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La cuna vacía

di fr.Antonio Soffientini dalla Colombia

LA CUNA VACÍA

La culla vuota

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Hola para todas y todos,

Come state? Come avete passato le feste natalizie? Spero bene e sono sicuro che il nuovo anno iniziato per tutte e tutti voi nel migliore dei modi.

Con queste righe vorrei compartir un poco con voi la esperienza di missione che io e Pablo (un fratello spagnolo arrivato nella comunità il mese di Agosto) abbiamo vissuto nel piccolo paese della Guayacana (in realtà si tratta di una frazione del Municipio di Tumaco nel sud-occidente colombiano, costa Pacifica). Le cose da dire, da condividere, da raccontare sarebbero tante, spero di non stancarvi molto e soprattutto spero che riusciate a comprendere il mio italiano sempre più … confuso.

Da dove iniziare?

Comincio dicendovi che questa per me era la seconda volta a Tumaco (già l’anno passato avevo vissuto lì l’esperienza di missione di Natale) e quindi si è trattato in un primo momento di un ritornare, un incontrare di nuovo persone conosciute, un sentirsi accolto, una volta di più, da gente amica, amabile, molto accogliente. L’emozione era forte quando con il bus si passava per i paesi di Altaquer, Ricaurte, Junin, la Guayacana, El Diviso, Llorente, Tumaco. Emozione e curiosità nel vedere (semplicemente dal finestrino dell’autobus) se qualcosa era cambiato in questi piccoli paesi. Emozione e curiosità per poter incrociare (semplicemente per un istante) lo sguardo delle persone conosciute.

E già qui possiamo fermarci e fare una piccola riflessione. Era abbastanza chiaro che in un anno le cose erano cambiate e sicuramente non in senso positivo. A Junin l’autobus deve fermarsi a un posto di blocco (illegale) dei paramilitari che ci permettono continuare il cammino senza troppi inconvenienti. Passiamo per El Diviso e tutto è tranquillo. Pochi chilometri dopo ci dobbiamo fermare di nuovo e questa volta a un posto di blocco dell’esercito. Arriviamo finalmente a Llorente .

Mi ricordavo la piazza della chiesa piena zeppa di bancarelle del mercato e la musica a tutto volume (che non ti lasciava dormire). Il paese che incontro è diverso: la piazza della chiesa è vuota, le bancarelle sparite, la musica che quasi non si sente e in tutti i muri elle case la scritta grande AUC (“Autodefensas Unidas de Colombia”), i paramilitari. Mi avvicino a Tumaco con la sensazione che la vita per la gente che vive li è molto cambiata, sarebbe meglio dire, peggiorata.

Arriviamo finalmente, dopo 15 ore di viaggio, a Tumaco e alla casa Estrella del Mar ci incontriamo con alcuni sacerdoti diocesani che tutte le domeniche condividono il pranzo e gli avvenimenti successi nella settimana. Loro ci danno una prima introduzione alla realtà che incontreremo in questi giorni e l’idea che le cose erano cambiate in peggio è confermata. La strada che da Pasto porta fino a Tumaco è praticamente divisa tra i gruppi che sono i protagonisti del conflitto che da più di 50 anni attanaglia la Colombia. La gente che vive nei paesi a lato della strada si trova sempre più coinvolte in una guerra sporca dove tutti sono contro tutti e dove il problema delle coltivazioni di coca - e quindi del narcotraffico - è oggi uno dei nodi centrali. Questa è la realtà che ci aspetta in questo mese: con questa gente ci viene chiesto di condividere la Novena e il tempo di Natale.

Mi ritornano alla mente una frase del vangelo di Giovanni e due di Comboni che mi sono segnato all’ultimo giorno di ritiro fatto in comunità e che tengo come guida per questa esperienza di missione:

“Sono venuto perché tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza”

“Condividere la vita con i più poveri e abbandonati”

“Io voglio fare causa comune con ognuno di voi

e il giorno più felice della mia vita sarà

quello in cui potrò dare la vita per voi”

Mi chiedo che cosa significano queste parole in questa situazione, che cosa significa vivere tutto questo, se ne sarò capace.

Alla sera partecipiamo alla Celebrazione Eucaristica nella chiesa della Mercedes e affido tutto questo nelle mani del Dio della Vita: che sia Lui la nostra guida, la nostra luce ed il nostro cammino.

