Quanto stiamo vivendo ci dice che è più
che mai tempo di riflettere e cercare di capire. Anche il terrorismo non nasce
per caso e all’improvviso. Può esserci di aiuto l’analisi dell’esperienza
algerina, presentata da mons. Teissier al colloquio "Intolérance et
pluralité", Parigi, 12 dicembre 1999.
Le cause della crisi algerina
e della violenza che ne è derivata sono molteplici. Per enumerarle, preferisco
seguire questo ordine, che mi sembra cronologico: le cause politiche, le cause
culturali, le cause economiche, le cause religiose, la responsabilità specifica
dell’islamismo violento.
LE CAUSE POLITICHE
Tutti gli osservatori hanno sottolineato la
responsabilità di coloro che hanno deciso di interrompere il processo
elettorale tra la prima tornata del 26 dicembre 1991 e la seconda, prevista
per il 14 gennaio 1992. La decisione ha scatenato la violenza e le ha dato una
legittimazione nell’opinione pubblica nazionale e internazionale.
La decisione di interrompere il processo elettorale non può
però essere attribuita a un ristretto gruppo di responsabili militari: si sa
che estese correnti dell’opinione nazionale avevano manifestato la loro
opposizione ai risultati della prima tornata e gridato la loro volontà di
sottrarsi alla vittoria del Fis (Fronte islamico di salvezza), che
appariva ineluttabile.
Queste cause politiche immediate della crisi non
devono nascondere le radici politiche più remote. È evidente che il sistema
del partito unico non aveva permesso lo sviluppo della cultura democratica.
Lo stesso Fln (Fronte di liberazione nazionale) è nato dal bloccaggio
della concertazione tra le correnti politiche indipendentiste, prima del 1954.
Nel 1962, l’accesso al potere di Ben Bella era un colpo di stato contro il
potere legale di Benkhedda. Il sistema del partito unico venne imposto al paese,
nonostante le contestazioni di Boudiaf e del Ffs (Fronte delle forze
socialiste). Anche Boumedienne, in seguito, è giunto al potere con un colpo di
stato.
Il sistema del partito unico era allora molto diffuso, nei
paesi del Sud, e forse era inevitabile in nazioni che dovevano innanzitutto
dotarsi di uno stato forte. Ma più ancora del partito unico, è l’esercito
che venne ad occupare un posto particolare nell’orientamento del paese. Contro
questo sistema si ebbero esplosioni popolari, in particolare nel 1963 e
nel 1980: le sommosse del 1988 segnarono la fine del potere del partito unico e
gli inizi del multipartitismo con la legge sulle Associazioni a carattere
politico del 1989. Così i 27 primi anni di indipendenza, riducendo al silenzio
le opposizioni, non avevano preparato la maturazione di un pluralismo politico. L’opposizione
islamica appariva, allora, a molti, come il solo quadro possibile per
esprimere una volontà di cambiamento. È il significato che venne attribuito al
voto del 26 dicembre 1991.
LE CAUSE CULTURALI
Non sono meno importanti delle cause
politiche. Per evidenti ragioni d’identità, il partito unico ha ben presto
imposto l’arabizzazione. Era normale e necessaria, dopo 130 anni di presenza
coloniale, in cui il francese aveva occupato tutti gli spazi della vita politica
ed economica. I problemi non sono venuti dall’arabizzazione. Io stesso l’ho
aiutata, partecipando alla creazione di un Centro diocesano che lavorava in
questa direzione e di un Istituto pedagogico arabo e insegnando l’arabo per
dieci anni, sia agli stranieri che ai quadri algerini.
Per lo stato, il problema è venuto, invece, dall’assenza
di un quadro moderno di formatori di lingua araba. Mancando diplomati delle
università moderne, l’Educazione nazionale ha dovuto largamente ricorrere a
insegnanti d’arabo provenienti dalle formazioni tradizionali (scuole coraniche,
scuole degli ulema) o dalle università tradizionali dei paesi vicini. La
maggioranza di questi insegnanti non aveva avuto contatti con l’insegnamento
moderno; sono perciò facilmente entrati nella visione della cultura
arabo-musulmana recata dai professori cooperanti del Medio Oriente. Questi,
soprattutto gli egiziani, hanno spesso veicolato una lettura fondamentalista
della cultura arabo-musulmana.
