L'informazione in Afghanistan

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Contenuti

Introduzione

La stampa è sacrificata

Un paese senza immagini

La stampa straniera sotto controllo

I giornalisti stranieri sottomessi ad una legislazione draconiana

Giornalisti in esilio minacciati

Una "talibanizzazione" del Pakistan? 

Conclusioni e raccomandazioni

 

Afghanistan - Rapporto RSF: "I taliban e l’informazione.

Un paese senza immagini e senza informazioni"

(settembre 2000)

Introduzione  

La notte del 26 settembre 1996, le milizie dei taliban entrarono nella capitale afghana, Kabul, e presero possesso della città. Una delle loro prime mosse fu sigillare gli edifici della televisione nazionale e bandire ogni tipo di trasmissione televisiva. Quattro anni dopo aver preso il potere, i taliban e i loro alleati controllano  più del 90% del paese. Le loro recenti vittorie militari lasciano intendere che guadagneranno il controllo permanente delle vallate finora in possesso degli oppositori, in particolare la vallata del Panshir, attualmente in mano al generale Massud.

La legge e l'ordine regnano a Kabul. Adesso l'Afghanistan viene chiamato Emirato Islamico dell'Afghanistan, e la Sharia (la legge Islamica) è diventata effettiva. I taliban hanno introdotto riforme radicali, in particolare per la condizione femminile.

La libertà di stampa, che era stata comunque svilita dai predecessori dei taliban, è completamente scomparsa. Ogni trasmissione televisiva è stata interrotta, e gli edifici della Tv vengono usati come caserme.

L'unica stazione radio, che copre l'intera nazione, emette solo programmi religiosi e propaganda ufficiale - nemmeno la musica trova spazio sulle frequenze dei taliban. L'informazione stampata - non più di dieci pubblicazioni in tutto l'Afghanistan - è sotto il controllo governativo. Soltanto i media stranieri, che lavorano con l'aiuto di dozzine di giornalisti afghani in esilio, stanno cercando di fornire notizie imparziali ad una popolazione manipolata dagli 'studenti di teologia'.

I taliban non hanno esitato ad uccidere dei giornalisti che si erano trasferiti in Pakistan. Molti altri sono stati minacciati dopo aver scritto dei rapporti critici verso il dominio dei taliban sul Paese. Questi attacchi continui alla libertà di stampa vengono fomentati dai precetti religiosi insegnati nelle 'madrasas', le Scuole Coraniche del Pakistan. Intanto sta aumentando il rischio che il Pakistan, in particolare la provincia nord-occidentale, possa cadere sotto l’influenza dei taliban, visto che i movimenti religiosi Pakistani hanno dato inizio ad una battaglia di potere contro la giunta militare sulla tv via cavo.

La stampa è sacrificata

I giornali sono semplicemente spariti in Afghanistan. Dalla caduta di re Zahir Sha nel 1973, e la fine della ‘decade di democrazia’, la stampa è stata in mano al governo.

Dopo aver preso il potere nel 1978, il Partito Democratico (comunista) ha introdotto un sistema dell’informazione basato sul modello sovietico. Circa 100 pubblicazioni, tutte dipendenti dalle istituzioni statali, furono scrupolosamente esaminate dal “settimo comitato” del ministero per la Sicurezza, incaricato della censura. Con la presa del potere dei Mujaheddin nel 1992 scomparve il 90% delle pubblicazioni, o perché proibite, o perché furono private delle risorse materiali. La vittoria dei taliban nel 1996 ha segnato l’inizio di un integrale passaggio delle consegne: i giornalisti abbandonarono il paese a dozzine, e nuove squadre, composte da miliziani, ‘consulenti Pakistani’ ed ex giornalisti, furono formate per rimpiazzarli.

I taliban arrestarono ogni giornalista che non fosse riuscito a scappare o nascondersi. Khalil Rostaqi, un intellettuale, giornalista per il quotidiano Mayan, venne arrestato una settimana dopo la presa di Kabul, e fu tenuto in carcere per sei mesi.

All’incirca nello stesso periodo, Abdulhanan Rahimi, un inviato della tv nazionale, venne arrestato a casa. Con l’accusa di spionaggio in favore del Generale Massud, e di inviare “rapporti ostili ai taliban”,  è stato tenuto in una cantina, con altre tre persone, per cinque mesi. Prima del suo rilascio, ricevette un avvertimento da uno dei suoi carcerieri: “Se vieni arrestato un’altra volta, sei un uomo morto”.