Monseñor Gustavo (il vescovo di Tumaco) ci lascia una lettera dove ci comunica, tra le altre cose, la destinazione per questa esperienza: si tratta del pueblo della Guayacana che fa parte della parrocchia di Llorente e cosi ci mettiamo in contatto con Padre Manlio (il parroco) e ci spostiamo a Llorente per “iniziare” l’esperienza.

Parliamo con Manlio che ci presenta un poco la situazione che si sta vivendo li;  non c’è bisogno di molte parole. A Llorente adesso comandano i paramilitari che da non più di una settimana si sono “tomados el pueblo” – presi il paese – aiutati dall’esercito (per la gente di qui non c’è nessuna differenza fra esercito e paramilitari) e frutto di questa “toma” è stato il massacro di 14 persone, uccise e poi fatte letteralmente a pezzettini con una motosega. In verità la notizia era apparsa in Internet e successivamente nei giornali però subito smentita.

Mi chiedo perché ma la risposta è molto semplice. Il governo del presidente Uribe ha iniziato un processo di pace con i gruppi paramilitari che operano in Colombia e nel mese di Novembre tutto il paese ha potuto assistere alla prima mobilitazione di un gruppo di più di 800 paramilitari, che hanno consegnato le armi e hanno iniziato il processo di reinserimento nella società. C’è un grande dibattito in corso in Colombia riguardo a tutto questo processo. Le ONG, le organizzazioni di difesa dei diritti umani, una parte della società civile accusano Uribe perché dicono che si tratta di una semplice operazione di immagine e che non si può parlare di un processo di pace quando si parla di impunità senza considerare la giustizia. Il fatto di Llorente lo possiamo leggere in quest’ottica; adesso non conviene che la gente conosca questi avvenimenti: potrebbero guastare, non tanto il processo di pace che è tutta una montatura, quanto la immagine del presidente che continua tenendo una grande popolarità a spese di una situazione che, giorno dopo giorno, peggiora per quanto riguarda le condizioni di vita della gente di Colombia. Se questa è la situazione di Llorente Padre Manlio ci comunica che a la Guayacana ci incontreremo con un “pueblo guerrilliero”: significa che lì a 10 Km da Llorente comanda la guerriglia delle FARC.

Arriviamo finalmente alla Guayacana e ci sistemiamo nella casa a lato della chiesa. La gente ci aspettava, viene alla casa, ci saluta, ci porta frutta e subito si stabilisce un buon clima. Nel pomeriggio facciamo una prima riunione con la gente e stendiamo un primo programma delle attività. Ogni giorno la celebrazione della Parola ci aiuterà a prepararci alla Novena (che sarà il momento forte di questa esperienza) e per la mattina incontro con la gente, visita alle famiglie e anche incontri con le comunità del Pinde e del Km 85 dove celebreremo la Novena.

I giorni passano veloci, entriamo sempre più nella vita e nel ritmo della gente della Guayacana. Si tratta di un paese tranquillo, abitato da gente semplice, umile e dedicata al lavoro; gente che gusta la vita, la musica, il ballo, la fiesta, come tutta la gente di Colombia. Le persone conosciute i primi giorni adesso diventano “familiari” e quando parliamo con Ariel, la signora Maria, Leidy, Viviana, la signora Lina, Librada, Gabriel, Patrona, Edgar, Yolanda, Carminia, Irene, è come se stiamo parlando con familiari e amici che conosciamo da anni. Con loro ogni giorno c’incontriamo e compartimos la Palabra de Dios - condividiamo la Parola di Dio -, il Vangelo del giorno e cosi ci prepariamo a vivere il Natale. La fede grande, semplice e profonda di questa gente ci insegna molto. Tutto questo mi sta aiutando a vivere questo Natale nella semplicità, sicuro che questo è il vero significato del mistero dell’Incarnazione. Ogni giorno le tre frasi che avevo scelto come guida per quest’esperienza mi ritornano in mente ed assumono un significato sempre più profondo.

Arriviamo alla tanto attesa Novena. Non potevamo iniziare nel modo migliore! Ci visita il Monseñor, presiede la Eucaristia. La Chiesa è colma di gente e molta di più la incontriamo quando alle 7 della sera iniziamo il primo incontro della Novena. Quasi non c’è bisogno di suonare le campane: la chiesa si riempie di bambini, giovani, famiglie ed anziani e inizia la festa fatta di Villancicos (i canti di Natale), di musica, di drammatizzazioni del Vangelo, dinamiche e giochi, preghiere e riflessioni sul tema: il valore della vita. Così passano i giorni che ci preparano al Natale.