Inoltre, l’occupazione del terreno economico da
parte dei "francesizzanti" faceva crescere, in molti, un desiderio
di rivincita culturale nei confronti degli algerini francesizzanti, che
apparivano come gli agenti di un neocolonialismo culturale. Il terreno era
pronto per una crescita dell'integrismo. Certi programmi ufficiali contenevano
affermazioni esplicitamente razziste e antisemite.
Le tensioni crebbero tra gli "arabizzanti" e i
"francesizzanti", non solo perché il potere passava dai secondi ai
primi, per lo meno nell’Educazione nazionale, ma anche perché le categorie di
pensiero erano inconciliabili. Ma va detto che numerosi autori "arabofoni"
algerini hanno proposto una lettura progressista della società.
LE CAUSE ECONOMICHE
Nonostante l’importanza delle cause
politiche e culturali, va detto che le prime manifestazioni popolari contro lo
stato e il partito unico hanno avuto, come cause immediate, soprattutto dei
motivi socio-economici: il malessere dei giovani, la disoccupazione, la carenza
di alloggi e di strutture associative…
Il discorso populista del partito unico sbandierava
continuamente i diritti del popolo, ma intanto una nomenklatura ben piazzata
si arricchiva. Prima nascosta, questa ricchezza è apparsa in piena luce
negli anni ’80, durante il periodo di Chadli. Proprio nel momento in cui la
pressione demografica moltiplicava i disoccupati, le famiglie non avevano per
alloggio che una sola stanza e i giovani non avevano i mezzi per mettere su
casa, la ricchezza di una classe privilegiata sfoggiava macchine di grossa
cilindrata e ville lussuose.
La rivolta dell’ottobre 1988 era innanzitutto la
protesta di questi giovani senza speranza di trovare un posto nella società.
Hanno colpito i simboli dello stato e del partito unico, che li avevano
ingannati: i dollari del petrolio avevano creato fortune illegali, lasciando
crescere disoccupazione e disuguaglianze.
A partire dagli anni ’90, la ristrutturazione
dell’economia, che dal capitalismo di stato passava all’economia di
mercato, aggravava ulteriormente la crisi: bloccava ogni possibilità di
assunzione e moltiplicava i licenziamenti. Nello stesso tempo, veniva chiusa la
valvola di sicurezza rappresentata dall’emigrazione verso l’Europa, satura
di manodopera. Tutto era pronto per l’esplosione.
LE CAUSE RELIGIOSE
Le cause finora esaminate non sono sufficienti per
capire la crisi algerina. Una gravissima deviazione del discorso religioso
ha fornito la giustificazione morale alle peggiori violenze. Senza questa
rimozione dei divieti, una popolazione abituata da secoli a sottomettere i
propri atti alle norme della tradizione non si sarebbe mai lasciata sopraffare
dagli eccessi sanguinari che conosciamo.
Si deve innanzitutto riconoscere l’errore di Boumedienne,
che non si è interessato ai problemi di formazione religiosa. Non ha creato un
insegnamento superiore della religione. Ha lasciato i fondamentalisti
tranquillamente redigere dei manuali d’insegnamento religioso e organizzare
dei seminari del Pensiero Unico in contraddizione con il suo progetto di
un’Algeria moderna.
L’Università religiosa di Costantina e le istituzioni
similari di Algeri, Orano, Adran, Tamanrasset si sono aperte solo all’epoca di
Chadli. Sono state a lungo nelle mani degli universitari fondamentalisti,
algerini o stranieri… Così, quando sorsero le correnti islamiche, poche voci
musulmane competenti erano in grado di controbattere le letture dell’islam che
il fondamentalismo proponeva ai giovani.
Il contrappeso, che l’islam tradizionale delle zaouie
avrebbe potuto presentare, era stato annullato dal periodo del partito unico,
geloso della sua autorità. Del resto era già uscito indebolito dal contrasto
con il movimento degli ulema. Il terreno era libero per l’affermarsi
delle letture fondamentaliste dell’islam, sviluppate nel Medio Oriente
a partire dagli anni trenta e diffuse nelle moschee algerine attraverso opuscoli
popolari, cassette, incontri serali. In più l’attivismo sociale (prodotti
distribuiti a basso prezzo, corsi serali per il ricupero dei corsi
scolastici…) dava un volto di credibilità a questa "nuova
società di uguali" sognata dalle classi povere, a cui si ispiravano anche
credenti sinceri, scioccati dal lusso dei nuovi ricchi.