Al momento, su 21 milioni d’abitanti, in Afghanistan appaiono regolarmente meno di dieci pubblicazioni: il settimanale in inglese Kabul Times, una vetrina governativa per l’estero, il periodico in Pashtu Nangarhar e i quotidiani in Farsi Hawad (Madrepatria), Anees (Socio) e Shariat.

Nelle provincie appaiono irregolarmente alcune pubblicazioni controllate dalle autorità locali. Il loro contenuto è misero, senza foto, illustrazioni, lettere dei lettori o editoriali. Tutte le notizie che vengono stampate provengono dai ministeri o dall’agenzia di stampa ufficiale. Le condizioni di lavoro per i giornalisti sono molto dure: devono prendere ordini dai rappresentanti dei taliban assegnati alle redazioni, e lo stato li paga poco ed irregolarmente. La gran parte dei giornalisti guadagna 12 euro al mese.

Dall’altro lato, il rettore dell’università di Kabul insiste che i corsi di giornalismo sono ancora tenuti “secondo i criteri dei media internazionali e dell’etica professionale”. Afferma che quel che avviene al di fuori dell’Università non lo riguarda, e si rifiuta di commentare l’atteggiamento dei taliban verso la libertà di stampa. Come è ovvio, l’università accetta solo studenti maschi.

Nel luglio 2000 i taliban lanciarono The Islamic Emirate, un mensile in inglese pubblicato a Kandahar, per “contrapporsi all’informazione influenzata creata dai nemici dell’Islam”. La copertina del primo numero titolava “Nessuna base terrorista in Afghanistan”, e “Estradare Osama bin Laden vorrebbe dire sbeffeggiare uno dei pilastri della nostra religione”.

I taliban hanno anche approntato un sito web, afghan-ie.com, per proporre il riconoscimento del loro regime da parte della comunità internazionale – sebbene abbiano proibito agli afghani ogni accesso alla rete. Tramite i media governativi, i taliban richiedono frequentemente il seggio dell’Afghanistan alle Nazioni Unite, che è ancora ufficialmente occupato dal “governo” dell’ex presidente Borhannodin Rabbani.

Un giornalista afghano tornato di recente a Kabul è stato categorico: “Al giorno d’oggi non sono rimasti giornalisti in Afghanistan. Fanno un lavoro per religiosi. Gli è formalmente proibito di scrivere qualsiasi cosa”. Un altro giornalista, che vive in esilio in Francia, ha ricevuto un’impressione simile dalle persone che lavorano per l’unica emittente radio della nazione, Radio Sharia: producono 12 ore di programmi al giorno senza nessun tipo di commento giornalistico, e senza canzoni. I sermoni si alternano con i dibattiti religiosi e di propaganda, in cui vengono insultati Massud e gli Americani.

Un Paese senza immagini 

Non è concesso fotografare l'emiro dell'Afghanistan, Mollah Mohammed Omar, sotto minaccia della pena di morte. I giornalisti stranieri che hanno lavorato in Afghanistan dal 1996 ricordano il nervosismo dei miliziani di fronte alle macchine fotografiche ed alle telecamere, le 'scatole del diavolo'.

"Se avessimo avuto con noi la nostra telecamera, ci avrebbero sicuramente uccisi", racconta Salim Safi, un giornalista pakistano dell'agenzia di stampa 'News Network International', arrestato nel settembre1999, con un altro inviato. Dopo aver coperto un incontro dell'opposizione nel nord del paese, il giornalista aveva preferito affidare la sua telecamera a un amico afghano che lo aveva accompagnato fino a Peshawar. 

I Taliban lo hanno accusato d'essere entrati illegalmente sul territorio afghano e d'essere delle 'spie al soldo degli Iraniani'. Salim Safi racconta che uno dei miliziani lo ha minacciato: "Tu sei un giornalista famoso.E allora? Sarai morto ma nessuno lo saprà". Saranno liberati solo dopo l'intervento della  loro redazione presso il ministro degli Esteri afghano, cinque giorni più tardi.

Più di recente, l'11 agosto 2000, tre giornalisti stranieri vengono convocati su ordine del ministro per il Mantenimento della fede e per la Soppressione del vizio che li accusa di aver provato a fare delle foto ad una partita di calcio a Kabul.

"La polizia religiosa ci ha arrestati e interrogati per due ore. Hanno confiscato i rullini del fotografo dopo averci accusati di aver violato la loro legge, che proibisce le fotografie ad esseri viventi", racconta Khawar Mehdi, un giornalista pakistano che accompagnava Pepe Scobar, un reporter brasiliano, e Jason Flario, un fotografo free-lance americano.

