete in agenda degli appuntamenti e delle iniziative segnalatele al calendario di PeaceLink

http://www.peacelink.it/appuntam/calendario.html scrivendo a Nello Margiotta animarg@tin.it

Ma c'è qualcosa di più importante che chiunque - anche il meno computerizzato - può fare contro questa guerra: creare un rapporto nuovo con il proprio portafogli.

A Natale infatti si "voterà" sulla guerra: i regali di Natale saranno la cartina al tornasole di questa guerra. Sarà il voto popolare - espresso con il portafogli - sull'andamento dell'economia, esprimerà il nostro livello di fiducia nei consumi e nel futuro, sarà la spia della non collaborazione, istintiva o coscientemente maturata. Uno stile di vita più sobrio sarebbe un duro colpo ai politici che oggi si sono imbarcati in un'avventura deprimente anche sotto il profilo economico. Gli appelli al patriottismo ("consuma per la Patria") si travestiranno di pubblicità. Chi non spenderà sarà un disfattista. E noi che dovremo fare con il nostro portafogli? Lo sapremo usare mirando con la perizia che nelle scuole militari viene insegnata ai tiratori scelti?

Alessandro Marescotti

presidente di PeaceLink

 

10 novembre: ecco perché Berlusconi ha organizzato la manifestazione pro-Usa

La manifestazione pro-Usa organizzata oggi è segno di imbarazzo, di debolezza e di inquietudine. Infatti il NO ALLA GUERRA è trasversale e tocca tutti gli schieramenti. Lo ha rivelato un sondaggio d'opinione pubblicato ieri dal Corriere della Sera che documenta un appoggio limitato al 37% degli italiani per quanto riguarda la partecipazione delle nostre Forze Armate alle azioni militari. Tale appoggio (ripartito fra sinistra, centro e destra) è minoritario a sinistra e nel centrosinistra (22% sul totale di quell'elettorato), limitato al centro (33% sul totale di quell'area politica) e si attesta su un nient'affatto plebiscitario 59% nell'ambito dell'elettorato di destra e centro-destra.

Per cui la manifestazione pro-Usa di oggi è il tentativo di raccogliere dei consensi attualmente mancanti per evitare di mostrare lo scollamento fra orientamento del Parlamento e orientamento dell'opinione pubblica.

Buoni segnali arrivano per i pacifisti: raccolgono consensi a sinistra (64 votanti su 100), al centro (39 votanti su 100) e anche a destra (26 votanti su 100): la media è del 44% sull'opinione pubblica globale. E' il segnale che il movimento per la pace ha radici non solo a sinistra ma anche al centro e nel centro-destra. La cultura dei diritti umani, messa in crisi da questa guerra, è ormai patrimonio che travalica singole identità politiche. Il "no alla guerra" e' quindi trasversale e non puo' essere bollato come antiamericanismo o come complicità con il terrorismo: le accuse ai pacifisti si ripercuotono come un boomerang su qualunque parte politica le lanciasse. Spetta ora a noi saper gestire intelligentemente questa partita e tenere in scacco i sostenitori della guerra facendo leva sulle forti contraddizioni e i deficit di consenso entro cui su muovono e su cui rischiano di inciampare e cadere rovinosamente.

Alessandro Marescotti - Peacelink 10/11/01

10 novembre: corteo pacifista batte manifestazione pro-Usa

Sulla Repubblica dell'11/11/01 si riportano le cifre: corteo pro-Usa 40 mila partecipanti, corteo pacifista 130 mila. L'Unità riporta 30 mila contro 80 mila. Altri giornali, pur con cifre differenti, confermano una partecipazione doppia al corteo per la pace del 10 novembre, svolto in contemporanea all'adunata pro-Usa voluta da Berlusconi.

Lettori dell'Unità on line: 62% no all'Italia in guerra

L'Unità on line dell'11/11/01 riportava un sondaggio fra i propri lettori: il 63% era nettamente contrario all'intervento militare italiano in guerra. Per la precisione alle ore 18 dell'11 novembre 2001 sul sito del quotidiano DS L'Unità www.unita.it avevano votato 5769 persone rispondendo alla seguente domanda:

"Navi e uomini: anche l'Italia darà il suo appoggio militare alla guerra. Sei d'accordo?" Queste le risposte con relative percentuali:

63,9% "neanche per sogno"

9,5% "prima voglio sapere dove come quando"

12,7% "sì, a malincuore"

12,4% "certo, facciamo parte dell'alleanza"

1,4% "non ho deciso"

Da notare: non si può votare due volte, infatti chi lo fa vede apparire il messaggio: "non si può votare due volte per lo stesso sondaggio".

"Rutelli, ricordati che sei stato obiettore di coscienza"

Oggi Fassino e Rutelli incontrano a Taranto i militari per esprimere sostegno alla missione di guerra in Afghanistan.

Vorrei ricordare che Francesco Rutelli è stato obiettore di coscienza e ha usufruito della legge 772/72 che consentiva un'alternativa al servizio militare. Secondo la legge (attualmente mutata nella 230/98) "gli obiettori sono coloro che per obbedienza alla coscienza, nell'esercizio del diritto alle libertà di pensiero, opponendosi all'uso delle armi, non accettano l'arruolamento nelle Forze armate e nei Corpi armati dello Stato" (articolo 1). La Lega Obiettori di Coscienza ha pertanto chiesto all'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile e al Ministero della Difesa la revoca dello status di obiettori di coscienza a tutti i parlamentari che hanno svolto servizio civile alternativo alla leva e che oggi approvano l'intervento italiano guerra, scrivendo anche agli ex obiettori ora filo-interventisti le seguenti parole: "Se volete la guerra dovete anche essere disposti a combatterla".

Francesco Rutelli viene oggi a Taranto per esprimere solidarietà verso la missione di guerra che vede coinvolta la portaerei Garibaldi. Qualche anno fa - richiedendo all'Archivio Disarmo informazioni sulla Garibaldi - ho ricevuto la documentazione che attesta che Rutelli inviò un esposto alla Procura della Repubblica in quanto la "portaelicotteri Garibaldi" veniva trasformata in portaerei all'insaputa del Parlamento, suscitando la sua viva contrarietà. Allora Rutelli era parlamentare radicale.

Sempre Rutelli ha organizzato varie manifestazioni assieme ai radicali per impedire lo svolgimento della classica parata militare a Roma il 4 novembre esponendo in più occasioni il suo punto di vista antimilitarista, mentre a Taranto viene ad esprimere il punto di vista esattamente opposto.

Infine Rutelli ha guidato le iniziative contro la base nucleare Usa della Maddalena e si è fatto fotografare steso per terra - simulando la "morte nucleare" - esponendo cartelli contro le armi atomiche. Non mi risulta che abbia espresso la sua contrarietà all'uso della armi nucleari in Afghanistan quando il governo Usa, in due occasione, ha precisato di "non escludere" l'uso dell'atomica in questo conflitto.

PeaceLink è un'associazione a-partitica e non intendo rilasciare alcun commento per questi fatti che credo parlino da soli.

Alessandro Marescotti

presidente di PeaceLink

Afghanistan: impariamo a conoscerlo

di Redazione (redazione@vita.it) 19/10/2001 Vita on line

Tutti ne parlano ma pochi conoscono le dimensioni della povertà e dei disastri che sono stati consumati su questa terra.

Impariamo a conoscerlo

Parlano i numeri, per l'Afghanistan. Un Paese che da 30 anni conosce un'incredibile erosione delle sue già modeste ricchezze. Quando si parla di guerra o di operazione di polizia internazionale, non si ha idea di cosa ci sia nel mirino. Per averla si devono far parlare i numeri, come in queste pagine. Perché i numeri disegnano anche quegli assi strategici che avevano illuso la popolazione di Kabul di aver trovato potenti alleati in grado di garantire un futuro un po' più possibile. Come quando, non molti anni fa, le compagnie petrolifere americane misero su carta un progetto che avrebbe cambiato il destino del Paese, facendolo attraversare da una linea di gasdotti e di oleodotti di rara importanza strategica. È andata diversamente. E oggi, tragicamente, l'unica ricchezza dell'Afghanistan resta la coltivazione dell'oppio, l'unica che si è salvata dal disastro causato dalla distruzione del sistema d'irrigazione.

Qui non ci sono grandi corsi d'acqua. L'asse geostrategico corre da nordest a sudovest, lungo i famosi "qânats", canali scavati secoli fa dalle popolazioni locali per raccogliere l'acqua dalle nevi sciolte dell'Himalaya. La guerra ha distrutto questa rete e ci vorranno decenni per ricostruirla.

Resta efficiente la cultura del papavero da oppio, che pure ha bisogno di tante risorse idriche, anche se i Talebani si erano impegnati la primavera scorsa a ridurre drasticamente i terreni destinati a queste coltivazioni, che oggi occupano 70mila ettari nella zona ovest del Paese, pianeggiante e relativamente irrigata. L'Onu, prima dell'11 settembre, aveva fatto una previsione di riduzione da 70 a 17mila ettari. Ma la nuova guerra ha fatto saltare tutti i piani. E, per di più, l'esercito afghano che dovrebbe prendere il potere nel caso di una caduta del regime talebano, è sempre stato favorevole alla coltivazione dell'oppio. Intanto la semina avviene ogni anno a metà ottobre e il mullah Omar, a inizio del mese, aveva diffuso l'ordine ai contadini di procurarsi le sementi.

Anche il futuro si presenta denso di inquietudini: in caso di caduta dei Talebani, si potrebbe riaprire un antico contenzioso con il Pakistan, che riguarda la linea di frontiera di 2mila chilometri, tracciata dai britannici nel 1893 e che nessun governo afghano ha mai riconosciuto. Al di là di questa linea si trovano infatti, in territorio pakistano, 11 milioni di persone di etnia pachtun, la stessa che è egemone con i Talebani a Kabul (i pachtun in Afghanistan sono il 55 per cento della popolazione). E lo spettro di un possibile nuovo stato, il "Pachtunistan", è uno spettro che terrorizza il Pakistan.