LA RESPONSABILITÀ DEGLI
ISLAMICI VIOLENTI
Per spiegare il passaggio alla violenza nella crisi
algerina non bisogna mascherare la parte determinante del fondamentalismo
estremo, che legittimava religiosamente l’uso della forza contro i nemici
di Dio. L’esponente primo di questa tendenza è stato Ali Benhadj. È
diventato la figura di maggior spicco dell’estremismo dei giovani. Ben prima
del processo elettorale del gennaio 1992, aveva fatto della ripresa della jihad
la prima fedeltà del musulmano.
Da notare che questa guerra santa non doveva essere condotta
innanzitutto contro gli infedeli esterni (gli stranieri, i cristiani, gli ebrei
…) ma contro i musulmani stessi all’interno del paese: la maggior
parte dei musulmani stessi sono, da questi estremisti, ritenuti infedeli che
hanno abbandonato la legge di Dio.
Ecco una citazione di Ali Benhadj, prima ancora
dell’interruzione del processo elettorale: "La democrazia è la parola
dell’empietà, significa potere del popolo. Nella nostra religione, non
esiste che un solo potere sugli uomini, quello di Allah. Noi siamo la nazione
del Corano, la nazione di Mohamed… Noi non ci sottomettiamo alla maggioranza,
ma a ciò che è conforme alla sharia… Se il popolo vota contro la
legge di Dio, è una bestemmia. Gli ulema ordinano in questi casi di
uccidere questi miscredenti, per la giusta ragione che questi vogliono
sostituire la propria autorità a quella di Dio, o il pluralismo nel quadro
dell’islam… Il musulmano non può ammettere il sorgere di partiti che sono
in contraddizione con l’islam".
Il discorso degli estremisti è chiaro. Dio affida ai suoi
fedeli (gli islamici estremi) la missione di purificare le società musulmane
e la società internazionale da tutti gli infedeli. Tutti i volantini
propagandistici del Gia (Gruppo islamico armato) si rifanno a questa
logica.
L’importanza delle legittimazioni religiose della
violenza è divenuta evidente quando le autorità musulmane islamiche del
Medio Oriente hanno cominciato loro stesse a denunciare i crimini commessi dai
loro adepti. La prima denuncia netta e collettiva è avvenuta molto
tardivamente, nel 1998, dopo 80mila vittime. Una delle autorità di questa
tendenza, lo sceicco Albani dello Yemen, ha preso chiaramente posizione solo nel
1999, un mese prima della morte.
La relazione tra religione e violenza appare chiara ogni
anno all’avvicinarsi del Ramadan. Tutti s’aspettano un "Ramadan
di sangue", convinti che, per gli islamici armati, il mese per eccellenza
della religione debba essere il mese privilegiato della loro violenza contro il
popolo infedele.
CONCLUSIONE
Abbiamo visto la complessità e
l’intreccio delle cause della crisi algerina. Ma è chiaro che l’estremismo
religioso ha un ruolo in queste violenze. Ha fornito il riferimento
ideologico necessario a dare coerenza al movimento della rivolta armata. Si
tratta, evidentemente, di una lettura estremista dell’islam. La grande
maggioranza della gente voleva un cambio di costume politico. Inizialmente molti
hanno dato fiducia al movimento islamico per realizzare questo cambio. Ma quando
la violenza è diventata un’arma ideologica giustificata religiosamente, la
gente ha progressivamente preso le distanze. Quando la violenza si è
espressa con l’assassinio delle famiglie, gli stupri e gli attentati
terroristici, la maggioranza degli algerini ha rifiutato questa lettura
dell'islam. Era inorridita da un simile ricorso a uccisioni insensate. Non
vi riconoscevano l’islam dei loro parenti e delle loro origini.
L’estremismo ha suscitato in molti musulmani una
riflessione cosciente sulla propria identità musulmana. Molti sono oggi i
musulmani algerini che trovano il modo di mostrare con segni concreti la loro
adesione a un islam di pace e di rispetto dei diritti umani.