Khawar Medhi ha raccontato le sue impressioni: "I Taliban hanno sempre più la tendenza a considerare i giornalisti stranieri come spie. Non ci amano e danno per scontato che veniamo in Afghanistan con cattive intenzioni". Zaheer, un fotografo afghano sulla sessantina, afferma che "la fotografia è morta in Afghanistan". Un altro fotografo, stabilitosi a Peshawar riconosce di non poter più tornare nel suo paese dal 1998. "E' diventato impossibile lavorare, e in più ti costringono a farti crescere la barba".

Per quel che riguarda la televisione, non sembra che i taliban siano pronti ad autorizzare di nuovo l'emissione dei programmi. Abdul Hai Mutmaeen, il ministro dell'Informazione e della Cultura della provincia di Kandahar (est del paese), ha dichiarato ad un giornalista straniero,    lo scorso agosto, "che non se ne parla affatto, di eliminare l'interdizione della televisione"

Pertanto, nel luglio scorso, durante un seminario dedicato al "ruolo dei media", e organizzato dal ministero dell'Informazione e della Cultura, alcuni funzionari avevano suggerito la ripresa delle trasmissioni. Ma secondo il ministro, è impossibile "controllare quel che guardano le persone". Bisogna anche ricordare che dalla loro entrata a Kabul, i miliziani hanno sistematicamente distrutto tutto il materiale audio e video: film e cassette bruciati nel corso di autodafé pubblici, distruzione di postazioni televisive, di apparecchi fotografici, di videocamere e di materiale hi-fi.

La stampa straniera sotto controllo

Dall'instaurazione del regime comunista, è molto difficile trovare dei giornalisti occidentali a Kabul. Invece, le pubblicazioni dei paesi limitrofi, essenzialmente il Pakistan e l'Iran, erano riuscite a penetrare il mercato afghano durante il regime dei mujaheddin.

Il 27 febbraio 1997, il ministro dell'Informazione e della Cultura ha annunciato la proibizione di vendita di libri e riviste editi all'estero. Di conseguenza, gli afghani sono stati privati dei giornali pakistani pubblicati in Pashtu, come il Frontier Post, The News International, o Wahdat. Più di tremila esemplari di Wahdat attraversarono la frontiera, a metà degli anni '90, per essere distribuiti nelle principali città dell'Afghanistan.

I capi taliban hanno anche posto fine alla circolazione di tutti i giornali pubblicati in Pakistan ed in Iran. Secondo uno dei responsabili della rete di distribuzione di un quotidiano pakistano, i miliziani controllano scrupolosamente l'arrivo delle pubblicazioni. "L'autista del furgone delle consegne è stato più volte minacciato. Ha diritto a portare i giornali soltanto alle istituzioni autorizzate dai taliban", racconta l’addetto. Di fatto, solo qualche ministero, le rappresentanze diplomatiche  e certi giornalisti stranieri, o alcune organizzazioni internazionali sono autorizzate a ricevere questi giornali. "Ad ogni modo, non esistono più chioschi di giornalai nelle grandi città del paese", aggiunge lo stesso individuo.

Alcuni afghani cercano, malgrado tutto, di procurarsi dei giornali stranieri. Wahdat viene distribuito di nascosto. "Ho visto degli studenti nascondersi nei pantaloni dei giornali pakistani, per timore d'esser visti con le copie. Sanno di accollarsi un grosso rischio", testimonia un pakistano ritornato di recente da Jalalabad. Il solo giornale autorizzato dalle autorità di Kabul è Zarbe Momin, un settimanale in Urdu pubblicato a Karachi, che sostiene la causa dei taliban. Secondo un giornalista afghano di Peshawar, questo media è ben visto dal governo di Kabul perché si oppone alla "propaganda degli occidentali contro i taliban".   Paradossalmente, gli ufficiali afghani privilegiano la stampa pakistana per informarsi. "Non hanno altra scelta perché hanno proibito tutti i media", ironizza un giornalista pakistano.

Il quotidiano in Pashtu Wahdat, pubblicato in Pakistan, ha provato a mantenere un corrispondente nella città di Jalalabad (est del paese). Ma sotto la pressione delle autorità, Asadullah Hisar Shahiwal è stato costretto a dimettersi. Era stato più volte arrestato per degli articoli pubblicati su Wahdat. Il quotidiano mantiene un corrispondente a Kabul, Danish Karukhel, il cui margine di manovra è molto limitato, secondo un responsabile della redazione di Peshawar. "Il suo lavoro giornalistico si limita alle interviste agli ufficiali dei taliban. Un articolo critico sarebbe troppo pericoloso per lui", aggiunge il giornalista riguardo al suo collega.