Mi dimenticavo di un particolare importante: la “posada”, la stanza. E’ l’ultimo atto della celebrazione di ogni giorno; si esce dalla chiesa con la statua della Vergine e si va in una casa (ogni giorno diversa) e lì, cantando, si rappresenta la scena di Maria e Giuseppe che chiedono ospitalità. Quando finalmente si aprono le porte della casa, la festa continua, cantando davanti al presepe. In alcune case la festa si è protratta fino all’una della notte e ai Villancicos si sono aggiunti “los arrullos”; era come tuffarsi nella cultura africana dei primi abitanti del Nariño.

Insieme a questa dimensione di festa, piano piano, ci siamo incontrati anche con la dura realtà della vita della gente. La guerriglia è la “ley”, la legge. Lo stato non esiste; se ci sono problemi da risolvere ci si rivolge direttamente alla ley. La regola che sembra governare nel pueblo è quella del più forte e quindi chi possiede le armi detiene il potere! Il narcotraffico e la relativa coltivazione di coca, hanno eliminato tutte le possibilità di coltivare qualcosa di diverso. Per i giovani del pueblo le possibilità sono due: o lavorare nei campi dei narcos o arruolarsi nella guerriglia. Il dolore per una morte violenta è un'altra caratteristica che unisce gli abitanti della Guayacana. In ogni famiglia abbiamo ascoltato storie di dolore e di sofferenza per familiari morti ammazzati, sequestrati, scomparsi.

Nella preghiera di quei giorni, semplicemente, riponevo nelle mani del Dio della Vita la sofferenza, il dolore di questa gente. Pensavo alla parola PACE; mi chiedevo che cosa significava per questa gente; che significava parlare del Natale come festa della Vita? Tutto questo lo riponevo nelle mani di quel Dio che ha voluto farsi uomo, soffrire e morire, per ricordarci il valore sacro della vita di ogni uomo e di ogni donna. La vita è un dono grande, è un mistero, è sacra e il Dio della Vita ci ha guidati (a suo modo)  nei giorni che mancavano alla celebrazione del Natale.

Tutto è cominciato quando gli abitanti della Guayacana hanno ricevuto “la visita” dell’esercito. Si sono fermati nel pueblo per tre giorni e si è trattato di una continua violazione delle norme del Diritto Internazionale Umanitario. Sono entrati nelle case della gente, hanno utilizzato mezzi civili per i loro spostamenti; questo significa coinvolgere i civili (che sono protetti dalle norme del Diritto Internazionale Umanitario) nel conflitto. Per la gente, queste “visite” dell’esercito sono un grosso problema perché: o preannunciano l’arrivo dei paramilitari; o sono occasioni per i gruppi insorgenti (guerriglia e paramilitari) per seminare il terrore nel pueblo uccidendo coloro che sono considerati “sapos”, rospi (collaboratori dell’esercito). Questa è un'altra assurdità di questa assurda guerra: l’esercito che dovrebbe essere l’ente che protegge la popolazione civile molte volte diventa un pericolo per la popolazione stessa.

Le immagini che mi rimangono dell’arrivo dell’esercito nel pueblo sono quella degli alunni del collegio che abbandonano la festa che stavano facendo prima delle vacanze di Natale e quella di Leidy, una giovane del pueblo che vive al lato della chiesa,  che ritornando dal collegio incontra un militare alla porta della sua casa, parla con sua madre e lasciano la casa. La mamma va da una amica e Leidy entra nella nostra casa e chiede il permesso di fermarsi da noi fino a quando il militare non abbia lasciato libera la casa perché dice: “Se passa la guerriglia e ci vede nella casa con un militare alla porta poi ritornano e ci ammazzano”. La paura della gente è palpabile semplicemente perché non sanno, però immaginano, quello che può succedere.