Qui da 30 anni la storia cammina all'indietro

Parlare dell'economia dell'Af-ghanistan è come evocare un fantasma. Questo territorio di 652mila chilometri quadrati, con circa 25 milioni di abitanti, almeno a credere al censimento fatto nel 1999 dai Talebani, racchiude uno dei Paesi più poveri del pianeta. In un decennio ha visto concentrarsi tutte le catastrofi immaginabili. Ai disastri delle guerre e alle conseguenze delle sanzioni Onu del 1999, si è aggiunta una siccità catastrofica. A partire dal rovesciamento del re Zahir Shah, nel 1973, e dalla salita al potere di un regime comunista di stampo sovietico, il Paese non ha più conosciuto pace. Nel 1996 l'arrivo al potere dei Talebani, sostenuti dal Pakistan, in seguito a una lotta fratricida tra i movimenti che avevano lottato contro l'occupazione sovietica, non ha messo fine alla guerra civile. E neppure ha risolto i problemi endemici di un'economia ancora primitiva.

Al contrario: gli embrioni di infrastruttura messi in opera nel periodo di re Zahir sono stati in gran parte distrutti. Il sistema educativo, chiave di un eventuale sviluppo, è stato totalmente distrutto da vent'anni di guerra. E non partiva certo da buoni livelli perché nel 1979, malgrado la possibilità offerta ai ragazzi di meno di 12 anni di andare a scuola, la metà della popolazione era ancora analfabeta. L'università di Kabul, che aveva conosciuto uno sviluppo notevole, è stata chiusa dai Talebani nel 1996. E, triste ciliegina sulla torta, alle ragazze sono state chiuse le porte di scuole e università. Così oggi l'Afghanistan ha un tasso di analfabetismo tra i più alti al mondo.

Il sistema sanitario non ha avuto una miglior sorte. La maggior parte degli ospedali sono stati distrutti. La penuria di medicine è drammatica, allorché più di 2 milioni di persone sono state ferite e mutilate durante la guerra civile. L'Afghanistan ha, anche in questo campo, i peggiori indicatori al mondo, che si tratti di mortalità alla nascita o infantile. Polio, malaria, diarrea per malnutrizione fanno strage anche perché l'accesso alle cure da parte delle donne è molto limitato: secondo la legge infatti non ne hanno il diritto. L'Organizzazione mondiale della sanità ha piazzato il Paese nella posizione numero 171su 193 nazioni.

Altra vittima della guerra, la rete di comunicazioni interna. Prima dell'invasione sovietica, e grazie all'aiuto internazionale, soprattutto quello degli Stati uniti, erano state costruiti circa 2mila chilometri di strade in asfalto e in cemento, dando al Paese un mezzo moderno di collegamento tra i principali centri urbani e industriali. Nel 1993, gli esperti delle Nazioni unite stimavano che già il 60 per cento di quelle strade aveva bisogno di un intervento.

Lo spazio aereo è ovviamente chiuso e la compagnia di bandiera, Ariana, non può volare all'estero in seguito alle sanzioni Onu del 1999. Inoltre, i suoi conti sono stati congelati, il che le impedisce di comperare il carburante per far volare i suoi apparecchi. Solo le telecomunicazioni sono state migliorate in seguito a un accordo siglato nel 2000 con imprese americane, saudite e cinesi, che ha permesso l'installazione di 12mila linee telefoniche fisse e mobili che collegano l'Afghanistan con 99 Paesi nel mondo.

Ma i progressi in questo campo non possono far dimenticare i gravissimi problemi di rifornimento energetico. Il consumo di elettricità e di gas, che è tra i più bassi al mondo, è aumentato sotto l'effetto artificiale dei bisogni di guerra. I combattimenti, in compenso, hanno danneggiato gran parte degli impianti che oggi non riescono a garantire neppure la metà del fabbisogno.

Il gas rappresentava la metà delle entrate delle esportazioni negli anni 50, ma i giacimenti, situati nel nord del Paese, non sono stati rimessi in funzione. L'Afghanistan dipende quindi più che mai dalla sua agricoltura, che rappresenta il 50 per cento del suo Pil. Ma anche qui la guerra e gli spostamenti di popolazione hanno prodotto disastri a valanga. La produzione di grano era diminuita di un terzo tra il 1979 e il 1987. L'ultimo studio realizzato nel 1988 mostrava che il 30 per cento dei terreni era stato abbandonato e che sulle terre coltivate i rendimenti erano scesi del 35 per cento per la distruzione dei canali d'irrigazione e dell'assenza di concimi e di nuove sementi.

Secondo l'allarme lanciato dalla Fao a inizio ottobre, il fabbisogno alimentare dell'Afghanistan è quantificabile in 52mila tonnellate di derrate al mese, per un ammontare di 230 milioni di dollari, contro le 500 tonnellate di aiuti al giorno distribuiti oggi. C'è inoltre da dire che, da tre anni, una siccità di proporzioni inedite ha colpito l'area che va dal Bangladesh all'Iraq. E in questi Paesi le previsioni parlano di raccolti del 37 per cento inferiori rispetto al 1999.

Uno sbocco verso est per l'oro del Caspio

La guerra, od operazione di polizia antiterrorismo, che gli americani stanno conducendo in Afghanistan ha un obiettivo primario: la liquidazione di Bin Laden. Ma non è esente da retropensieri economici e finanziari. Dal punto di vista americano, infatti, quest'area si è sempre ridotta a una questione molto semplice: come trovare uno sbocco, senza passare né per la Russia né per l'Iran, alle immense riserve di petrolio del Caucaso? Il mar Caspio è ricchissimo, ma soffre della sua mancanza di sbocchi. Dieci anni fa erano due i Paesi, situati sulla sponda occidentale del Caspio, quelli messi in miglior posizione. L'Azerbaigian e il Daghestan (una repubblica della Russia), infatti, hanno progettato due sbocchi, uno attraverso la Russia, l'altro attraverso un oleodotto che arrivi sino al porto turco di Ceyhan, di fronte a Cipro. Un progetto che gli americani sperano di veder concluso nel 2004.

Ma nel frattempo tante cose sono cambiate. E la principale riguarda la destinazione di questo petrolio. L'Europa è un continente che si caratterizza per il progressivo invecchiamento della popolazione che ha fatto una scelta strategica favorendo il gas naturale. Senza contare che mare del Nord e Russia sono fonti petrolifere più facili da raggiungere.

In realtà i mercati dell'avvenire per il petrolio sono Cina e India, con i loro 2 miliardi di consumatori. Così negli ultimi anni gli strateghi hanno iniziato a guardare agli sbocchi verso est. Sulla sponda orientale del Caspio, il Turkmenistan possiede un quinto delle riserve di gas naturale del mondo: 3mila miliardi di metri cubi. Per questo Paese esportare il suo tesoro è una questione vitale: dieci anni dopo la fine dell'Urss il suo Pil è ancora fermo al 60 per cento di quello che era ai tempi dell'impero sovietico. Ma, sempre a est del Caspio, la scoperta più grande riguarda i giacimenti di Kashagan, nel Kazakistan, e che secondo gli esperti contiene una quantità pari a quella di tutte le riserve del mare del Nord. Come portare ai grandi Paesi dell'est che ne hanno bisogno queste immense riserve di energia? In teoria un oleodotto potrebbe arrivare in Cina attraverso lo Sin Kiang, puntando tutto a est. Ma c'è da dubitare che Pechino sia pronta.

L'altra soluzione è quella che riguarderebbe l'Afghanistan come territorio di transito di un oleodotto che porta petrolio e gas verso i porti pakistani di Gwadar e di Karachi. Uno sbocco pratico che è sempre stato incoraggiato dal Dipartimento di stato Usa e dalle grandi compagnie petrolifere americane che, in questi anni, hanno cercato di allettare i Talebani davanti a questa vantaggiosa prospettiva. Secondo Ahmed Rachid, autore di un importante studio pubblicato nel marzo 2001 dalla Yale university (Militant Islam. Oil adn fundamentalism in Central Asia), la compagnia californiana Unocal aveva progettato già nel 1994 la costruzione di un gasdotto che poteva portare il gas dei giacimenti di Dauletabad, in Turkmenistan, attraverso il sud dell'Afghanistan, sino al Pakistan.

L'autore racconta: "C'erano altre compagnie in campo, come l'argentina Bridas. Ma Washington e Riad si sono impegnati per convincere tutti i diretti interessati a escludere Bridas. All'epoca Unocal aveva aperto i suoi uffici di rappresentanza nelle zone controllate dai Talebani". Come dire che Unocal, con la protezione del Pakistan, aveva siglato un accordo di principio con i Talebani nel gennaio 1998 che prevedva anche la costruzione di un oleodotto che unisse Chardzou, in Turkmenistan, a Karachi via Afghanistan. Solo quando i Talebani hanno iniziato a tessere un'alleanza troppo scoperta con Osama Bin Laden, gli americani sono stati costretti a una virata.

Così, se l'Afghanistan dovesse restare a lungo impraticabile, l'Iran dovrebbe rappresentare la soluzione più ragionevole. La repubblica islamica potrebbe offrire lo via di sbocco più breve verso i porti del Golfo e in particolare Djask, già perfettamente equipaggiati per raccogliere e imbarcare petrolio. Purtroppo per i grandi petrolieri americani, l'Iran è terra tabù a causa delle sanzioni imposte da Washington. E rimangono a osservare i concorrenti europei, in particolare Totalfina Elf, farsi largo, ritagliarsi fette di mercato, costruire raffinerie e oleodotti. Mentre l'amministrazione Bush farà di tutto, a guerra finita, per permettere ai petrolieri Usa di recuperare le posizioni perdute in questa corsa contro l'orologio sulle nuove strade del petrolio.