I taliban giustificano ogni volta l'interdizione dei media stranieri con la "parzialità degli articoli pubblicati sull'Afghanistan". Secondo Abdul Hai Mutmaeen, il ministro dell'Informazione e della Cultura della provincia di Kandahar, gli "americani sono contro i taliban" e "la loro stampa dà un'immagine deformata della situazione" .

I giornalisti iraniani, e tutti coloro che vengono accusati d'essere "delle spie al soldo di Teheran", sono ugualmente la fissazione dei taliban. Il 7 agosto 1998, Mahmud Saremi , corrispondente dell'agenzia ufficiale iraniana IRNA, e otto diplomatici iraniani furono assassinati da dei miliziani taliban nel consolato iraniano a Mazar-i-Sharif, città del nord del paese. I loro corpi furono lasciati sul posto per due giorni, e dopo gettati in una fossa comune. L'11 settembre, le autorità di Kabul hanno confermato la morte del giornalista. In seguito a questo incidente, una crisi acuta si è aperta tra i due paesi. I media infeudati a Kabul denunciano violentemente l'Iran e le sue spie. I media di Teheran sono proibiti in Afghanistan ed alcuni giornalisti stranieri sono accusati d'essere spie iraniane.

I giornalisti stranieri sottomessi ad una legislazione draconiana.

I miliziani taliban non hanno mai esitato a aggredire o minacciare dei giornalisti stranieri. Così, appena un mese dopo la loro entrata a Kabul, alcuni combattenti taliban hanno fermato e malmenato dei giornalisti argentini accusati d'aver tentato di intervistare delle donne. Nel novembre dello stesso anno, a  Dorothée Olliéric, inviata della televisione France 2 viene impedito di lavorare perché non porta il velo. In tutto, più di venticinque giornalisti stranieri sono stati arrestati dai miliziani dal settembre 1996.

Nell’agosto del 2000 le autorità hanno introdotto regolamenti severi riguardo al lavoro degli inviati stranieri e dei corrispondenti speciali. All’arrivo a Kabul, viene loro fornita una lista con i “21 punti da rispettare”.

Il primo fornisce un resoconto veritiero su “quel che sta davvero succedendo in Afghanistan”, e su come “non offendere i sentimenti dei cittadini”. Dopo segue una lunga litania di raccomandazioni che in altri paesi verrebbero definiti senz’altro violenze burocratiche, ma che allo stesso tempo danno una prova della mancanza di fiducia nei confronti della stampa straniera, da parte del potere afghano, e del loro fermo proposito a mantenere un controllo severo sui reporter sul suolo afghano.

Un documento pubblicato dal Dipartimento per l’informazione e la cultura stabilisce che ai giornalisti stranieri non è permesso “recarsi in case private”, “intervistare una donna afghana senza il permesso del dipartimento” oppure di “fotografare o filmare delle persone”. Ai giornalisti si chiede anche di comunicare al dipartimento i loro spostamenti lontano da Kabul, e di rispettare le “zone interdette”

Le autorità insistono anche perché i corrispondenti stranieri lavorino solo con interpreti ed altri assistenti locali, che siano stati approvati dal dipartimento stesso; oppure che registrino tutto il loro equipaggiamento professionale presso il ministero competente, o che rinnovino i loro permessi di lavoro ogni anno. Infine, i responsabili degli uffici dei media internazionali sono obbligati ad andare alle conferenze stampa del governo, ed a controllare che sulle loro corrispondenze compaia solo il nome “Emirato Islamico dell’Afghanistan”. Nel documento pubblicato dalle autorità nonn viene specificata nessuna sanzione in caso d’infrazione di questi regolamenti.

Alcuni giornalisti hanno condannato il controllo ufficiale degli interpreti assegnati ai giornalisti stranieri. “Quasi tutti loro sono fedeli al governo”, ha detto un giornalista di Peshawar. “La gente ha paura a dire qualsiasi cosa di fronte a loro prechè tutti sanno che (gli interpreti) andranno a riportare qualsiasi informazione al dipartimento dell’informazione e della cultura. Ho sentito interpreti riportare a giornalisti stranieri l’esatto opposto di quel che l’intervistato aveva realmente detto”. Altri mezzi per tenere d’occhio attentamente i giornalisti stranieri: viene loro permesso di stare solo al Kabul International Hotel. Viene loro proibito di fermarsi con cittadini qualunque. Una famiglia afghana che aveva preso con sé un giornalista pakistano è stata aggredita dalle milizie talibane, come riportato da Jan Agha, un uomo d’affari afghano che vive in esilio a Peshawar.

