Hola para todas y todos,
Come state? Come avete passato le feste natalizie?
Spero bene e sono sicuro che il nuovo anno iniziato per
tutte e tutti voi nel migliore dei modi.
Con queste righe vorrei compartir un poco
con voi la esperienza di missione che io e Pablo (un
fratello spagnolo arrivato nella comunità il mese di
Agosto) abbiamo vissuto nel piccolo paese della Guayacana
(in realtà si tratta di una frazione del Municipio di
Tumaco nel sud-occidente colombiano, costa Pacifica). Le cose da dire, da condividere, da raccontare
sarebbero tante, spero di non stancarvi molto e soprattutto
spero che riusciate a comprendere il mio italiano sempre più
… confuso.
Da dove iniziare?
Comincio dicendovi che questa per me era la seconda
volta a Tumaco (già l’anno passato avevo vissuto lì
l’esperienza di missione di Natale) e quindi si è
trattato in un primo momento di un ritornare, un incontrare
di nuovo persone conosciute, un sentirsi accolto, una volta
di più, da gente amica, amabile, molto accogliente. L’emozione era forte quando con il bus si passava
per i paesi di Altaquer, Ricaurte, Junin, la Guayacana, El
Diviso, Llorente, Tumaco. Emozione e curiosità nel vedere (semplicemente dal
finestrino dell’autobus) se qualcosa era cambiato in
questi piccoli paesi. Emozione e curiosità per poter
incrociare (semplicemente per un istante) lo sguardo delle
persone conosciute.
E già qui possiamo fermarci e fare una piccola
riflessione. Era abbastanza chiaro che in un anno le cose erano
cambiate e sicuramente non in senso positivo. A Junin l’autobus deve fermarsi a un posto di
blocco (illegale) dei paramilitari che ci permettono
continuare il cammino senza troppi inconvenienti. Passiamo per El Diviso e tutto è tranquillo. Pochi chilometri dopo ci dobbiamo fermare di nuovo
e questa volta a un posto di blocco dell’esercito. Arriviamo finalmente a Llorente .
Mi ricordavo la piazza della chiesa piena zeppa di
bancarelle del mercato e la musica a tutto volume (che non
ti lasciava dormire). Il paese che incontro è diverso: la piazza della
chiesa è vuota, le bancarelle sparite, la musica che quasi
non si sente e in tutti i muri elle case la scritta grande
AUC (“Autodefensas Unidas de Colombia”), i paramilitari. Mi avvicino a Tumaco con la sensazione che la vita
per la gente che vive li è molto cambiata, sarebbe meglio
dire, peggiorata.
Arriviamo finalmente, dopo 15 ore di viaggio, a
Tumaco e alla casa Estrella del Mar ci incontriamo con
alcuni sacerdoti diocesani che tutte le domeniche
condividono il pranzo e gli avvenimenti successi nella
settimana. Loro ci danno una prima introduzione alla realtà
che incontreremo in questi giorni e l’idea che le cose
erano cambiate in peggio è confermata. La strada che da Pasto porta fino a Tumaco è
praticamente divisa tra i gruppi che sono i protagonisti del
conflitto che da più di 50 anni attanaglia la Colombia. La gente che vive nei paesi a lato della strada si
trova sempre più coinvolte in una guerra sporca dove tutti
sono contro tutti e dove il problema delle coltivazioni di
coca - e quindi del narcotraffico - è oggi uno dei nodi
centrali. Questa è la realtà che ci aspetta in
questo mese: con questa gente ci viene chiesto di
condividere la Novena e il tempo di Natale.
Mi ritornano alla mente una frase del vangelo di
Giovanni e due di Comboni che mi sono segnato all’ultimo
giorno di ritiro fatto in comunità e che tengo come guida
per questa esperienza di missione:
“Sono venuto perché tutti abbiano vita e
l’abbiano in abbondanza”
“Condividere la vita con i più poveri e
abbandonati”
“Io voglio fare causa comune con ognuno di voi
e il giorno più felice della mia vita sarà
quello in cui potrò dare la vita per voi”
Mi chiedo che cosa significano queste parole in
questa situazione, che cosa significa vivere tutto questo,
se ne sarò capace.
Alla sera partecipiamo alla Celebrazione
Eucaristica nella chiesa della Mercedes e affido tutto
questo nelle mani del Dio della Vita: che sia Lui la nostra
guida, la nostra luce ed il nostro cammino.
Monseñor Gustavo (il vescovo di Tumaco) ci lascia
una lettera dove ci comunica, tra le altre cose, la
destinazione per questa esperienza: si tratta del pueblo
della Guayacana che fa parte della parrocchia di Llorente e
cosi ci mettiamo in contatto con Padre Manlio (il parroco) e
ci spostiamo a Llorente per “iniziare” l’esperienza.