Quanto all'Afghanistan, custodisce anche delle discrete riserve. Negli anni 70 i geologi sovietici le avevano valutate in 170 miliardi di metri cubi concentrati nei campi attorno alla città di Shebergan, nella parte nord del Paese controllata oggi da un generale anti Talebani. Le riserve di petrolio sarebbero di 95 milioni di barili. Nel febbraio 1998 i Talebani avevano progettato di riaprire l'Afghan national oil company, ma il progetto è rimasto senza seguito.

 

Guerra: un inglese su due chiede stop a bombe

di Gabriella Meroni (g.meroni@vita.it)

30/10/2001 Vita on line

Per consentire l'aiuto umanitario agli afghani. Il consenso all'azione bellica cala anche negli Usa

Il 54% dei britannici vuole una pausa nei bombardamenti in Afghanistan per consentire un intervento umanitario. E' quanto emerge da un sondaggio riportato dal quotidiano "The Guardian". Soltanto il 29% degli intervistati è per la prosecuzione senza sosta dei bombardamenti. Scende, ma rimane consistente, la percentuale dei favorevoli all'azione militare (dal 74 al 62%). Meno entusiasmo e fiducia anche negli Usa,dove comunque l'88% resta favorevole ai raid. Solo il 28%, però, crede che bin Laden possa essere catturato; tre settimane fa erano il 38%.

 

Mary Kaldor: una guerra per soli sconfitti

di Barbara Fabiani (b.fabiani@vita.it) 26/10/2001 Vita on line

 

"Il conflitto è ciò che Bin Laden voleva. Non si sconfigge il terrorismo eliminando qualche capo". Parla la grande esperta della London school of economics Mary Kaldor, esperta di relazioni internazionali alla London school of economics, è stata tra i primi studiosi a intuire la lezione della catastrofica guerra in Bosnia: dopo la caduta dei blocchi nel 1989, il mondo ha cambiato il modo di fare la guerra. Il suo libro Le nuove guerre ha attirato l'attenzione sulle trasformazioni militari nell'epoca della globalizzazione. L'abbiamo incontrata a Perugia, durante l'assemblea plenaria dell'Onu dei popoli e le abbiamo chiesto di darci una lettura dei fatti dopo l'11 settembre. "Il presidente Bush, annunciando la reazione militare, ha detto che questa sarebbe stata "una nuova guerra"", esordisce. "Al contrario, credo si tratti di una guerra che abbiamo già vissuto in Medio oriente, nei Balcani e in Africa. Non rappresenta una rottura con il passato, è invece il culmine di molti avvenimenti nell'ultimo decennio".

Vita: Ma ci saranno pure delle differenze tra le nuove guerre e quelle passate?

Mary Kaldor: La caratteristica principale è che queste non sono più guerre tra Stati. Il conflitto coinvolge network diversi dagli Stati nazionali, un mix di soggetti, anche privati, che operano attraverso le frontiere con

molti e differenti tipi di altre reti. Altra caratteristica importante è la finalità politica della violenza. L'attentato dell'11 settembre non aveva lo scopo di ottenere una vittoria militare contro gli Stati uniti, ma di mobilitare la gente. Nelle vecchie guerre tra Stati le persone venivano mobilitate per partecipare a un annunciato sforzo bellico. Oggi è esattamente il contrario, la violenza è il primo passo per mobilitare l'opinione pubblica.

Vita: Ingenerando insicurezza sui tempi e sui modi dell'attacco, per esempio?

Kaldor: Nel caso delle reti estremiste fondamentaliste si è visto che lo scopo è proprio quello di seminare insicurezza, terrore, odio, in modo tale che tutti sentano bisogno di queste strutture terribili per proteggersi.

Un'altra cosa che abbiamo imparato da queste nuove guerre è che è difficilissimo porvi fine. Proprio perché lo scopo non è la vittoria militare ma la mobilitazione politica, dopo ogni atto di violenza l'elemento estremista è più forte, i tolleranti e i democratici vengono schiacciati, isolati ed espulsi.

Vita: Se volessimo tracciare un'ipotetica storia del terrorismo potremmo cominciare con l'Ira di Michael Collins dell'inizio del ventesimo secolo e dopo cent'anni arrivare al terrorismo di Bin Laden. Come si è evoluto il fenomeno?

Kaldor: La maggiore trasformazione del terrorismo consiste nel suo diventare transnazionale. Anche l'Ira ha cominciato a essere supportata da reti internazionali, anche negli Stati uniti, almeno fino a poco tempo fa. I network terroristici ora sono in grado di utilizzare nuove tecnologie, si avvalgono di strutture organizzative molto estese ed efficienti. Anche gli obiettivi sono progressivamente cambiati: dagli avversari politici alla popolazione civile. I nuovi terroristi sanno come utilizzare i media. Dopo l'attacco all'Afghanistan il messaggio di Bin Laden è passato nei telegiornali con la stessa visibilità data al presidente Bush e ad altri capi di Stato. In un certo senso gli attacchi aerei erano quello che voleva Bin Laden, gli hanno regalato una vittoria di propaganda straordinaria.

Vita: Parliamo dell'attacco militare. Lei che cosa ne pensa?

Kaldor: Se fossi convinta che in qualche modo l'azione militare potesse portare alla vittoria, che dietro ci fosse davvero un piano per arrivare alla cattura dei terroristi e creare un'autorità politica internazionale

che possa garantire la sicurezza al popolo afghano, allora forse potrei pensare che valga la pena portare avanti questi attacchi militari. Ma guardiamo a quello che sta accadendo: anche se i nostri governi dicono che questa non è una guerra contro il popolo afghano ma contro i terroristi e i governi che li coprono. In realtà chi vive in Afghanistan subisce il trauma dei bombardamenti, rischia quotidianamente di restare sotto le macerie e fa fatica a credere che gli attacchi non siano diretti contro di lui. I bombardamenti aerei sono un tattica tipica di queste nuove guerre. Le chiamo "guerre spettacolari" perché sono molto efficaci sul piano della politica interna. Il presidente Bush si sarebbe comportato da grande statista se all'indomani dell'attentato avesse detto ai suoi connazionali che avrebbe catturato i responsabili, ma che un attacco aereo non era lo strumento più efficace. Invece le guerre spettacolari garantiscono il migliore risultato nella politica interna, perché rassicurano sulla superiorità militare e riducono al minimo il rischio di perdite interne.

Vita: Crede ci sia pericolo di un escalation della violenza?

Kaldor: Lo temo. Stiamo correndo il rischio di una polarizzazione del conflitto su larga scala. Eppure c'è anche qualche piccolo effetto positivo di questa crisi: l'America sembra essersi aperta al multilateralismo e il presidente Bush, assieme ad altri capi di Stato, si è espresso sulla necessità di uno Stato palestinese.

Vita: Lei ha detto che queste nuove guerre sono difficili da vincere. Come fermarle, allora?

Kaldor: In questo nuovo scenario non è possibile vincere militarmente. L'unica vittoria possibile è quella politica. Questo non significa che non sia necessaria anche un'azione militare indirizzata alla cattura dei terroristi. è indispensabile catturare e processare i colpevoli in un tribunale internazionale ad hoc, come quello per la ex Jugoslavia e il Rwanda. Ma non basta. Non si sconfigge il terrorismo solo eliminando i suoi capi ma convincendo la gente a non aderirvi. Per questo è determinante il ruolo della società civile globale. Il lavoro fatto dalle organizzazioni non governative in Bosnia e in Palestina è stato eccezionale. I legami costruiti con i gruppi democratici sul campo, i tentativi compiuti dall'associazionismo sono tra i pochissimi modi in cui possiamo proteggere la politica democratica.

Vita: Secondo lei questo ruolo della società civile è sufficientemente riconosciuto a livello globale?

Kaldor: A questo proposito abbiamo qualche segnale preoccupante. Anche prima che iniziassero gli attacchi all'Afghanistan i nostri notiziari erano dominati dalla guerra contro il terrorismo, così tutte le discussioni su Genova e il movimento per una globalizzazione più giusta sembrano essere state spazzate via. Da Seattle a Porto Alegre fino a Genova, la società civile globale aveva aperto una discussione. Sarebbe una tragedia se quel dibattito dovesse finire a causa del disastro dell'11 settembre.

Contatto: Mary Kaldor (email: m.h.kaldor@lse.ac.uk)



 

Kabul, ancora bombe Usa su sede Croce Rossa

di Gabriella Meroni (g.meroni@vita.it) 26/10/2001 vita on line

 

Le bombe Usa avevano colpito i magazzini dell'Icrc a Kabul una prima volta il 16 ottobre scorso

Dopo i bombardamenti di questa notte sulla capitale afghana, che secondo i talebani hanno provocato sette vittime civili, tre magazzini della Croce Rossa sono in fiamme a Kabul dopo un nuovo raid aereo Usa.

"E' successo di nuovo. Alle 11.30 (ora di Kabul) ci sono state forti esplosioni e tre dei nostri magazzini ora sono in fiamme", ha detto a Reuters Mario Musa, portavoce dell'Icrc, il Comitato internazionale per la Croce Rossa. Musa ha detto che non ci sono al momento notizie di vittime, ma essendo il venerdì festivo ritiene che ci fossero poche persone nei magazzini. Le bombe Usa hanno colpito i magazzini dell'Icrc a Kabul una prima volta il 16 ottobre scorso. Musa ha detto che nei depositi sono contenuti rifornimenti essenziali, tende, tele cerate, coperte e altri aiuti destinati agli abitanti di Kabul, preda della miseria.

 

Afghanistan: 1500 vittime civili secondo i Taleban

Mentre continuano senza sosta i raid americani su Kandahar, la rocccaforte degli studenti islamici, i Taleban denunciano che i bombardamenti sull'Afghanistan hanno fatto fino ad ora 1.500 vittime civili. Lo ha dichirato il rappresentante del regime di Kabul in Pakistan, Abdul Zaeef, aggiungendo che l'offensiva alleata non e' diretta contro il terrorismo ma mira a "distruggere l'identita' islamica afgana".