I corrispondenti per conto di organi di stampa stranieri a Kabul sono pochi e sempre di meno. Soltanto la BBC e l’Agence France-Presse hanno ancora corrispondenti che vivono nella capitale, sebbene le autorità abbiano dato di recente l’autorizzazione ad aprire uffici alle catene CNN e Al-Jazeera. Kate Clark della radio BBC e Amir Shah dell’agenzia di stampa americana Associated Press hanno spesso parlato della pressione a cui sono sottoposti. Kate Clark ha detto che le scorte stavano così a stretto contatto che si doveva “lavorare discretamente e molto in fretta”. Ha aggiunto: “dobbiamo afferrare le notizie e scappare, per paura di cadere vittime di qualche tranello”.

Alcuni reporter pakistani che coprono il conflitto afghano hanno avuto difficoltà enormi ad ottenere i visti per raggiungere l’Afghanistan da Peshawar. Si è lamentato Ilyas Khan, inviato del mensile pakistano The Herald: “I giornalisti occidentali ottengono i visti facilmente, mentre a noi che parliamo afghano viene impedito di entrare nel paese”. Khan crede che questa sia una politica concertata, con l’intento di proteggere dagli occhi del mondo il rapido peggioramento della situazione in Afghanistan. “Un giornalista straniero, seguto da un interprete, non può afferrare integralmente gli sviluppi e trovare l’informazione giusta”. Shamin Shahid, caporedattore del quotidiano The Nation di Peshawar, si è visto rifiutare 20 richieste di visto dal consolato afghano dal febbraio 1999.

Giornalisti in esilio minacciati

Dopo la presa di Kabul e Jalalabad da parte dei taliban, la maggior parte dei giornalisti è scappata verso le zone del paese sotto il controllo dell’opposizione o in Pakistan, Iran o Tagikistan. Dei 15 redattori di Subh Omid (La mattina della speranza), un serale lanciato nel marzo 1995, solo due sono rimasti a Kabul. Latif Pedram, uno dei suoi fondatori, si è nascosto all’arrivo dei taliban per paura di essere “decapitato”. “L’esilio è diventata l’unica maniera di soppravvivere se sei un giornalista afghano”, ha detto.

L’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati ha aiutato circa dieci giornalisti afghani ad andare verso i paesi occidentali da Peshawar. Altri, a dozzine, sono riusciti a raggiungere paesi che li ospitassero con i propri mezzi. Gli afghani scappati dai taliban hanno incontrato altri connazionali che avevano lasciato il paese per sfuggire ai comunisti o ai Mujaheddin. Alcuni hanno fondato nuovi media, mentre altri stanno lavorando per le cinque stazioni radio internazionali con programmi in Farsi. I loro programmi, in particolare quelli della BBC, sono molto popolari in Afghanistan. Ha detto Latif Pedram: “Le stazioni internazionali sono gli unici media di massa che l’Afghanistan abbia mai conosciuto. Sono sia un segno di vita che una finestra aperta sul resto del mondo”.

Questi giornalisti non sono fuori pericolo per il solo fatto di aver lasciato il paese. Due inviati afghani sono scampati per poco a dei tentati omicidi in Pakistan dal 1996 ad ora. Almeno altri cinque sono stati aggrediti o hanno ricevuto minacce di morte. Le investigazioni della polizia pakistana, molto spesso approssimative, non hanno fornito nessun indizio sull’identità degli aggressori.

Il 2 ottobre 1998 due uomini hanno sparato ad Abdul Hafiz Amidi Azizi mentre stava tornando a casa a Peshawar. Editorialista assiduo dei quotidiani afghani Sahaar e Wahdat, Hamid Azizi, d’origine Tagika, ha ricevuto minacce di morte anonime. Una delle lettere lo ammoniva “a non pubblicare articoli ed a non scrivere analisi politiche. Altrimenti tu e la tua famiglia sarete puniti con la morte, il rapimento o il disonore, come esempio per gli altri”.

Tre giorni dopo Najeeda Sara Bidi, un inviato del servizio in lingua Pashtu della BBC a Peshawar, è scampato ad un tentato assassinio vicino casa. “Mi hanno insultato per strada e minacciato per telefono o via email” , ha raccontato a Reporters Sans Frontiéres. Poche settimane prima del tentato assassinio, un gruppo di afghani l’aveva fermata per strada. Sara Bidi ha ricordato le loro minacce: “Quanto a lungo hai intenzione di continuare a scrivere in difesa dei diritti delle donne? Perché non te ne stai a casa? L’Afghanistan ha un governo islamico e faremo in modo che tu non possa lavorare, nemmeno in Pakistan”. La giornalista è sicura che dietro l’attentato ci siano i taliban. Come prova, ha mostrato una lettera di minacce scritta su carta intestata del ministero afghano degli Interni. Pochi mesi dopo la giornalista se n’è andata in esilio in Europa.