Per questo sono contento di poter concludere con un
brano della lettera ricevuta da una dottoressa algerina, musulmana. Rivela
quanto molti amici ci hanno espresso, in mille modi, dopo l’uccisione dei
sette monaci o degli altri religiosi, vittime della violenza durante la crisi
algerina: "Vengo al fatto più orribile, l’assassinio dei monaci di
Tibhirine, che per me è stato peggio di un sacrilegio. Non riesco neanche ad
ammettere che sia avvenuto. Come musulmana, ho urlato. Vergogna per il sangue
versato di persone del culto di Dio; vergogna per il mio popolo, per il mio
paese; orrore e vergogna per la mia religione! Oggi, nel leggere l’articolo
del giornale che parlava di loro, le lacrime mi hanno inondato il viso, il cuore
lacerato dal dolore. Ho pianto come se fossero stati uccisi ora, come se mi
avessero dato la notizia della perdita di una persona cara. Quanta miseria, mio
Dio, quanta sofferenza, quanta ignoranza. Effettivamente, questi monaci sono
nostri fratelli in Dio! Sono nostri fratelli in umanità! Il vostro dolore è
mio, è nostro. Penso che è Dio a volere la presenza della chiesa cristiana
algerina nella nostra terra d’islam. Dio è onnisciente e ciò che dovrà
avvenire dovrà esserlo con voi. Che questo si avveri".
Questa lettura mette in risalto quanto affermavo. Le prove
della comunità cristiana sono, nello stesso tempo, quelle di molti nostri amici
musulmani. È una crisi vissuta insieme, che prepara, oltre la violenza
provocata dal fanatismo, un livello più profondo delle relazioni tra musulmani
e cristiani.
LE RESPONSABILITÀ
NEL RICORSO ALLA VIOLENZA
Si possono
misurare le responsabilità nel ricorso alla violenza, ponendo a confronto i due
movimenti islamici, il Fis (Fronte islamico di salvezza) e l’Hamas,
oggi Msp (Movimento della società per la pace). Quest’ultimo, pur
proponendo una ricostruzione della società algerina sulla base delle scelte
islamiche, non ha mai fatto appello alla violenza, almeno dopo la sua
legalizzazione nel 1989.
Quando nel 1995, a Roma, è stata presentata una piattaforma
per la pace, questo movimento si è ritirato dalle discussioni perché il
ricorso alla violenza non era da loro ritenuto sufficientemente condannato dai
loro rivali del Fis. Il loro numero due, Bouslimani, venne assassinato e
il suo corpo tagliato a pezzi perché aveva rifiutato di legittimare il ricorso
alla violenza. Altri 250 militanti del movimento vennero assassinati da parte
dei fautori della violenza sacra
HENRY TEISSIER
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DIO È
FANATICO?
I monoteisti non sono stati, non lo sono
– lo saranno totalmente in futuro? – all’altezza della difficile missione
che è stata loro affidata, essere dei Giusti e testimoniare: perché, detto
banalmente, non sono che uomini, né migliori né peggiori degli altri uomini.
L’intolleranza è nell’humus dell’uomo e, per un fenomeno
psicologico naturale di transfert, egli la proietta sempre sull’Altro,
sul totalmente Altro
È sull’uomo, quindi, che dobbiamo interrogarci, non su
Dio. Credenti o non credenti, siamo tutti interpellati. Lo conferma la
storia. Ma non si può rifare. Però possiamo impararne le lezioni per il
futuro, senza perderci in geremiadi puerili o in stupide apologetiche.
L’intolleranza e il fanatismo non sono una fatalità.
Invece di lavarcene le mani oppure – cosa che ha la stessa radice – darne la
responsabilità a Dio, uniamo tutti i nostri sforzi – monoteisti, credenti di
ogni confessione, agnostici e non credenti di ogni tendenza – per sradicarli
insieme. Perché gli intolleranti e i fanatici si trovano dovunque.
Possiamo essere ragionevolmente ottimisti. Un processo è in
atto, che, come dice Jean Mouttapa, "farà del dialogo con la
fede degli altri uno dei dati centrali dell’esperienza religiosa".
MOHAMMED TALBI
(La Croix, 28 marzo 1997)
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