Un Popolo Nomade

cerca nel sito

torna alle pagina sull' Afghanistan

  scrivici

 

UN POPOLO NOMADE

 

Negli ultimi vent'anni milioni di afgani sono stati costretti a scappare. Alcuni vivono in esilio nei paesi vicini, altri spostandosi tra i confini. Molti rimangono in patria, aspettando degli aiuti che non arrivano mai

 

NEIMER LUYKEN, DIE ZEIT, GERMANIA. F

 

 

Torkham, posto di frontiera del Khyber Pass. Caos orientale: contrabbandieri, cambiavalute, venditori ambulanti, camion multicolori carichi fino all'inverosimile, padelle che sfrigolano, urla e contrattazioni accalorate un po'ovunque. In mezzo a tutto ciò, alcune figure quasi monastiche dai lunghi pastrani di lana bruna: i doganieri. Il confine vero e proprio è costituito da un alto portale di ferro a due battenti, e, ai suoi lati, da una rete metallica piuttosto malandata. Sul versante afgano della rete preme la folla dei volti barbuti degli uomini bruciati dal sole, dei bambini che si intrufolano svelti e dei profili da mummia dei burka blu, sotto cui si cela la metà femminile di un popolo martoriato. Ogni volta che un camion sovraccarico si fa strada tra la folla e riesce a varcare il confine, i più disperati tentano di infilarsi nell'esiguo spiraglio che si è aperto tra il veicolo che vacilla pericolosamente e i battenti del portale, sub chiusi. Nella confusione generale; ragazzi cercano di scavalcare di nascosto il recinto. 1 doganieri agitano i lunghi bastoni, pestano a casaccio sulla fo sperata, la respingono. Poi però mostrano pietà, e lasciano passare i più anziani e le donne. Una scena quotidiana, ma non solo da quando è cominciata l'operazione Libertà duratura.

 

Da vent'anni i profughi afgani sono le vittime dimenticate in una regione del mondo nella quale la politica dipende solo dai calcoli politici e strategici dei paesi coinvolti. Finché la cosa non infastidiva l'Occidente, il mondo s'interessava solo marginalmente al fatto che il regime clerical‑fascista dei taliban tenesse il suo popolo in condizioni paurose. Importava ben poco che il loro governo stesse scaraventando la gente in una miseria economica sempre più irrecuperabile, e che la giunta militare del Pakistan sostenesse fattivamente ed efficacemente il regime.

 

Emigranti e deportati

 

il mondo occidentale ha provato un po' di passeggera irritazione solo quando le statue buddiste di Bamian, simbolo del passato preislamico del paese, sono cadute sotto i colpi di artiglieria dei fanatici islamici e quando otto persone ‑ tedeschi, statunitensi e australiani ‑ hanno attirato su di loro la collera dei taliban per aver tentato di aprire una missione cristiana. Malgrado tutto ciò, gli afgani che riuscivano a sfuggire a quel regime e alla miseria rimanevano esposti al trattamento disumano che le democrazie occidentali riservano ai cosiddetti economic mig‑rants, cioè ai profughi per cause economiche. Appena qualche settimana fa la "multiculturale" Australia ha deportato a forza centinaia di loro su una remota isola dei Mari del Sud. Nessuno può fare delle stime attendibili su che cosa stia accadendo oltre il confine, all'interno del paese. Probabilmente nulla di molto diverso da quello che accade ormai da anni: fame e privazioni. Già due anni fa a Jalalabad era frequente vedere i bambini con i segni della denutrizione: l'addome gonfio e gli occhi che risaltano, troppo grandi, nel viso. Molto prima dei bombardamenti angloarnericani, Kabul era già in rovine. Può darsi che ora la popolazione si disperda nelle campagne. Vagare in fuga fa ormai parte della loro natura: essere sfollati è la loro seconda identità. Ma le nostre telecamere sono arrivate sul posto solo dopo l'il settembre. Ora la Cnn, la Cbs e Sky News, cioè le truppe d'assalto della celebrità mediatica internazionale, fanno a botte per accaparrarsi l'inquadratura più sconvolgente, la scena più straziante, il commento più drammatico.

L'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) parla di milioni di profughi, di una catastrofe di inaudite proporzioni. Da tempo l'Acnur cerca di stimolare le donazioni dell'Occidente. Senza molto successo, almeno finché la "componente umanitaria" non è sta integrata nella strategia della guerra contro il terrorismo.

Nel maggio scorso l'organizzazione ha dovuto ridurre da 12 a 10 dollari procapite all'anno i fondi destinati agli oltre due milioni di profughi riparati in Pakistan e Iran. Motivazione: "paralisi delle donazioni", eufemismo che sta per "avarizia dei paesi donatori".

 

il limbo di Peshawar

 

Le condizioni miserabili dei campi profughi, documentate dalle televisioni di tutto il mondo, corrispondono solo in parte alla realtà. Certo, ci sono campi come quello di Ialozai, in cui spesso i bambini febbricitanti sono ormai troppo apatici per scacciare dagli occhi i nugoli di mosche che li perseguitano, in cui vecchi accovacciati a terra raccolgono minuscole briciole di pane dal suolo polveroso, in cui l'aria è impregnata del tanfo di corpi umani non lavati e di escrementi. Ma questo è solo un particolare del quadro. Molti profughi afgani vivono già da anni in Pakistan. Alcuni di loro hanno un lavoro regolare, altri fanno piccoli mestieri. A Peshawar, città di frontiera ai piedi del KhyberPass, esiste un'università solo per gli afgani. Sono cittadini senza cittadinanza, un popolo in esilio.

Esiste un terzo gruppo: quelli che sono diventati nomadi per necessità economica. In autunno, prima che cada la neve, entrano nel campo pachistano come profughi afgani. Poi, in primavera, si fanno assegnare dall'Acnur il frumento per la semina e ottengono un sussidio di rimpatrio di cinquemila rupie, più o meno 90 euro. Di questa storia nessuno parla volentieri, perché l'Occidente ha un atteggiamento curiosamente ambiguo nei confronti dei profughi. Come se le persone che, per reagire alla miseria, adottano strategie di sopravvivenza, si macchiassero di un'infamia.

 

Assedio all'ambasciata

 

Dall'11 settembre c'è un altro problema a proposito dei profughi, che riguarda in particolar modo i tedeschi. Da qualche tempo, sull'alta muraglia di recinzione dell'ambasciata tedesca a Islamabad spicca un avviso: fino a nuovo ordine l'ambasciata non rilascerà più visti, né di visita né di transito né per affari. Si fa eccezione solo per gli uomini d'affari siano stati già in precedenza in Germania.Davanti all'ambasciata si sono n nati postulanti d'ogni genere: gíovani, madri vestite di stracci con in braccio bambini piccolissimi; famiglie intere a coltivare i loro campi. figli ben pettinati e azzimati; persino uno o due signori evidentemente benestanti. Alcuni sonnecchiano sotto  tende d'emergenza de militare, altri aspettano  seduti sulle panche di legno, ancora fanno la fila di front portone d'ingresso sprangato e protetto da una cancellata. L'ambasciata li fornisce di acqua e corrente elettrica per ventilatori installati nelle tende. Nient'altro.

 

Se qualcuno esce dal portone, la gente lo assale domandandogli come ha fatto a entrare. La risposta è sempre stessa: è impossibile, a meno di non avere il passaporto tedesco. Anche qui, come al confine di Turkham, ci sono de regole.