Il 2 novembre 1998 Mohammad Hashim Paktianae, un giornalista della stampa di regime sotto il governo comunista, oltre che cugino dell’ex presidente Najibullah, venne ucciso a casa sua a Hayatabad. Finora nessuna indagine ha fornito degli indizi, ma alcuni membri della famiglia del giornalista credono che sia dovuto al suo impegno per l’opposizione afghana.

Nell’agosto 1998 Walliulah Saleem, direttore dell’agenzia afghana indipendente Sahaar, con sede a Peshawar, ha ricevuto minacce di morte delle quali ha accusato i taliban, e si è dovuto nascondere per quattro mesi. Più recentemente, il 4 luglio 2000, Inayat-ul-Haq Yasini, un giornalista del quotidiano Wahdat che vive a Peshawar, ha ricevuto delle telefonate anonime che le minacciavano con le “peggiori conseguenze”. Nel numero del 26 giugno, Wahdat aveva pubblicato i risultati di un sondaggio d’opinione tra i profughi afghani che vivono nei campi d’accoglienza del nord-ovest pakistano. La persona al telefono si lamentava anche di come l’articolo fosse troppo favorevole al generale Al-Maroof Shariati, a capo del Consiglio Nazionale Afghano per la Pace, un partito d’opposizione che agisce in esilio.

Secondo alcuni giornalisti afghani interrogati da Reporters Sans frontières, le minacce provengono sia dai taliban sia da gruppi religiosi pakistani, ed anche dai “servizi segreti pakistani che lavorano mano nella mano con i padroni di Kabul”. I giornalisti hanno detto di essere stati richiamati da funzionari dei servizi segreti pakistani che avevano chiesto loro di fargli visionare via fax tutti gli articoli prima della pubblicazione, e di non lavorare per Radio Teheran. Un esperto reporter afghano ha notato come vari colleghi evitassero di scrivere degli articoli critici verso i taliban per paura d’essere minacciati o banditi dal paese.

Le autorità di Kabul avevano anche pensato di compilare una  lista nera di giornalisti afghani considerati “indesiderabili” – una maniera per punirli dopo aver scritto reportage “ostili” sui taliban. Uno di questi, Jamal Kotwal, ha lasciato il suo paese nel 1993, dopo aver lavorato per parecchi media controllati dal regime comunista. Residente a Peshawar, ha lavorato per la stazione radio governativa iraniana Radio Teheran, il che gli ha procurato altri attacchi dei taliban. “mi hanno fatto sapere, indirettamente, che per me era pericoloso continuare a lavorare per la radio ufficiale di un paese che minacciava l’Afghanistan”, ha dichiarato. “Ho rinunciato per la paura. Da allora, sono rimasto sulla lista nera dei giornalisti che sono contro i taliban”. Jamal Kotwal adesso sta lavorando come corrispondente per la radio internazionale tedesca Deutsch Welle.

Secondo un giornalista afghano, al momento circa 30 pubblicazioni del suo paese vengono prodotte all’estero. A circa dieci di queste si può accedere attraverso Internet. Editi in Iran, Pakistan, Tajikistan, Germania o Stati Uniti, questi giornali nascono principalmente grazie ai gruppi dell’ opposizione. Poche dozzine di copie vengono contrabbandate in Afghanistan, ove i lettori rischiano pene severe. In Pakistan il quotidiano Wahdat pubblicato in Pashtu, ha raggiunto una popolarità notevole tra la comunità dei rifugiati.

Sebbene la redazione sia composta soprattutto da giornalisti afghani in esilio, ci sono anche pochi reporter che   appoggiano i taliban. Per esempio Janullah Hashimzada ha detto di andare regolarmente in Afghanistan, e di non aver mai avuto problemi con le autorità. Dopo essersi descritto come “pro-taliban”, il giovane inviato si è lamentato di come la stampa internazionale abbia portato degli “ingiusti attacchi verso l’Afghanistan”.

Una “talibanizzazione” del Pakistan?

“Non esiteremo ad usare tutti i mezzi a nostra disposizione per forzare il governo a chiudere i canali tv via cavo in questo paese”, ha ammonito Ehsan-ul-Haq, uno dei dirigenti del movimento  Islami Muttahida Inqilabi Mahaz, che raggruppa 21 organizzazioni di fondamentalisti islamici in Pakistan.