E arriviamo finalmente al 24 Dicembre. Alla mattina chiamiamo di nuovo la gente a una riunione perché ci aiutino a preparare la celebrazione della sera. La gente collabora, prepareranno i canti, l’offertorio, le preghiere dei fedeli. Ci rincontriamo il pomeriggio per sistemare il tutto, pulire la chiesa e tutto è pronto per l’ultimo incontro della novena e per la messa della notte. Nel villaggio c’è movimento, la vita di sempre, sembra ritornata la serenità e la tranquillità dei primi giorni. Pablo dirige la novena e io vado alla casa di don Carlos Bravo perché lui e sua moglie saranno la famiglia che al momento del Gloria porteranno il Niño Dios all’altare. La celebrazione è fissata per le 8 della sera così Pablo e io ci siamo accordati con Padre Manlio per incontrarci alle 7 e condividere un po’ prima della messa. Lascio la casa di don Carlos e mi fermo da Irene, una giovane madre di 28 anni che fa parte della Junta de Acción Comunal (JAC), che ha organizzato una piccola festa per i bambini del quartiere.

**********

Vi chiedo perdono se interrompo la sequenza degli avvenimenti ma credo che Irene meriti un posto tutto particolare.

Ho conosciuto Irene per caso; quando abbiamo detto che il Monseñor sarebbe venuto a inaugurare la novena la JAC ha deciso di pitturare l’esterno della chiesa. E cosi abbiamo condiviso con alcuni giovani un poco di lavoro e tra questi giovani abbiamo conosciuto Irene. Abbiamo subito avuto l’idea che si trattava di una “tipa particolare”, una leader. Lavora come “promotora de salud” nel villaggio. Lei ci ha un po’ introdotto nella situazione che sta vivendo la Guayacana e abbiamo approfittato della amicizia per tentare di rappacificare alcune situazioni di piccoli conflitti senza arrivare ai limiti e agli eccessi. Ho incontrato di nuovo Irene il giorno in cui il tema della Novena era quello della difesa della vita anche a rischio della propria. Abbiamo chiacchierato un poco dopo la posada e con molta semplicità Irene mi ha raccontato un poco della sua vita.

Ha un bambino stupendo di una anno e quattro mesi e lo voleva battezzare. Solo c’era un piccolo problema: il papà non poteva essere presente il giorno del battesimo. “Nessun problema Irene, puoi battezzare tuo figlio o se preferisci aspettare il giorno che il papà ritorna…puoi aspettare.” “Sai hermano, credo che il papà non ritornerà più. Quando il bambino aveva quattro mesi, i paramilitari hanno sequestrato mio marito e fino ad oggi non ho avuto notizia di lui. Ho sofferto molto, ho pianto molto e un giorno mi sono decisa: sono andata dai paramilitari e ho chiesto che liberassero a mio marito o che mi restituissero il cadavere se lo avevano ucciso.  Non ho ricevuto risposta.”

Io non avevo parole, Irene ha continuato a parlare. “I genitori di mio marito mi incolpano del sequestro e dal giorno della sua scomparsa  hanno deciso di non aiutarmi. Io vivo sola con la mia famiglia,  il mio papà ha un cancro alla prostrata e gli rimangono pochi mesi di vita. Voglio che mio figlio cresca bene, possa studiare e che soprattutto incontri un paese dove ci si rispetti e ci sia pace. Ed è per questo che ho deciso di mettermi nella JAC: per poter costruire una Guayacana migliore. La guerriglia ci minaccia di morte, però io voglio continuare fino a che ne avrò la possibilità”.

Sono rientrato a casa e mi sono fermato nella cappella. Persone come Irene sono la speranza per poter costruire un futuro di Pace. Pensavo a quante parole diciamo ogni giorno senza darci conto. Molte volte la speranza per costruire un mondo migliore sta al nostro fianco, nelle persone che il Dio della Vita mette sul nostro cammino. UN ALTRO MONDO E’ POSSIBILE se tutti vivessimo un poco del coraggio, dell’audacia e della fede nella vita, di Irene.

**********

Tentiamo riprendere il filo del discorso: stavo nella casa di Irene e mi sono accorto che le 7 erano passate già da alcuni minuti e che Padre Manlio ci stava aspettando. Saluto rapidamente e vado verso la chiesa. La vita del pueblo è animata, saluto alcune persone che incontro lungo il cammino dando loro appuntamento per la celebrazione Eucaristica. Arrivo alla casa e fortunatamente padre Manlio non è arrivato.