Proprio a Kandahar - riferisce l'agenzia Adnkronos - e' stato colpito questa mattina un altro obiettivo civile, un ambulatorio della Mezzaluna rossa, l'organizzazione gemella della Croce rossa nei paesi islamici. Un medico

ferito nell'attacco ha riferito che 11 persone sono rimaste uccise e 6 ferite. Nell'istituto ospedaliero i farmaci venivano distribuiti gratuitamente. Fonti talebane denunciano anche un altro errore dell'aviazione americana

che lunedi' avrebbe causato una strage in un villaggio nei pressi di Herat, dove 13 persone sarebbero morte nell'esplosione di una bomba a frammentazione. Dal Pakistan Zaeef ha inoltre dichiarato in un'intervista alla televisione della Bbc che "Le Nazioni Unite potranno avere un ruolo nella soluzione della crisi in Afghanistan solo se agiranno in modo neutrale". Zaeef ha poi parlato dell'attuale missione del rappresentante speciale del Segretario Generale, Lakhdar Brahimi. ''Ascoltero' quello che ha da dire'' ha detto Zaeef, rimasto l'unico collegamento fra il mondo esterno ed il regime di Kabul, dichiarando di non sapere quale siano gli scopi della missione del diplomatico, ma sottolineando che ''il vecchio ruolo dell'Onu'' non potra' essere accettato dai Taleban.

Vita on line 31-10-01

 

Bombe BLU-82


Il Pentagono ha confermato che in questi giorni ha cominciato ad utilizzare in Afghanistan le bombe BLU-82, ovvero l'arma piu' potente (escludendo le armi nucleari) dell'arsenale statunitense.

Si tratta di una bomba grande quanto un'utilitaria e che puo' arrivare a pesare 7 tonnellate; per questo non puo' essere lanciata da un normale bombardiere, ma da un aereo da trasporto particolarmente attrezzato

(generalmente un C130) e mediante un paracadute. E' nota col soprannome di "Daisy Cutter" (taglia-margherite) perche', esplodendo a pochi metri dal suolo, incenerisce tutto quello che si trova nel raggio di centinaia di metri e le schegge vengono sparate intorno tagliando anche l'erba. Furono utilizzate per la prima volta in Vietnam per preparare le zone di atterraggio degli elicotteri; in seguito ne furono lanciate 11 durante la guerra del Golfo allo scopo ufficiale di sminare i campi minati, in realta' soprattutto per terrorizzare le truppe irachene e convincerle ad

arrendersi o a disertare. Di fronte alle critiche sul fatto che, in effetti, queste bombe per la loro potenza devastante sono una violazione dei trattati sulle armi convenzionali, gli USA in passato hanno risposto che venivano utilizzate o per preparare una zona di atterraggio o per sminare un campo minato, ma non contro persone. Come pero' ha confermato il Generale Pace (si', si chiama proprio cosi'...) dei Marine Corps, in Afghanistan ne sono state lanciate gia' due direttamente contro le truppe dei Taliban.

Francesco Iannuzzelli francesco@href.org

Associazione PeaceLink - sez. disarmo

http://www.peacelink.it/tematiche/disarmo

 

 

Bombe a grappolo gialle, aiuti alimentari gialli: la confusione "umanitaria"


Il Pentagono ha annunciato che le razioni di cibo lanciate alla popolazione in Afghanistan cambieranno colore e non saranno più gialle, per evitare che vengano confuse con le bombe a grappolo inesplose.

In futuro le razioni di cibo, chiamate Humanitarian Daily Ration (Hdr) saranno colorate probabilmente di blu, anche se una decisione definitiva non è ancora stata presa.

Ci vorrà un po' di tempo perché il cambio diventi effettivo: ci sono ancora molti pacchetti di cibo gialli, del vecchio tipo, pronti per essere lanciati alla popolazione dell'Afghanistan. Dal 7 ottobre, data in cui è iniziata la campagna aerea sul Paese, ne sono stati lanciati oltre un milione, ha detto il generale dell'aviazione Richard Myers.

Per colore e dimensioni, le razioni di cibo lanciate alla popolazione e le bombe a grappolo sono molto simili e rischiano di essere confuse. Le bombe a grappolo sono in metallo, hanno la stessa forma di una lattina da

bibita e sono piene di potenti esplosivi. Le razioni di cibo sono rettangolari, sono ricoperte da una plastica gialla e contengono un pasto del valore di duemila calorie. Le dimensioni sono quasi le stesse delle bombe. Già dall'inizio della settimana, il timore che potessero essere confuse dalla popolazione ha indotto il Pentagono a lanciare avvertimenti via radio e attraverso una serie di volantini.

Bombe a grappolo sotto accusa

L'uso delle bombe a grappolo è stato più volte denunciato dalle organizzazioni umanitarie perché tali bombe rischiano di uccidere soprattutto civili. Di solito, una su dieci rimane inesplosa al suolo e diventa un pericolo concreto soprattutto per i bambini, che sono attirati dai loro colori brillanti.

Il governo americano e britannico tuttavia continuano a difenderne l'utilizzo nell'azione militare. In Afghanistan, le bombe a grappolo vengono usate contro i talebani lungo la linea del fronte.

Il lancio delle razioni di cibo in aiuto dei civili afgani è stato uno degli elementi chiave su cui l'amministrazione Bush ha insistito dall'inizio del conflitto a conferma del fatto che l'azione militare non fosse diretta contro

il popolo afgano, ma contro i terroristi che si trovano nel Paese.


Vita on line 2-11-01

 

AFGHANISTAN - Cibo o bombe a grappolo?

LAURA FLANDERS *

Alcuni lettori si sono offesi qualche settimana fa quando ho usato della fantasia - strumento indispensabile del giornalismo - per fare due più due e suggerire che per quanto riguarda l'assalto Usa sull'Afghanistan, gli aiuti alimentari e le bombe non andavano d'accordo.

Ora, purtroppo, non c'è dubbio che molti dei pacchetti alimentari che le forze Usa hanno paracadutato siano cadute in mani sbagliate e alla quarta settimana di bombardamenti per la missione Usa, il Programma per l'alimentazione mondiale dell'Onu sta dicendo che le prime nevicate - attese intorno al 15 novembre - bloccheranno i passaggi montani e le strade, rendendo difficile la consegna degli aiuti umanitari.

I funzionari di soccorso sul campo temono che se i bombardamenti non verranno sospesi abbastanza a lungo da permettere a un sufficiente numero di convogli di arrivare nel paese, milioni di civili afghani moriranno di fame: "Milioni, letteralmente milioni, di civili afghani moriranno di fame quest'inverno a meno che le forze armate Usa non sospendano gli attacchi e consentano all'Onu di ristabilire un'efficace distribuzione di aiuti alimentari" ha dichiarato Sarah Zaidi, direttrice e ricercatrice del Centro per i diritti economici e sociali in Pakistan, all'Istituto per la correttezza pubblica lo scorso fine settimana. Il gruppo di Zaidi ha prodotto tre relazioni complete sull'Afghanistan dall'11 settembre.

Intanto, l'Onu ha lanciato l'allarme per l'uso delle bombe a grappolo da parte dei veivoli statunitensi. Secondo una relazione pubblicata venerdì, sul News International in Pakistan, la settimana scorsa le bombe a grappolo Usa hanno ucciso otto persone a Shaker Qala, un villaggio a Herat.

Le bombe a grappolo sono sganciate in una valigia che si apre in volo, lanciando 200 bombe grandi quanto una lattina di bibita su un'area grande quanto un campo di football americano. Servono a distruggere veicoli, appiccare fuoco e anche come arma anti-uomo. A volte scendono con piccoli paracadute pensati per evitare che esplodano con l'impatto e impedire al nemico di utilizzare l'area come campo da atterraggio. (Shaker Qala, ci è stato riferito, è vicino a un campo militare). "Gli abitanti del villaggio hanno molti motivi per aver paura, perché queste bombe, se non esplodono, sono pericolosissime", ha dichiarato al News Dan Kelly, manager del programma Onu per la bonifica dalle mine in Afghanistan. "Possono esplodere se gli abitanti del villaggio le sfiorano soltanto".

E infine, questa notizia è della Bbc: "Gli Usa stanno cercano di scongiurare ulteriori critiche sull'uso delle bombe a grappolo in Afghanistan avvisando i civili afghani a non confondere le bombe inesplose con gli aiuti alimentari".

La Bbc (domenica 28 ottobre) ha riferito che le bombe a grappolo gialle con cui gli Usa stanno attaccando l'Afghanistan "possono essere confuse, da lontano, con i pacchi di aiuti alimentari avvolti in plastica gialla che gli aerei statunitensi hanno paracadutato nelle ultime settimane".

La fonte del servizio della Bbc era una trasmissione radio delle operazioni psicologiche (psy-ops) Usa. Bbc monitoring, un servizio sito nel sud dell'Inghilterra, seleziona e traduce informazioni dalla radio, televisione, stampa, agenzie stampa e internet di 150 paesi in oltre 70 lingue, comprese le trasmissioni psy-ops.

Secondo la Bbc, le forze armate Usa stanno utilizzando la radio per rassicurare gli afghani in Dari e Pashtu - due delle cinque lingue regionali. I messaggi psy-ops svelano anche preoccupazioni statunitensi.

"Attenzione, nobili cittadini afghani", inizia il messaggio. "Come sapete, i paesi della coalizione hanno lanciato per voi delle razioni di cibo quotidiane, dentro buste di plastica gialle. Hanno forma rettangolare o di un quadrato allungato. Il cibo al loro interno è Halal altamente nutritivo". Nelle operazioni future, dicono a psy-ops, "le bombe a grappolo non verranno lanciate dove si lancia cibo. E comunque, non vorremmo vedere un civile innocente portarsi via per errore una bomba credendo che contenga cibo. Anche le bombe sono gialle. Non confondete la forma a cilindro delle bombe con quella rettangolare del cibo", finiva il messaggio.