Nel giugno 2000 le organizzazioni religiose di questo paese hanno lanciato una campagna contro gli operatori della tv via cavo, autorizzati dal governo federale all’inizio dell’anno. Per mobilitare i loro seguaci contro le tv “volgari e oscene”, gli ulema hanno pubblicato una fatwa che  ha  chiamato tutti gli Islamici alla “rivolta contro il diavolo”, rappresentato dai operatori di canali via cavo. Nell’aprile 2000, attivisti  del gruppo Islami Tehrike-e-taliban hanno distrutto materiale televisivo, in particolare videocassette, al mercato di Miranshah, a poche miglia dal confine afghano.

La campagna era cominciata nella provincia del confine di Nord-ovest, da dove era emerso il movimento dei taliban. Il 13 giugno 2000 un gruppo di leaders religiosi ha chiesto al consiglio distrettuale di Hyatabad, a Sud-ovest di Peshawar, la chiusura per sei operatori via cavo, che avevano aperto da poco nella regione. Un funzionario distrettuale ha chiesto al sovrintendente della polizia di Peshawar di chiudere le stazioni.

Zakria Khan, uno degli investitori preso di mira dalla campagna, ha ricostruito la vicenda: “Il 13 giugno la polizia mi intimò di comparire alla stazione di polizia di Hyatabad. L’ufficiale di polizia che mi aveva convocato mi disse di aver ricevuto richieste di chiudere la mia società e confiscare il mio equipaggiamento, ma di non avere nessun documento scritto che giustificasse le sue richieste”. Dopo aver parlato col suo avvocato, Zakria Khan decise di attenersi agli ordini dell’ufficiale di polizia per paura d’avere altrimenti “problemi seri”. Ha avuto anche modo di raccontare a Reporters Sanas Frontières come alcuni giovani attivisti fondamentalisti avessero tagliato i cavi durante la notte: “Eravamo riusciti a catturarne parecchi, ma la polizia li ha lasciati andare immediatamente, su pressione dei leader religiosi”.

Il 21 giugno il governatore provinciale Muhammad Shafique ha annunciato, nel corso di una dimostrazione a Peshawar con migliaia di manifestanti, il bando degli operatori di tv via cavo nella regione. il giorno seguente si è avuta una smentita dal suo portavoce, dopo che il governo federale aveva ricordato a Shafique come un governatore non abbia il potere per prendere una decisione tale. Il 24 giugno Zakria Khan e cinque altri operatori via cavo hanno depositato un ricorso presso l’Alta Corte di Peshawar; il conflitto col governo centrale ha portato alla fine il governatore provinciale alle dimissioni, il 13 agosto.

Agli operatori via cavo è stato permesso di riprendere i loro affari il 5 luglio, ma i movimenti religiosi hanno continuato le loro proteste, pubblicando sui principali giornali locali e nazionali affermazioni molto aggressive. Il 20 luglio uno dei leader religiosi ha detto: “La decisione dell’Alta Corte di Peshawar non è in linea con la costituzione e l’Islam. Proibiremo con la forza agli operatori di lavorare, se non lo fa il governo con la legge”. Per risposta, il governo federale ha sottolineato la validità delle licenze degli operatori, ed ha detto che non tollererà attacchi alle loro compagnie.

I movimenti fondamentalisti hanno minacciato di continuare la loro campagna contro  i cinema, le riviste cinematografiche   e i posters.  I mullah pakistani interrogati da Reporters Sans Frontières hanno ancora replicato che i movimenti religiosi non hanno nessuna intenzione di violare la libertà di stampa, visto che la libertà di parola è garantita integralmente dall’Islam. Maulana Hasan Jan, ex membro della camera bassa del Parlamento per un partito fondamentalista, ha raccontato una storia per illustrare il loro punto di vista: “Un giorno Omar, il secondo califfo, decise di abbassare una dote. Una donna protestò, citando un verso del Corano. Il califfo ritirò la propria decisione immediatamente,in ’accordo con la critica della donna”. Secondo i capi religiosi, l’attitudine del califfo dimostra quanto l’Islam sia aperto alle critiche.

I movimenti religiosi pakistani hanno il potere d’imporre alcuni dei loro punti di vista alle autorità locali, alternando pressione politica, minacce, dimostrazioni e atti di sabotaggio. L’esistenza di una stampa con varie tendenze, elemento basico dell’Islam liberale del Pakistan, non è mai stata messa in dubbio pubblicamente dai capi religiosi. Ma esiste il timore che le loro richieste di un’applicazione più severa della Sharia potrebbe risolversi in censura.