All’ingresso della chiesa mi aspetta Pablo e mi dice di chiudere le porte della chiesa; io non  capisco però Pablo insiste. Quando siamo soli mi dice che la guerriglia è giunta nel pueblo e che hanno ucciso tre persone. Il tutto è avvenuto da non più di 5 minuti. La guerriglia ha ucciso a Maizel, una giovane di 29 anni, sua madre e il compagno della madre. Maizel ha una bambina di tre anni che si è salvata dal massacro perché si trovava nella cappella aspettando che iniziasse la messa. I corpi sono lì al suolo davanti alla porta della casa che non dista più di 20 metri dalla chiesa. Semplicemente ascolto Pablo che mi racconta quello che è successo e poi ritorno correndo alla casa di Irene. Il mio pensiero era per i bambini che stavano nella casa.

Parlo con Irene, con Ariel e con gli altri giovani che s’incontrano nella casa. Chiedo che si deve fare per non lasciare i corpi all’asfalto come se si trattasse di uno spettacolo, perché almeno in questi momenti ci sia un minimo di rispetto per la dignità dell’uomo. La risposta è chiara: Hermano, tu e noi non possiamo fare niente. I cadaveri devono stare li; questa è la legge della guerriglia. Ritornando alla chiesa mi incontro con padre Manlio e con Pablo e decidiamo celebrare la Eucaristia. Suoniamo le campane e la gente si prepara per la messa.

Tutto è pronto quando ci chiama doña Maria e ci comunica che sta entrando nel pueblo l’esercito. C’è il rischio molto concreto di un possibile scontro fra esercito e guerriglia. E’ meglio che la gente ritorni alla casa e che la situazione si “normalizzi”. Nel pueblo scendono il silenzio e l’oscurità, solamente si sente il rumore dei blindati dell’esercito e alcune raffiche di mitra in lontananza. Con Padre Manlio andiamo dove giacciono i cadaveri e deponiamo una piccola candela accesa. La signora Maria ci invita alla sua casa e ci offre dei biscotti ed un poco di vino. Alle 9 di sera già tutto è terminato, rimangono i tre corpi nell’asfalto in un mare di sangue, una bambina di tre anni orfana, un silenzio irreale nel piccolo paese.

La chiesa rimane aperta e passo alcune ore lì, aspettando che vengano gli amici del Pinde dove devo andare per la Celebrazione della parola. Seduto sul pavimento, cerco di mettere un poco di ordine nella testa, nei pensieri e nel cuore. Sento un profondo dolore, sono triste e piango. Nella chiesa avevamo messo gli otto cartelloni con gli slogan che ci avevano guidato nei giorni della Novena. Tutti parlano della vita, però manca l’ultimo che con Pablo avevamo deciso di mettere alla porta della chiesa prima di iniziare la Celebrazione di natale e che dice: “AMA E SARAI FELICE”. Rileggo gli slogan e guardo alla culla che la gente aveva preparato nel pomeriggio con un tamburo, (uno strumento che utilizzano i cercatori di oro) e con fiori di camomilla.

E’ vuota manca la statua di Gesù Bambino. Fisso la mia attenzione nella culla vuota ed è il vuoto che tengo nel cuore questa notte. E’ il vuoto che hanno nel cuore tante persone della Guayacana che ci hanno avvicinato e piangendo ci hanno chiesto il perché di queste tre persone ammazzate. E’ il vuoto, il silenzio di Pablo e mio che non sappiamo che cosa rispondere ed è il perché che nel silenzio della preghiera grido al Dio della Vita in questa notte che doveva essere la festa della vita e che per tutti si è trasformata in una notte di silenzio, di dolore e di pianto. Leggo e rileggo il prologo del vangelo di Giovanni:

“In Lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini.

Veniva nel mondo la luce vera,

quella che illumina ogni uomo.

Egli era nel mondo,

e il mondo fu fatto per mezzo di lui

eppure il mondo non lo riconobbe.

Venne fra la sua gente

Ma i suoi non l’hanno accolto.

A quanti però l’hanno accolto

ha dato il potere di diventare figli di Dio”

Suonano dure le parole di Giovanni però lasciano spazio alla speranza. Dio della Vita ho il cuore pieno di dolore, non capisco e semplicemente grido “perché?” Aiutami a riconoscerti, a scoprire dove stai in questi momenti bui perché solo Tu sei la luce che ci può illuminare.