Vorrei solo avere inventato questa storia.

*Laura Flanders, giornalista americana, scrive sul quotidiano WorkingForChange, ha scritto "Real Majority, Media Minority: The Cost of Sidelining Women in Reporting" (Maggioranza numerica, minoranza mediatica: giornaliste in panchina) Laura@lauraflanders.com

(Traduzione di Camilla Lai)
Il Manifesto 2/11/01

 

Armi biologiche, ora Bush ci ripensa

Chiesti nuovi accordi internazionali (rifiutati pochi mesi fa da Washington). E l'antrace s'allarga fino in Lituania Contagio più vasto Le spore partono dalla East Coast e approdano nel MidWest e in Europa. Mistero sulla donna morta a New York. "Non possiamo garantire la sicurezza" E. N.

Mentre nuovi casi di contaminazione da spore di antrace vengono segnalati qua e là attraverso gli Stati uniti - ormai non più solo sulla East Coast - il presidente Bush ha deciso di compiere un'inversione politica di 180 gradi e rilanciare l'ipotesi di grandi accordi internazionali contro le armi biologiche, quando solo pochi mesi fa il suo governo aveva boicottato la creazione di una nuova convenzione mondiale in materia.

Bush propone ora di mettere al bando qualunque attività legata alle armi batteriologiche, configuradola e perseguendola a tutti gli effetti come reato: secondo il presidente, l'iniziativa dovrebbe essere condivisa da tutti i paesi del mondo che aderiscono alla Convenzione dell'Onu contro le armi biologiche del 1972, i quali sono sollecitati a "promulgare a livello nazionale una severissima legislazione penale" comprendente anche requisiti stringenti per consentire l'eventuale estradizione dei colpevoli. Inoltre, aggiunge Bush nel documento diffuso ieri, occorre mettere a punto una "rigorosa procedura nell'ambito delle Nazioni unite" per indagare su "sospetti attacchi batteriologici" o anche su mere "asserzioni riguardanti l'uso di tali armi". La convenzione ripudiata quest'anno da Washington doveva riguardare appunto il controllo sugli impianti capaci di produrre agenti batteriologici: il rifiuto di andare avanti, all'epoca, era stato motivato con l'impossibilità di compiere dei controlli credibili (ma molti avevano pensato che gli Usa volessero in realtà evitare degli imbarazzanti controlli in casa propria). (...)
Il Manifesto 2/11/01

 

"C'E' QUALCOSA DI IMMORALE IN QUESTA GUERRA" - REPORTAGE DEL CORRIERE DELLA SERA

Di Tiziano Terzani

Corriere della sera 31 ottobre 2001

PESHAWAR - Sono venuto in questa città di frontiera per essere più vicino alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di farmene una ragione; ma, come fossi saltato nella minestra per sapere se è salata o meno, ora ho l'impressione di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di follia umana che, con questa guerra, sembra non avere più limiti. Passano i giorni, ma non mi scrollo di dosso l'angoscia: l'angoscia di prevedere quel che succederà e di non poterlo evitare, l'angoscia di essere un rappresentante della più moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del mondo ora impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più povero della Terra; l'angoscia di appartenere alla razza più grassa e più sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già stracarico fardello di disperazione della gente più magra e più affamata del pianeta. C'è qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di stupido - mi pare - in tutto questo. A tre settimane dall'inizio dei bombardamenti anglo-americani dell'Afghanistan la situazione mondiale è molto più tesa ed esplosiva di quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani e palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan e India sono sul punto di rottura; l'intero mondo islamico è in agitazione e ogni regime moderato di quel mondo, dall'Egitto all'Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante pressione dei gruppi fondamentalisti.

Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei commandos, mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per farci credere che la guerra è solo un videogame, i talebani sono ancora saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all'interno dell'Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo il senso della nostra sicurezza.

"Sei musulmano?", mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare una focaccia di pane azzimo.

"No".

"Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti".

Attorno tutti ridono. Sorrido anch'io.

Lo chiamano Kissa Qani, il "bazar dei raccontastorie". Ancora una ventina d'anni fa, era uno degli ultimi, romantici crocevia dell'Asia pieno delle più varie mercanzie e varie genti. Ora è una sorta di camera a gas con

l'aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre più in mal arnese a causa dei tantissimi rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie storie che ci si raccontavano c'era quella di Avitabile, un napoletano soldato di ventura arrivato qui a metà dell'Ottocento con un amico di Modena e diventato governatore di questa città. Per tenerla in pugno, ogni mattina all'ora di colazione faceva impiccare un paio di ladri dal minareto più alto della moschea e per decenni ai bambini di Peshawar è stato detto: "Se non sei buono, ti do ad Avitabile". Oggi le storie che si raccontano al bazar sono tutte sulla guerra americana.

Il soldato di ventura e il medico afghano.

Alcune, come quella secondo cui l'attacco a New York e Washington è stato opera dei servizi segreti di Tel Aviv - per questo nessun israeliano sarebbe andato a lavorare nelle Torri Gemelle l'11 settembre -, e quella

secondo cui l'antrace per posta è una operazione della Cia per preparare psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein, sono già vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a essere credute. L'ultima è che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non riescono a piegare l'Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di dollari sulla gente. "Ogni missile costa due milioni di dollari. Ne hanno già tirati più di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti quei soldi, i talebani non sarebbero più al potere", dice un vecchio rifugiato afghano, ex comandante di un gruppo di mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me.

L'idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere generosi con chi sia disposto a schierarsi dalla loro parte è diffusissima. Giorni fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunità afghana in esilio si sono riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Peshawar per discutere del futuro dell'Afghanistan "dopo i talebani". Per ore e ore dei bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni occidentali - si sono avvicendati al microfono a parlare di "pace e unità", ma nei loro discorsi non c'era alcuna passione, non c'era alcuna convinzione. "Son qui solo per registrare il loro nome e cercare di raccogliere fondi americani", diceva un vecchio amico, un intellettuale pakistano, di origine pashtun come quella gente. "Ognuno guarda l'altro chiedendosi "e tu quanto hai già avuto?". Quel che gli americani dimenticano è un nostro vecchio proverbio: un afghano si affitta, ma non si compra".

Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per quella che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione politica del problema afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un governo in cui tutti fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani moderati - e mandare l'esercito del nuovo regime a caccia degli uomini di Al Qaeda, risparmiando così il lavoro e i rischi ai soldati della coalizione.

Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie quando questo terreno è l'Afghanistan.

Già l'idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent'anni, possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è una illusione di chi crede di poter rifare il mondo a tavolino, è una pretesa di quei diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana -

gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto vedere, il suo non aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una indicazione di indifferenza per la sofferenza del suo popolo. "Bastava che al tempo

dell'invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in mano ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo rispetterebbero - dice l'amico - ... e poi, poteva almeno l'anno scorso essere andato in pellegrinaggio alla Mecca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po' di rilievo anche dal punto di vista religioso".

A parte il re, l'altro uomo su cui gli americani contavano per il loro gioco era Abdul Haq, uno dei più prestigiosi comandanti della resistenza anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che seguì. "Non è

qui. E' andato in Afghanistan" si diceva durante la conferenza di Peshawar, alludendo ad una "missione" che sarebbe stata decisiva per il futuro. L'idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo grande

ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe staccato dal regime del Mullah Omar alcuni comandanti regionali e avrebbe potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la capitale fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i pakistani non vogliono assolutamente vedere al potere.

La "missione" di Abdul Haq non è durata a lungo. I talebani lo hanno seguito appena quello è entrato in Afghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno catturato e nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un "traditore" assieme a due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura elettronica ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a salvarlo.

Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che sotto la pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si creasse un vuoto di potere. Ma tutto questo non è successo. Anzi. Ogni indicazione è che i talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano giornalisti occidentali che si avventurano oltre la frontiera e fanno sapere, per scoraggiare altri tentativi, di non avere più spazio, né cibo per detenerne altri. "Le varie inchieste sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo la sharia, la legge coranica", dicono, come farebbe un qualsiasi stato sovrano. I talebani passano decreti, fanno comunicati per smentire notizie false e continuano a sfidare la strapotenza americana non cedendo terreno e promettendo morte agli afghani che si schierano con il nemico.

Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri, fa sì che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il loro regime, ora si schiera dalla loro parte. "Quando un melone vede un altro melone, ne prende il colore", dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo come invasori, gli afghani diventano sempre più dello stesso colore.

Per gli americani, già sotto enorme pressione internazionale per la stupidità delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su gente inerme e di nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s'è

rivelata un completo fallimento, quella politica uno smacco. Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama Bin Laden, "vivo o morto", e hanno presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il Mullah Omar, capo dei talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare il regime, ma finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche centinaio di vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città già ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti.

Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza tetto, si aggirano nelle montagne del paese e si aggiungono ai sei milioni che, sempre secondo le Nazioni Unite, erano già "a rischio" per mancanza di cibo e protezione prima dell'11 settembre.

"Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un funzionario internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che fare col terrorismo, quelli che non leggono i giornali, che non guardano la Cnn. Molti di loro non sanno neppure che cosa è successo alle Torri Gemelle".

Quel che tutti sanno invece è che bombe, le bombe che giorno e notte distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un costante terremoto, le bombe sganciate dagli aerei d'argento che piroettano nel cielo di lapislazzulo dell'Afghanistan, sono bombe inglesi e americane e questo coagula l'odio dei pashtun, degli afghani e più in generale dei musulmani contro gli stranieri. Ogni giorno di più l'ostilità è ovvia sulla faccia

della gente.