I partiti politici religiosi in Pakistan hanno invitato i loro seguaci ad attaccare i giornalisti. Nell’ottobre 1996 membri del Jamiat Ulema-i-Islam (JUI, un partito fondamentalista), lanciarono un’incursione nei locali del quotidiano Ummat, per bruciare copie del giornale che conteneva articoli critici verso i taliban. Nel dicembre 1996, Fakhr Alam, corrispondente del quotidiano The Muslim di Peshawar, è stato l’obiettivo di un tentato assassinio. I suoi aggressori hanno saccheggiato e poi appiccato fuoco agli uffici del giornale. The Muslim aveva pubblicato una vignetta in cui il dirigente dello JUI ballava con attrici pakistane e afghane. Fakhr Alam è riuscito a identificare uno degli aggressori come uno dei capi dell’alla studentesca dello Jui, in seguito arrestato. Su pressione dello Jui è stato comunque rilasciato dopo sei giorni di custodia. Nessuno è stato condannato dai tribunali pakistani per il tentato omicidio.

Nel settembre 1998 Saeed Iqbal Hashmi, corrispondente a Peshawar del quotidiano Mashriq è stato condannato a morte da una fatwa emanata dai capi religiosi vicini allo Jui. L’inviato ha deciso di andare a nascondersi quando degli attivisti dello Jui hanno dimostrato di fronte agli uffici del giornale. Il 17 dicembre 1998 due uomini armati sono andati a casa dei suoi genitori per ucciderlo. “I leader religiosi mi hanno accusato di  essere Ebreo e di appartenere ad un’associazione ebraica ostile agli interessi dei taliban”, ha ricordato “non ho mai visto un Ebreo in vita mia”. Di fatto, i padri spirituali erano furiosi per uno dei suoi articoli, su alcuni abusi sessuali compiuti in una scuola Coranica su dei ragazzini. Dato che le autorità pakistane erano incapaci di assicurare la sicurezza, Saeed Hashmi ha deciso di rifugiarsi in Europa, in esilio, nel gennaio 1999.

Parecchi editorialisti pakistani hanno espresso la loro preoccupazione sulla “talibanzzazione” della regione di Peshawar. Ismail Khan ha scritto recentemente sul The News International: “L’idea della talibanzzazione della provincia della frontiera Nord-ovest sembra ancora lontana dall’avverarsi, ma la realtà ci sta guardando in faccia. Dovremmo chiudere gli occhi e comportarci come struzzi? E’ venuto il tempo per noi di prendere fermamente posizione”. Ha aggiunto un editorialista del Frontier Post: “Questi guardiani auto proclamati della moralità della nazione dovrebbero sapere che la popolazione non desidera accettare la loro guida spirituale”.

Conclusioni e raccomandazioni

Oggi l’Afghanistan è uno dei paesi dove non esiste assolutamente libertà di stampa. I taliban hanno esteso e sviluppato la politica dei loro predecessori, sia i comunisti come i mujaheddin. Hanno il controllo totale di tutti i mezzi di comunicazione e – come nessun altro posto al mondo – hanno messo al bando le immagini. Questo atteggiamento priva i cittadini afghani, che portano ancora le cicatrici di più di 20 anni di guerra civile, della possibilità di vedere che aspetto abbia il loro paese ed il mondo esterno. Questa fobia di ritrarre l’umanità e la natura spiega gli attacchi senza soste dei miliziani taliban contro i giornalisti, cameramen e fotografi stranieri, mentre cercano un atestimonianza visuale di un paese che sembra tornato indietro al medioevo. Si spera che la determinazione dei taliban ad essere riconosciuti dalle Nazioni Unite come governo legittimo dell’Afghanistan li forzerà a cancellare almeno alcune delle restrizioni alla libertà di parola.

Reporters Sans Frontières rivolge un appello ai capi del movimento taliban:

  • perché riconoscano la libertà di parola come uno dei diritti fondamentali della gente afghana,

  • perché eliminino il bando su fotografia e televisione,

  • perché pongano fine alle restrizioni imposte sui giornalisti stranieri che lavorano in Afghanistan.

Reporters Sans Frontières rivolge un appello al governo Pakistano:

  • perché fornisca protezione ai giornalisti pakistani e afghani che lo richiedano,

  • perché assicurino il rispetto delle leggi pakistane sulla stampa in tutto il paese,

  • perché firmino e ratifichino prima possibile la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, il cui articolo 19 garantisce la libertà di parola.

Reporters sans Frontières rivolge un appello alla comunità internazionale:

  • perché faccia del rispetto della libertà di parola una condizione per il riconoscimento del governo talibano,

  • perché appoggino le iniziative dei giornalisti afghani che vivono in esilio, in favore della pluralità dell’informazione,

  • per intervenire presso i rappresentanti del movimento dei taliban per garantire la sicurezza dei giornalisti stranieri che lavorano in Afghanistan.