Arrivano gli amici del Pinde e vado con loro per la Celebrazione della Parola. Al Pinde il clima è totalmente diverso; nella cappella bambini e famiglie che dalle 7 della sera stanno facendo festa aspettando la mezzanotte. Mi chiedo come farò, che cosa dirò? Non posso leggere il Vangelo, non ne sono capace. Chiedo a Karina che si legga solo la prima lettura e le parole del profeta Isaia diventano un’invocazione al Niño Jesús in questa triste notte di Natale.

“Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.

Hai moltiplicato la gioia,hai aumentato la letizia.

Poiché tu hai spezzato il giogo che opprimeva il popolo.

Poiché ogni calzatura di soldato nella mischia

e ogni mantello macchiato di sangue

sarà bruciato.

Poiché un bambino è nato per noi

ci è stato dato un figlio

ed è chiamato “principe della pace”

e la pace non avrà fine”.

Il giorno di Natale c’è movimento nel pueblo; arriva la guardia di finanza e l’esercito (scortati dai paramilitari!!!!!!) per fare i rilievi del caso e prelevare i corpi. La tensione è grande., la gente cerca risposte a quanto è successo e lentamente la vita ritorna alla normalità. Per poco tempo però perché alla sera del 26 assistiamo a uno scontro armato tra guerriglia e esercito. E ancora una volta nel paese ritorna il silenzio, il buio, la paura. Il giorno seguente ci avvisano che la guerriglia è entrata nella casa di una famiglia che vive al Km. 80 (la Guayacana si trova ubicata al Km. 76-77) cercando un componente della famiglia accusato di essere un informante dei paramilitari. Non lo hanno incontrato e cosi hanno sequestrato (come rappresaglia) la famiglia intera di 10 persone. Adesso la tensione e la paura nel pueblo sono palpabili; la gente vive ogni giorno nell’aspettativa di nuovi attacchi, di nuove incursioni della guerriglia.

Ci avviciniamo al 31 di dicembre però la voglia di fare festa è sparita e la guerriglia pensa bene di spezzare le ultime speranze della gente con una “azione esemplare”. Il 29 di Dicembre alle 8 di sera la guerriglia entra nuovamente nel pueblo e passando casa per casa ordinano a tutti di entrare nelle case e di chiudere tutto. Praticamente: tutti a dormire. Anche Pablo ed io obbediamo, chiudiamo tutto e alle 8.30 già siamo a letto. Non passa molto tempo e inizia una lunga sparatoria, i colpi di mitra sono l’unico rumore che si sente in questa notte. La sparatoria avviene nel centro del paese. Nessuno si muove, tutto è buio e silenzio (anche i bambini piccoli non piangono e stanno in silenzio). Non sappiamo che cosa stia succedendo fuori, soltanto ascoltiamo i colpi molto forti.

Poi un lungo periodo di silenzio fino all’arrivo di macchine e camioncini. Voci di gente che sembra felice di poter essere entrata nel pueblo senza particolari problemi. Io ho pensato che i paramilitari avevano “tomado el pueblo”. E poi dopo tutto questo….la festa: musica, balli. Pablo ed io ci rendiamo conto che tutto questo sta succedendo molto vicino alla porta della nostra casa. Passiamo la notte in veglia ascoltandola musica e vivendo la “festa degli ospiti” però non riusciamo a decifrare chi siano. Il silenzio regna assoluto nel pueblo, solo le parole e la musica della festa indesiderata. Finalmente alle 3 di notte ascoltiamo le parole tanto attese: Muchachos vamonos”, ragazzi andiamocene.

Il silenzio irreale ritorna ad essere il padrone assoluto del pueblo. Passo il resto della notte in veglia cercando di capire che cosa sia successo e pensando a ciò che potrò incontrare quando aprirò la porta della casa. La stessa cosa succede a Pablo.

Finalmente alle 7 di mattina ascoltiamo il rumore delle macchine e questo è il segnale che possiamo uscire senza problemi. Mi cambio in fretta, esco nella piazza e vedo un lenzuolo bianco e alcune persone. Mi avvicino e incontro la moglie e la figlia di don Carlos Bravo: Hermanito, la guerrilia ha matado a mi esposo y a mi hijo”. Fratello, la guerriglia ha ammazzato mio marito e mio figlio.