Ero andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla manifestazione pro-talebani che si tiene di routine nella vecchia Peshawar dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l'amico pashtun mi aveva avvertito che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. "I duri non marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi", m'aveva detto. L'ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti universitari che in quella regione sembrava conoscessero tutti e tutto, ho gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non è misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo capire a fondo se

vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti.

La regione in cui sono stato è a due ore di macchina da Peshawar, a mezza strada dal confine afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui la frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un

funzionario inglese - non esiste. Dall'una e dall'altra parte di quella innaturale divisione politica fra

identiche montagne vive un'identica gente: i pashtun (detti anche pathan) che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un Pashtunstan, uno stato che aggreghi tutti i pashtun non è mai completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri dell'Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscirono mai a sconfiggere. "Un pashtun ama il suo fucile più di suo figlio - dicevano dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maestà -. Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come bambini". I talebani sono pashtun e quasi esclusivamente pashtun sono le zone in cui ora cadono le bombe americane. "Mio padre è sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i bombardamenti anche lui parla come un talebano e sostiene che non c'è alternativa alla jihad", diceva uno dei miei studenti, mentre lasciavamo Peshawar.

La strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In lontananza le prime montagne. Sui muri bianchi che dividono i campi, spiccavano grandi slogan dipinti di fresco. "La jihad è il dovere della nazione", "Un amico degli americani è un traditore", "La jihad durerà fino al giorno del giudizio". Il più strano era: "Il profeta ha ordinato la jihad contro l'India e l'America".

Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e quattrocento anni fa, l'India e l'America esistessero già. Ma è appunto questa accecante mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed a creare, attraverso la più semplicistica e fondamentalista versione dell'Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po' troppo avventatamente, di venirci a confrontare.

"Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una bomba, prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto lì, nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno morire così?". Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi da dove, presentandomi, ho detto di venire, apre un giornale in Urdu e ad alta voce legge una breve notizia in cui si dice che anche l'Italia si è offerta di mandare navi e soldati e il mio interlocutore personalizza la sua sfida: "...e voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?". Siamo in una sorta di rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di chilometri dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un sole in cui è scritto "Jihad". Attorno al "dottore" che mi parla si sono riuniti una decina di giovani: alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per andare. Uno è appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti.

Dice che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo, scappano e non osano combattere faccia a faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei bombardamenti di Jalalabad, muoiono ora dall'altra parte del confine per mancanza delle più semplici cure.

L'atmosfera è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono assolutamente convinti che quella in corso è una grande congiura-crociata dell'Occidente per distruggere l'Islam, che l'Afghanistan è solo il primo obbiettivo e che l'unico modo di resistere è per tutto il mondo islamico di rispondere all'appello per la guerra santa. "Vengano pure gli americani, così ci potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - dice uno dei giovani - a voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non sconfiggerete mai l'Islam".

Come non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a uccidere innanzitutto degli innocenti e con ciò ad aizzare ancor più un cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella direzione sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che con ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre di più dalla via di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della jihad, quella fra me e me è continuata per il resto della notte, passata insonne a tenermi lontano le zanzare. Certo che non è invidiabile una società come quella che produce dei ragazzi così ottusi e disposti a morire. Ma lo è forse la nostra? Lo è quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che - il sospetto cresce - mettono l'antrace nelle buste spedite a mezzo mondo? Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una società carica d'odio. Ma è da meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell'Asia Centrale, bombarda un paese che vent'anni di guerra han già ridotto ad una immensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro modo di vivere, si debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni, che differenza c'è fra l'innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le bombe a Kabul?

La verità è che quelli di New York, sono i "nostri" bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri centomila bambini afgani che, secondo l'Unicef, moriranno quest'inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini "loro". E quei bambini loro non ci interessano più. Non si può ogni sera, all'ora di cena, vedere sullo schermo della tv di casa un piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già visto tante volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo già abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano i loro corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l'attenzione è già stata anche troppa.

Eppure l'Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la forza della armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi.

"Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna costruire la difesa della pace", dice il preambolo della costituzione dell'Unesco. Perché non provare a cercare nelle nostre menti una soluzione che non sia quella brutale e banale di altre bombe e di altri morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non appunto quella della nostra mente, e ancor meno quella della nostra coscienza, mi dicevo insonne tentando sempre di scacciare le zanzare.

La notte è fortunatamente breve. Alle quattro la voce metallica di un altoparlante comincia a salmodiare dall'alto di un minareto vicino; altre rispondono in lontananza. Partiamo.

Nella hall dell'albergo dove arrivo a fare colazione è già accesa la televisione. La prima notizia, all'alba, non è più la guerra in Afghanistan, ma l'annuncio fatto a Washington del "più grande contratto di forniture belliche nella storia del mondo".

Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione della nuova generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000 pezzi per un valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei entreranno in funzione nel 2012.

Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel 2012 avranno giusto vent'anni e mi torna in mente una frase dell'invasato "dottore": "Se gli americani vogliono combatterci per quattro anni, noi siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo pronti".

E noi ? Questo è davvero il momento di capire che la storia si ripete e che ogni volta il prezzo sale.

 

UNO STRACCIO DI PACE

www.emergency.it

From: "ketty" <ketty@emergency.it>

 

Siamo pericolosamente vicini alla guerra. Questo vuol dire che degli italiani potrebbero anche uccidere dei civili, la maggior parte dei quali donne e bambini e, a loro volta, essere uccisi. Siamo sicuri che molti di noi non vogliono che ciò accada. Noi vogliamo poter dire che siamo contrari, e vogliamo che chiunque ci veda sappia che siamo contrari alla guerra. Per farlo useremo un pezzo di stoffa bianco: appeso alla borsetta o alla ventiquattrore, attaccato alla porta di casa o al balcone, legato al guinzaglio del cane, all'antenna della macchina, al passeggino del bambino, alla cartella di scuola... Uno straccio di pace. E se saremo in tanti ad averlo, non potranno dire che l'Italia intera ha scelto la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Sappiamo che molti sono favorevoli a questa entrata in guerra. Vogliamo che anche quelli che sono contrari abbiano voce. Emergency chiede l'adesione di singoli cittadini, ma anche comuni, parrocchie, associazioni, scuole e di quanti condividono questa posizione.

 

Diffondere questo messaggio è un modo per iniziare.

 

Grazie

Emergency

 

 

 

Fonti:

www.ansa.it

www.corriere.it

www.emergency.it

www.ilmanifesto.it

www.peacelink.it

www.vita.it

 

 

DOMANDE E RISPOSTE

 

Quando è stato lanciato l'attacco Usa?

Alle 18.39 del 7 ottobre 2001 l'agenzia Reuter ha dato la prima informazione a livello mondiale sull'attacco Usa con missili cruise e aerei in Afghanistan. Hanno collaborato anche aerei britannici. "Il popolo afghano conoscerà la generosità del popolo americano", ha detto il presidente Bush alle 19, ora italiana nella conferenza stampa subito dopo l'attacco. "Londra e Washington, intanto, ipotizzano una loro permanenza in Afghanistan dopo che il conflitto si sarà concluso, con una forza di pace composta da migliaia di militari" (RAI Televideo 7 ottobre 2001).

 

Cosa sostiene il governo americano?

"Gli Stati Uniti non hanno dubbi sulla responsabilità di Osama Bin Laden negli attentati di martedì scorso, ma ci vorranno anni per avere la meglio. Lo ha detto il vicepresidente Cheney, nella sua prima intervista pubblica dagli attacchi a New York e Washington". (RAI Televideo 16/9/2001)

Sul Corriere della Sera del 16/9/2001 è riportata una dichiarazione di Madeleine Albright, ex segretario di Stato americano: "Non è ancora chiaro che si tratti davvero dell'opera di Osama Bin Laden. Ma è certo che questo terrorista sta ricevendo aiuti in Afghanistan. E' importante per noi e i nostri alleati ritenere responsabili per quello che sta succedendo coloro che offrono rifugio ai terroristi. E' giunto il momento di prendere posizione". In seguito gli Stati Uniti hanno detto di aver raccolto le prove contro Bin Laden ma non le hanno divulgate, considerandole segreto militare.

 

Questa guerra mette a rischio i civili?

"Il presidente Bush ha dichiarato di avere dato l'ordine dell'azione solo dopo avere fatto 'molta attenzione' e avere detto 'molte preghiere'. (ANSA 07/10/2001 ore19:44). Ma contemporaneamente il dottor Gino Strada, responsabile di Emergency presente in Afghanistan per assistere i profughi, ha dichiarato che "il 90% delle vittime, come in tutte le guerre degli ultimi anni, saranno civili" (fonte: www.unimondo.org). Il dottor Strada è attualmente nell'ospedale di Emergency ad Anabah (ottanta chilometri a nord-est di Kabul); intervistato la notte del 7 ottobre ha detto: "Saranno proprio queste persone, i civili, le prime vittime di questi assurdi bombardamenti (…) Dal fronte giungeranno nuovi feriti. Già accede sempre, domani un po' di più. Si dovrebbe venire in questi avamposti per rendersi conto dell'orrore della guerra, delle mutilazioni che produce tra la gente, delle stragi senza fine fra i civili (…) Vorrei che si riuscissero a salvare più vite umane possibili. Vorrei che il mondo dicesse no all'assurdità della guerra". (Liberazione 8/10/01)

La guerra annunciata è la causa dell'ondata di profughi?
Sì, l'Onu calcolava i profughi - prima dell'attacco Usa - in un numero variabile da un milione a due milioni; la situazione si è aggravata e il 10 ottobre si valutava una quantità di profughi compresa fra i 5 e i 6 milioni. Dalle notizie emerse il 4 ottobre sembra che si stia diffondendo una malattia contagiosa simile all'ebola. La catastrofe umanitaria coincidente con questa guerra annunciata sta diventando un problema e c'è da attendersi che ogni parte in causa scaricherà sull'altra parte la responsabilità del dramma in corso. Su Rai Televideo del 4 ottobre, ore 19, appariva la notizia che il presidente Bush aveva promesso di stanziare 320 miliardi di dollari (circa 720 mila miliardi di lire) per i profughi; sul TG1 di un'ora dopo il cronista parlava di 320 milioni di dollari, una somma mille volte inferiore (corrispondente a circa 750 miliardi di lire).

