Islam e donne: una risposta a
Mentasti
TRADIZIONE O REPRESSIONE?
Giuliana Sgrena
Perché tante donne algerine si sarebbero fatte uccidere pur
di non piegarsi al diktat dei fondamentalisti islamici che voleva imporre loro
il velo?
Vorrei rivolgere questa domanda a Laura Mentasti che sul numero sette della
rivista del manifesto ha scritto - oltre che "il velo assume valenze diverse", e
questo è vero - anche "inaccettabile elemento di segregazione e violenza in
alcuni casi, esso diventa simbolo della volontà femminile di identità e
riscatto". Pur non dimenticando, come diceva la femminista algerina Khalida
Messaoudi, che comunque sotto il velo c'è una donna, se il velo ha un valore
simbolico sicuramente non è quello del riscatto delle donne. Anche chi aveva
creduto a un valore rivoluzionario del ciador, come molte donne iraniane al
tempo della rivoluzione islamica, ha dovuto ricredersi e l'ha pagato duramente.
D'altra parte, se fosse un simbolo del riscatto delle donne perché dovrebbero
essere i maschi a imporlo?
Anche sulla questione dell'identità il valore del velo non è sempre così
evidente. Per rimanere ancora al caso algerino - non tanto e non solo perché è
quello che conosco meglio, ma anche perché è stato considerato
dall'internazionale islamista come un laboratorio per tentare la presa del
potere in un paese con una presenza laica - le donne che si sono battute contro
il velo erano proprio quelle che hanno fatto la guerra di liberazione contro il
colonialismo e che sono cresciute con i valori dell'indipendenza. Caso mai,
erano le più giovani che, in crisi di valori, frustrate dall'impossibilità di
raggiungere un livello di vita occidentale, si convincevano a portare il ciador,
perché di ciador si trattava e non del velo tradizionale algerino. E anche se di
tradizione si trattasse, non può essere considerata come fossilizzata,
altrimenti anche noi come minimo dovremmo portare il fazzoletto in testa come le
nostre nonne. Se la modernità anche religiosa rappresenta una rottura, questa
non è con la tradizione, ma con una certa tradizione. "Andare contro una
tradizione fossilizzata, vuol dire reintrodurre il principio della pluralità dei
significati, cosa che equivale a una continua ricerca del senso. Significa
riscoprire, rivisitare la tradizione islamica dell'età dell'oro, prima che fosse
congelata per secoli", come scrive la sociologa algerina Leila Babes1.
Altrimenti s'impongono dei codici della famiglia che risalgono alle scuole
giuridiche (d'interpretazione del Corano) di seicento anni fa.
Peraltro i movimenti islamisti che vogliono distruggere anche quelle poche
conquiste fatte dalle donne nei paesi musulmani parlano di reislamizzazione
contro la permissività di un islam tollerante. Non si tratta né di religione in
senso stretto né di tradizione, ma di un movimento politico che si fa scudo
della religione per imporre una teocrazia, un califfato dove vige l'intolleranza
verso il diverso, verso la differenza anche, e soprattutto, di genere. Il velo
assume quindi un valore simbolico perché deve cancellare questa differenza,
relegando la donna alla sfera privata. Il velo sancisce la separazione tra il
pubblico e il privato, tra l'esterno e l'interno, l'esclusione della donna,
simbolizza la segregazione dei sessi, che può spingersi agli estremi con il
burqa imposto dai taleban, ma che risponde comunque sempre allo stesso
principio. Il velo è il simbolo del controllo della sessualità della donna che
raggiunge la sua massima aberrazione nella mutilazione genitale. Il velo - e non
a caso il termine arabo hidjab, secondo l'Enciclopedia dell'islam, vuol dire
membrana che protegge una parte del corpo, imene, per l'appunto - viene imposto
alla donna dopo la prima mestruazione e deve essere portato sempre tranne che in
presenza dei maschi di famiglia con i quali un rapporto sessuale
rappresenterebbe un incesto. Per questo, altrettanto simbolicamente, il rifiuto
del velo assume un carattere emancipatorio, di progresso e modernizzazione. Una
modernizzazione della società che passa attraverso la secolarizzazione.
Oggi i movimenti islamisti che negano qualsiasi forma di laicità, presente anche
nei paesi musulmani, vengono presentati - anche, anzi forse più, in Occidente -
come l'elemento di continuità ideologica o politica nella storia musulmana. Non
è affatto così. L'islamismo, "al contrario, costituisce una rottura recente
nella storia moderna segnata, come nella storia delle società non musulmane,
dalla secolarizzazione empirica tanto dirompente quanto inevitabile", sostiene
il politologo siriano Burhan Ghalioun2. Una rottura del processo di
modernizzazione provocata dal fallimento dei progetti di sviluppo e di
costruzione nazionale, che ha rimesso in discussione le politiche e le ideologie
moderniste.
In questo contesto si sono sviluppati anche i movimenti delle donne che si
confrontano con il nord senza atteggiamenti di subalternità. Anzi. L'accusa che
essi ci muovono non è quella di imporre valori occidentali ma di voler negare
loro il diritto di rivendicare valori universali. Infatti oggi assistiamo al
paradosso che sono donne provenienti da paesi musulmani, ma che vivono nel pieno
consumismo occidentale, a sostenere, insieme ai fautori del relativismo
culturale di casa nostra, l'uso del velo e il rispetto delle tradizioni per le
"sorelle" che ancora vivono nei paesi di origine.
Naturalmente le elaborazioni, o semplicemente la voce, delle femministe o delle
donne democratiche dei paesi del sud del mondo arrivano al nord con difficoltà,
per mancanza di mezzi a disposizione e anche in Occidente c'è poca disponibilità
ad ascoltarle e sensibilità per capirle.
A Pechino c'erano e si sono fatte sentire, hanno cancellato l'alibi dello
pseudocolonialismo di chi le vorrebbe relegare a uno stato di subalternità.
Dalla fine del colonialismo molta strada è stata fatta. Non a caso, almeno per
ora, sono state le donne a sconfiggere i fondamentalisti in Algeria. E vedere le
ragazze per le strade d'Algeri senza ciador e con la minigonna dà un senso di
libertà e non di ritorno del colonialismo. Caso mai il soffocamento da nuova
colonizzazione l'ho vissuta di recente in Somalia, dove i sauditi, in cambio di
aiuti ,stanno imponendo i loro costumi alle donne e nelle scuole lo studio
dell'arabo invece che della lingua locale.
note:
1 Leila Babes, L'altro islam, Edizioni lavoro, 2000
2 Burhan Ghalioun in Confluences, n 33, primavera 2000.
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