Una volta di più il silenzio, il vuoto, il dolore, il pianto e un grido: “perché?” Mi fermo alcuni minuti in silenzio davanti ai corpi abbracciando la figlia di don Carlos. Il colpo è forte per tutto il paese, con Pablo facciamo un giro nelle case per vedere come sta la gente e per capire che cosa sia successo effettivamente. Ci rendiamo conto che tutta la gente è terrorizzata, impaurita; il popolo non può parlare, semplicemente piange. Ci rendiamo conto di come molte persone che vivono nella piazza e che abitano in case di legno abbiano passato tutta la notte sdraiati sul pavimento per paura di proiettili vaganti. Carminia, la signora del ristorante, ci chiama e ci fa entrare nella sua stanza e poi piangendo ci dice che ha passato tutta la notte sdraiata nel pavimento della stanza cercando di proteggere con il suo corpo ai suoi due figli.

Pablo ed io abbiamo bisogno di riordinare un poco le idee, di riprenderci dallo spavento che anche noi abbiamo passato nella notte e di decidere che cosa fare in questa situazione. Lo facciamo aiutati dalla preghiera e dai consigli della gente. Non possiamo fare molto, semplicemente termineremo il corso per il battesimo e terminata la messa di fine anno ritorneremo a Tumaco per parlare un poco con il Monseñor e poi di nuovo a Bogotà.

Questa è stata l’esperienza di missione di quest’anno; si potrebbero dire molte cose di più, si potrebbe raccontare e raccontare però… Non è stato facile vivere questi giorni. Non è stato facile lasciare la Guayacana. Non è stato facile ritornare nella “sicura” Bogotà.

La testa, i pensieri continuano a stare nella Guayacana e, nella preghiera, le parole lasciano il posto ai volti delle amiche e degli amici della Guayacana che mi hanno insegnato tanto. Mi hanno aiutato a capire che cosa significa

“Fare causa comune con i più poveri e abbandonati”

Molte volte ho utilizzato questa frase, forse tante volte a sproposito o senza capire bene che cosa significasse veramente o fino a che punto si può arrivare a fare “causa comune”. E se leggiamo fino in fondo la frase che Comboni ha pronunciato al suo ingresso in Karthum:

“…e il giorno più felice della mia vita sarà quello in cui potrò dare la vita per voi”.

In questa frase sta il significato della vocazione, della consacrazione al Dio della Vita per la missione secondo il carisma di San Daniele Comboni. Ringrazio il Dio della vita per avermi chiamato alla missione.

Vi ricordate l’immagine della “cuna vacia”. Mi sono sbagliato, non era vuota! Il Niño Jesús non stava nella culla, stava nei volti delle persone uccise, nei volti delle persone sequestrate, nel volto delle persone che piangevano di paura e piangevano perché non capivano e non capiscono il significato di tanta violenza, nel volto delle persone che “no aguantan más”, - non sopportano più -, e hanno lasciato la Guayacana. Il Niño Jesús non lo potevo incontrare nella culla perché stava nel volto delle persone semplici che però hanno posto tutta la loro fiducia in Dio e che con il loro esempio e la loro vita mi hanno insegnato che cosa significa avere fede. La culla del presepe quest’anno si è riempita di questi volti.

Gracias Dios de la Vida por haberme regalado esta Navidad”.

Grazie, Dio della Vita per avermi regalato questo Natale.

A voi, amiche e amici, chiedo che continuate ad accompagnarmi con le vostre preghiere e la vostra amicizia perché ogni giorno io possa essere fedele alla vocazione missionaria, collaborando alla costruzione del Regno che è giustizia, pace, fraternità, amore.

Les deseo un feliz año nuevo de paz; vi auguro un felice anno nuovo di Pace.

Un abrazo y una sonrisa.

Hermano Antonio

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Fratel Antonio è in Colombia per concludere il cammino di "formazione di base". Assieme ad altri fratelli comboniani alterna periodi di studio a Bogotà ad esperienze più a contatto con la gente che soffre a causa del conflitto armato che insanguina quelle terre da svariati decenni.

 

 

 

 

 

 

Puoi trovare un'altra lettera di fr. Antonio

I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno dei cieli!

 

 

 

 

 

 

Se volete scrivere a fr.Antonio:

Kr. 48 n.75 A-13,

Barrio Simon Bolivar, Bogota, D.C. Colombia.

 

 

 

 

 

 

Leggi la lettera di fr. Alberto:

Nella terra del Vichada

 


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