 

Gli Stati Uniti stanno compiendo voli per inviare cibo e medicinali ai profughi?

Sì, ma si tratta di 37 mila razioni al giorno per una quantità di profughi che oscilla tra i 5 e i 6 milioni di persone, raggiungendo solo lo 0,6%. Inoltre il 10 ottobre la Croce Rossa tedesca ha osservato che il lancio dei pacchi rischia di far dirigere i profughi verso zone minate mentre Medici Senza Frontiere ha criticato la diffusione di medicinali senza la necessaria assistenza medica a popolazioni che non conoscono le istruzioni d'uso dei medicinali stessi.

 

Quanti profughi ha generato l'attuale attacco militare?

Circa 6 milioni di profughi sono attualmente "sigillati" in Afghanistan, cercando di uscire dai confini, ma è quasi impossibile per un blocco interno ed esterno delle frontiere. Secondo l'Unicef 100.000 bambini sono destinati a morire all'arrivo dell'inverno se non arrivano aiuti umanitari (RAI Televideo 16/10/01). I lanci di viveri da aerei americani (37.000 pacchi) contengono burro di noccioline anziché riso e vengono lanciati nelle zone vicine alle postazioni televisive e non nelle zone dove sono i profughi, secondo quanto scrive Le Monde (16/10/01).

 

Esistono diverse posizioni nello staff del presidente Bush?

Sì. A premere per una immediata azione militare subito dopo gli atti terroristici dell'11 settembre sono stati i civili come Cheney per dare all'opinione pubblica e ai media un'immagine di forza e non di debolezza. Tali posizioni da "falchi" sono riassumibili nella posizione di Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa (www.analisidifesa.it) e consulente presso il Casd (Centro Alti Studi Difesa) il quale ha affermato: "Il vero effetto deterrente è colpire in maniera devastante i regimi che supportano il terrorismo, altrimenti è inutile (…) Ci siamo cullati nell'idea della guerra umanitaria e ora questo sogno si è rotto. La guerra è spietata e l'America l'ha capito e sta costringendo tutti a prendere una posizione e non prenderla significa prenderla in senso opposto" (Corriere del Giorno 17/9/01). Hanno invece frenato i militari statunitensi capeggiati dal generale Powell, ora segretario di stato. Per loro l'efficacia dell'attacco militare è stata fino all'ultimo dubbia (si veda l'articolo del consigliere Luttwak in appendice). Powell punta ad un'azione a lungo termine che raccolga una ampia coalizione internazionale. Powell ha dichiarato che tale coalizione è basata su una campagna politica, diplomatica e finanziaria, specificando il 4 ottobre che "c'è una componente militare che non è ancora stata usata e che sarà decisa, al momento opportuno, dal presidente Bush" (RAI Televideo). Il 7 ottobre l'attacco militare è stato presentato dal presidente Bush come un attacco non al popolo afghano (a cui ha promesso il lancio di cibo e medicinali) ma ai talebani. Secondo alcuni analisti l'opinione pubblica americana stava dando segni di impazienza di fronte alla tattica "attendista" dell'amministrazione Bush che rinviava di giorno in giorno l'attacco militare.

Che cosa ha frenato fino al 7 ottobre l'azione militare?

Oltre alle esigenze di stringere accordi diplomatici e di ottenere supporti logistici alternativi al Pakistan, vi è stato il cattivo andamento della borsa che è scesa quando si profilava l'attacco ed è salita quando la guerra non veniva annunciata.

Le informazioni che riceveremo saranno attendibili o saranno sottoposte alla censura militare?

Scrive Federico Fubini su Limes: "Dice Bush ai giornalisti, con un'affermazione che in altri momenti sarebbe costata cara: "Lasciatemi porre condizioni alla stampa nel modo seguente: qualunque fonte e metodo di informazione resterà protetto e segreto. La mia amministrazione non parlerà di come raccogliamo le informazioni, se lo facciamo e cosa esse dicano" (…) In questo quadro si pongono per esempio gli interrogativi su cosa può o non può un organo di stampa riportare sulle posizioni dei terroristi senza farsi strumento della loro propaganda (…) Dare la parola al portavoce taliban in grado di far cadere le Borse europee con due frasi, dev'essere ancora consentito?". (Limes supplemento n.4/2001)

 

Bin Laden ha rivendicato gli attentati dell'11 settembre negli Stati Uniti?

"Il miliardario saudita Osama Bin Laden ha smentito di essere implicato negli attentati a New York e a Washington. "Gli Stati Uniti puntano il dito contro di me, ma affermo categoricamente che non sono stato io", ha detto Bin Laden in un comunicato all'Aip, l'agenzia di stampa dei Taleban con sede in Pakistan. I leader religiosi hanno richiesto agli Stati Uniti le prove del coinvolgimento di Bin Laden". (RAI Televideo 16/9/2001)

Subito dopo l'attacco americano, nella notte del 7 ottobre, è però apparso Bin Laden in una TV vicina per dire a questo proposito: "Quello che è accaduto negli Stati Uniti è la reazione naturale alla politica cieca degli americani. Se l'America continua con questa politica i figli dell'Islam non fermeranno la loro lotta. Gli Stati Uniti sono stati colpiti da Dio in uno dei suoi punti più deboli. L'America adesso è spaventata da Nord a Sud, da Ovest a Est. Grazie Dio per questo. Ringrazio Dio per la distruzione dei simboli dell'America. Ciò che l'America ha assaggiato oggi è pochissimo rispetto a quello che abbiamo provato noi. Da 80 anni questa nazione musulmana e araba vede ogni tipo di umiliazione. Un gruppo di musulmani d'avanguardia sono riusciti a far provare all'America ciò che noi abbiamo provato". Il capo dell'organizzazione terroristica Al Qaeda ha giurato che "l'America non vivrà in pace prima che la pace regni in Palestina". (7 ottobre 2001 Corriere della Sera on line)

Vi è poi stata una successiva intervista a Bin Laden pubblicata sul settimanale in lingua urdu "Takbir" di cui ha dato notizia l'agenzia kuwaitiana "Kuna" da Islamabad. Si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 12/10/2001: "Rispondendo ad una precisa domanda, Bin Laden ha negato qualsiasi coinvolgimento di "alcuno dei suoi compatrioti negli attacchi suicidi contro gli Stati Uniti" affermando che l'Islam vieta di uccidere persone innocenti" e che né egli "né alcuno dei suoi compagni potrebbero osare violare gli insegnamenti dell'Islam"." Sul sito Internet della Repubblica il giorno 11/11/2001 si fa invece riferimento ad un video mai trasmesso - visionato da un giornale di fama internazionale - in cui vi sarebbe un'esplicita ammissione di responsabilità di Bin Laden in merito agli attentati dell'11 settembre.

 

Qual è la posizione del governo afghano?

L'ambasciatore afghano in Pakistan, Abdul Salam Zaeef, aveva inizialmente escluso qualsiasi responsabilità di Bin Laden mostrando tuttavia disponibilità verso una sua eventuale estradizione: "Solo però - ha affermato - in presenza di prove certe che dimostrino il suo coinvolgimento. Prove che studieremo per poi prendere una decisione alla luce delle evidenze disponibili". (Fonte: Corriere del Giorno 13/9/2001) Il 7 ottobre si legge sul Televideo RAI: "Kabul: dateci prove e processiamo Osama. Le autorità afghane sono disposte ad arrestare Osama Bin Laden e a processarlo in una corte afghana se gli Usa faranno una formale richiesta. Lo afferma l'ambasciatore dei Talebani in Pakistan. "Se qualcuno ci porta le prove non sarà un problema arrestarlo", ha spiegato l'ambasciatore Abdul Salam Zaeef. Pronta la risposta degli Usa: "Questo non è un negoziato", afferma alla Cnn una fonte di Washington". Poche ore dopo c'è stato l'attacco militare Usa.
 

Si può legittimamente parlare di una "guerra al terrorismo"?

Queste sono le principali definizioni di guerra:

- "Lotta armata tra due popoli o fra due o più Stati divisi in campi opposti" (Enciclopedia De Agostini)

- "Contesa armata tra due o più Stati".(Dizionario Pittano)

- "La lotta armata tra due o più Stati o tra fazioni di uno stesso Stato" (Dizionario Garzanti)

- "Lotta tra due stati o all'interno di uno stato, condotta con le armi, con o senza l'osservanza del diritto internazionale in materia" (Dizionario DISC)

Bush sostiene che l'orrenda serie di attentati negli Usa siano un "atto di guerra". Tuttavia la parola "guerra" si applica ad una contesa armata fra stati o all'interno di uno stato fra fazioni armate opposte (guerra civile). Fra "azione terroristica" e "azione di guerra" vi è una distinzione a meno che l'atto di terrorismo non sia messo in atto o sostenuto da uno Stato contro un altro Stato. Secondo gli Stati Uniti la guerra all'Afghanistan è legittima a causa della copertura offerta a Bin Laden. Tuttavia non sono state esperite le procedure che il diritto internazionale prevede: l'esibizione delle prove per ottenere l'estradizione del responsabile dell'atto di terrorismo.

Mentre un'azione di polizia internazionale deve sottostare a regole giuridiche, la guerra no. Questa è la ragione della scelta della guerra: chi la fa ha le mani libere e non deve dar conto ad un'autorità terza né deve produrre prove prima dell'uso della forza.

