Il paese che fu e che (forse) sarà articolo
tratto dal Misna |
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IL PAESE CHE FU E CHE (FORSE) SARÀ Questo immenso territorio, da sempre cerniera tra mondo
mediorientale e indiano, è come uno spettro: appare improvvisamente nel corso
della storia col solo scopo apparente di rimettere in discussione equilibri,
alleanze e interessi strategici. Al mito di un popolo indomito e di una società
multietnica si affianca il dramma di una civiltà fermata nella sua corsa alla
modernizzazione e alla democrazia. "L’intero mondo abitato mai ha visto
una città come quella che era divenuta Herat sotto il segno del sultano Husain...
La sua era un’epoca meravigliosa; il Khorasan e soprattutto Herat ospitavano
in abbondanza uomini dotti e inimitabili. Qualunque fosse l’opera che uno si
proponeva, mirava e aspirava a portarla alla prefezione". Sono parole
tratte da una cronaca del XV secolo e testimoniano il periodo d’oro dei
sovrani timuridi, discendenti diretti di Tamerlano. Herat si trova in
Afghanistan, una terra che nell’immaginario collettivo evoca grandi montagne e
vallate brulle e che le cronache hanno portato drammaticamente alla ribalta,
mostrando una terra martoriata dai conflitti interni, chiusa in un isolamento
volontario dal regime dei talebani, con migliaia di persone che tentano la fuga
per aggiungersi ai milioni di profughi da anni in Pakistan. Una terra povera, ma
che è stata ricchissima. Alle spalle ha una cultura millenaria: "Dai
persiani di Ciro il Grande ai greci di Alessandro Magno, dai sassanidi agli
arabi, in questo straordinario crocevia della storia si sono incontrate,
confrontate e fuse un numero impressionante di civiltà - afferma Antonio
Barletti, 52 anni, fotografo ed etnografo - Qui è nata l’arte gandhara in cui
si integrano elementi stilistici greci, romani, partico-iranici e indiani. E
negli stessi anni in cui Lorenzo il Magnifico fa della sua corte il più fecondo
cenacolo artistico di tutti i tempi, Herat diventa la Firenze dell’Asia
centrale". Barletti ha scritto diversi libri su questa regione, tra i quali
In memoria dell’Afghanistan e Afghanistan prima e dopo, avvalendosi di fonti
di prima mano: tra queste, padre Giuseppe Moretti, barnabita, addetto alla
cappellania dell’ambasciata italiana, unico rappresentante della Chiesa
ammessa nella capitale sia pure con l’obbligo di non fare proselitismo. Ma si
sta parlando di vent’anni fa: il ‘prima e dopo’ è, infatti, l’invasione
da parte dell’Unione Sovietica alla fine del 1979, vero e proprio spartiacque
nelle vicende di quel territorio. "In Italia siamo tutti per la pace -
commenta -, ma fa specie vedere tra i pacifisti autorevoli rappresentanti di
quella che era l’ala kabulista di un partito comunista molto forte, capaci di
condannare ufficialmente l’invasione da parte dell’Urss ma nel contempo di
boicottare tutte le iniziative tese a mostrare quello che stava
succedendo". Dall’invasione sovietica Barletti, fondatore e animatore del
Centro Ricerche Etnografiche e Ambientali (Crea) che ha sede a Firenze e a
Bologna, è tornato da quelle parti altre tre volte, riportando la sensazione
che nulla sarà più come prima. Un esempio: alla fine degli anni ‘70 in
Afghanistan vivevano due milioni di nomadi, a fronte di una popolazione mondiale
nomade di 15 milioni. |