Il terrorismo richiede - se l'atto compiuto è un crimine contro l'umanità - la costituzione di un apposito tribunale internazionale. Che deve valere per Bin Laden come pure per Pinochet.

Paradossalmente le "prove" contro Bin Laden - anziché essere rese pubbliche dagli Stati Uniti prima dell'attacco - sarebbero deducibili dal "ringraziamento ad Allah" di Bin Laden il quale in un video ha detto che Allah avrebbe fatto provare agli Stati Uniti quel dolore che gli Usa avrebbero causato ad altri popoli. Ciò è avvenuto quando ormai era guerra e ogni aspetto procedurale era saltato. E' stata una prova di forza da una parte e un gioco di logoramento dall'altro. Ed il risultato è stata una guerra che stanno pagando i civili.
 

Qual è il giudizio dato su questa guerra dal movimento pacifista italiano?

La Tavola della Pace, il coordinamento di associazioni pacifiste che ha organizzato la Marcia Perugia Assisi, ha dichiarato l'8 ottobre 2001: "Gli attentati contro gli Stati Uniti sono un crimine contro l’umanità e i responsabili devono essere fermati e assicurati alla giustizia. La decisione americana di effettuare un attacco armato contro lo Stato dell’Afghanistan, a seguito degli attentati subiti lo scorso 11 settembre, è sbagliata, illegale e pericolosa. Sbagliata perché provocherà nuove vittime innocenti, nuove distruzioni, nuove violenze e anziché sradicare il terrorismo lo alimenterà insieme all’odio e al fanatismo contro gli americani e l’Occidente. Illegale perché è espressamente vietata dal diritto internazionale e dalla Carta delle Nazioni Unite. Pericolosa perché espone i cittadini americani e tutti i loro alleati ad una catena di attentati terroristici. Anziché fermare la spirale del terrore questa guerra finirà per alimentarla".
 

Questa guerra è legittima?

Per quanto riguarda l’aspetto giuridico sul giornale Il Manifesto del 10/11/2001 c’è un articolo firmato da 120 magistrati, avvocati e professori universitari di diritto come Umberto Allegretti (docente di Diritto costituzionale), Domenico Gallo (magistrato), Bruno Desi (avvocato e coordinatore nazionale dei Giuristi Democratici). Tale articolo spiega perché questa guerra non è giuridicamente legittima. "L’attacco aereo contro il World Trade Center non è, infatti, definibile come "atto di guerra", cioè come aggressione di uno stato contro un altro stato, e ciò osta all’uso legittimo della guerra come strumento di legittima difesa da parte dello stato aggredito (…) Respingere la guerra non significa accettare le barbarie ed assistere rassegnati alle stragi terroristiche: significa al contrario mettere in campo, in modo convinto ed autorevole, l’Onu e le istituzioni internazionali. A tal fine è assolutamente necessario che l’Onu si riappropri della funzione di mantenimento della pace fra i popoli e di risoluzione pacifica delle controversie internazionali che la Carta prevede come ragion d’essere dell’Organizzazione, mentre l’uso della forza è consentito solo in estrema ratio dopo che ogni altro tentativo sia risultato vano". Con questo articolo si chiede a tutti i giuristi di far sentire la propria voce perché la guerra sia bloccata e si riaffermi il diritto internazionale e si salvaguardino i diritti di persone innocenti.

Questa guerra era inevitabile?

Afferma la Tavola della Pace: "Questa guerra non era inevitabile. Fin dal giorno degli attentati la Tavola della Pace ha indicato un’altra strada più decisa, precisa ed efficace: la strada della legalità e della giustizia penale internazionale. Rinunciare a farsi giustizia da soli. Affidare all’Onu la responsabilità di agire a nome dell’intera umanità per sradicare i terrorismi con misure politiche, diplomatiche, finanziarie e di polizia internazionale. Ratificare e insediare subito la Corte Penale Internazionale. Intervenire alle radici dei problemi. Mettere fine alla politica dei "due pesi e due misure". Mettere fine al conflitto israelo-palestinese e togliere l’embargo all’Iraq. Promuovere il disarmo e ridurre l’ingiustizia economica che alimenta la disperazione e il disordine internazionale. Fin dal 12 settembre l’Onu ha intrapreso la strada giusta approvando, con uno straordinario consenso, misure nuove e concrete. Perché non si è voluto continuare a percorrere la strada tracciata dall’Onu?"

Si poteva agire diversamente?

Scrive Noam Chomsky: "C'è la Corte Internazionale di Giustizia, e se gli USA lo volessero, potrebbero istituire un tribunale speciale com'è stato fatto per la Jugoslavia. Anche il Consiglio di Sicurezza dell'ONU può avviare azioni di forza se gli vengono presentate ragioni forti. Dovremmo ricordare che ci sono veri e propri precedenti legali. Il più ovvio, perché sostenuto da una delibera della Corte Internazionale di Giustizia e dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, sono le stesse autorità internazionali. Vent'anni fa, gli Stati Uniti fecero una guerra contro il Nicaragua, e fu una guerra terribile. Morirono decine di migliaia di persone, e il paese fu praticamente distrutto. Il Nicaragua non rispose lanciando bombe su Washington, ma si rivolse alla Corte Internazionale di Giustizia con un'accusa, e la Corte emise una sentenza in suo favore, ordinando agli Stati Uniti di porre fine al loro "uso illegale della forza" (cioè terrorismo internazionale) e di pagare una sostanziosa riparazione. È vero che gli Stati Uniti risposero con parole di disprezzo per la Corte e avviarono immediatamente un'escalation dell'attacco. A quel punto, il Nicaragua si rivolse al Consiglio di Sicurezza dell'ONU che votò una risoluzione che richiamava tutti gli Stati al rispetto del diritto internazionale. Non veniva nominato nessuno in particolare, ma tutti sapevano che si trattava degli Stati Uniti. È vero che gli Stati Uniti opposero il loro veto. Il Nicaragua si rivolse allora all'Assemblea Generale che per due anni di fila approvò una risoluzione simile con le sole opposizioni di USA ed Israele. E, una volta, di El Salvador. Ma gli Stati Uniti sono indubbiamente un paese molto potente. Se si oppongono ai mezzi della legge, non possono essere perseguiti. E quindi il Nicaragua non poté fare niente. D'altra parte, se gli Stati Uniti utilizzassero quei mezzi, nessuno potrebbe fermarli. Anzi, tutti li sosterrebbero".

 

I mezzi militari sono i più efficaci nel combattere il terrorismo?

Il polmone finanziario del terrorismo sono i "paradisi fiscali". In appendice riportiamo una dettagliata analisi dell'ex magistrato Antonio Di Pietro su come lui combatterebbe Bin Laden colpendo i "paradisi fiscali" dove transitano i soldi sporchi che legano il terrorismo ai traffici illeciti.

 

Perché l'Onu non è il centro di gestione di questa crisi internazionale?

"Chi sostiene che l'articolo 5 della Nato va interpretato e che comunque qualsiasi decisione va rimessa all'Onu, punta in realtà a mettere i bastoni tra le ruote agli americani. Lo sanno tutti infatti che all'interno dell'Onu gli Usa non hanno la maggioranza...", sostiene Gianfranco Pasquino, politologo ed ex parlamentare DS (Corriere della Sera 15/9/2001)

Gli Stati Uniti sono tuttavia riusciti ad avere l'appoggio della Russia e la cauta approvazione della Cina per cui il segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha definito l'attacco militare sull'Afghanistan come azione di "legittima difesa"; gli Stati Uniti hanno comunicato al Consiglio di Sicurezza dell'Onu che la loro azione militare potrebbe colpire altre nazioni e il governo israeliano si è detto pronto a collaborare per un attacco contro l'Irak (fonte: RAI Televideo 9/10/01). Poche ore dopo l'approvazione - da parte di Kofi Annan dei raid aerei contro l'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno colpito a Kabul (9/10/01) la sede di un'agenzia Onu per lo sminamento, facendo 4 morti e 2 feriti fra il personale Onu. Gli Stati Uniti hanno rivendicato l'operazione specificando che non si è trattato di un errore ma di un atto deliberato verso una sede che "non svolgeva solo compiti umanitari" (RAI Televideo 10/10/01).

Secondo i leader dell'Ulivo Rutelli, D'Alema, Fassino, Amato e Dini, l'Onu ha autorizzato i bombardamenti Usa in Afghanistan: è vero?

Secondo questi leader dell'Ulivo "solo dopo che l'Onu ha legittimato con sue risoluzioni l'uso della forza contro esecutori, mandanti e complici delle stragi americane, è partita l'offensiva militare". E hanno aggiunto:

"Si poteva agire diversamente? Crediamo di no".

Prima di esaminare le risoluzioni dell'Onu in merito, occorre subito rilevare la grande preoccupazione dell'Onu per questo conflitto che può causare la morte di milioni di profughi; l'Ansa registra il 14/10/01 quanto segue: "LONDRA - Milioni di afghani rischiano di morire di fame se non ci sarà una sosta nei bombardamenti per consentire una capillare distribuzione di aiuti alimentari, soprattutto nel centro del paese: lo ha detto oggi l'alto commissario per i diritti umani dell'Onu, Mary Robinson. L'alto commissario ha inoltre ricordato la marea di profughi che premono su Pakistan e Iran. 'Ma quei confini - ha aggiunto - sono chiusi. E' una situazione simile a quella del Ruanda'". ANSA 14/10/2001 13:58

Quindi questo comunicato di per sé è la smentita di un "via libera" dell'Onu ai bombardamenti, per lo meno nella forma attuale. Per quanto riguarda la posizione ufficiale dell'Onu sui bombardamenti la formula si presta a diverse interpretazioni, anche a seconda delle traduzioni e delle sintesi che se ne sono fatte. A riguardo della posizione dell'Onu sulla guerra in Afghanistan, il testo della dichiarazione di Kofi Annan è disponibile a questo link: http://www.un.org/News/dh/20011008.htm#40