Parliamo
con Manlio che ci presenta un poco la situazione che si sta
vivendo li; non
c’è bisogno di molte parole. A Llorente adesso comandano i paramilitari che da
non più di una settimana si sono “tomados el pueblo”
– presi il paese – aiutati dall’esercito (per la gente
di qui non c’è nessuna differenza fra esercito e
paramilitari) e frutto di questa “toma” è stato
il massacro di 14 persone, uccise e poi fatte letteralmente
a pezzettini con una motosega. In verità la notizia era apparsa in Internet e
successivamente nei giornali però subito smentita.
Mi chiedo perché ma la risposta è molto semplice.
Il governo del presidente Uribe ha iniziato un
processo di pace con i gruppi paramilitari che operano in
Colombia e nel mese di Novembre tutto il paese ha potuto
assistere alla prima mobilitazione di un gruppo di più di
800 paramilitari, che hanno consegnato le armi e hanno
iniziato il processo di reinserimento nella società. C’è un grande dibattito in corso in Colombia
riguardo a tutto questo processo. Le ONG, le organizzazioni di difesa dei diritti
umani, una parte della società civile accusano Uribe perché
dicono che si tratta di una semplice operazione di immagine
e che non si può parlare di un processo di pace quando si
parla di impunità senza considerare la giustizia. Il fatto di Llorente lo possiamo leggere in
quest’ottica; adesso non conviene che la gente conosca
questi avvenimenti: potrebbero guastare, non tanto il
processo di pace che è tutta una montatura, quanto la
immagine del presidente che continua tenendo una grande
popolarità a spese di una situazione che, giorno dopo
giorno, peggiora per quanto riguarda le condizioni di vita
della gente di Colombia. Se questa è la situazione di Llorente Padre Manlio
ci comunica che a la Guayacana ci incontreremo con un “pueblo
guerrilliero”: significa che lì a 10 Km da Llorente
comanda la guerriglia delle FARC.
Arriviamo finalmente alla Guayacana e ci sistemiamo
nella casa a lato della chiesa. La gente ci aspettava, viene alla casa, ci saluta,
ci porta frutta e subito si stabilisce un buon clima. Nel pomeriggio facciamo una prima riunione con la
gente e stendiamo un primo programma delle attività. Ogni giorno la celebrazione della Parola ci aiuterà
a prepararci alla Novena (che sarà il momento forte di
questa esperienza) e per la mattina incontro con la gente,
visita alle famiglie e anche incontri con le comunità del
Pinde e del Km 85 dove celebreremo la Novena.
I giorni passano veloci, entriamo sempre più nella
vita e nel ritmo della gente della Guayacana. Si tratta di un paese tranquillo, abitato da gente
semplice, umile e dedicata al lavoro; gente che gusta la
vita, la musica, il ballo, la fiesta, come tutta la
gente di Colombia. Le persone conosciute i primi giorni
adesso diventano “familiari” e quando parliamo con
Ariel, la signora Maria, Leidy, Viviana, la signora Lina,
Librada, Gabriel, Patrona, Edgar, Yolanda, Carminia, Irene,
è come se stiamo parlando con familiari e amici che
conosciamo da anni. Con loro ogni giorno c’incontriamo e compartimos
la Palabra de Dios - condividiamo la Parola di Dio -, il
Vangelo del giorno e cosi ci prepariamo a vivere il Natale. La fede grande, semplice e profonda di questa gente
ci insegna molto. Tutto questo mi sta aiutando a vivere questo Natale
nella semplicità, sicuro che questo è il vero significato
del mistero dell’Incarnazione. Ogni giorno le tre frasi che avevo scelto come
guida per quest’esperienza mi ritornano in mente ed
assumono un significato sempre più profondo.
Arriviamo alla tanto attesa Novena. Non potevamo iniziare nel modo migliore! Ci visita
il Monseñor, presiede la Eucaristia. La Chiesa è
colma di gente e molta di più la incontriamo quando alle 7
della sera iniziamo il primo incontro della Novena. Quasi non c’è bisogno di suonare le campane: la
chiesa si riempie di bambini, giovani, famiglie ed anziani e
inizia la festa fatta di Villancicos (i canti di
Natale), di musica, di drammatizzazioni del Vangelo,
dinamiche e giochi, preghiere e riflessioni sul tema: il
valore della vita. Così passano i giorni che ci preparano al Natale.
Mi dimenticavo di un particolare importante: la “posada”,
la stanza. E’ l’ultimo atto della celebrazione di ogni
giorno; si esce dalla chiesa con la statua della Vergine e
si va in una casa (ogni giorno diversa) e lì, cantando, si
rappresenta la scena di Maria e Giuseppe che chiedono
ospitalità. Quando finalmente si aprono le porte della casa, la
festa continua, cantando davanti al presepe. In alcune case la festa si è protratta fino
all’una della notte e ai Villancicos si sono
aggiunti “los arrullos”; era come tuffarsi nella
cultura africana dei primi abitanti del Nariño.
Insieme a questa dimensione di festa, piano piano,
ci siamo incontrati anche con la dura realtà della vita
della gente. La guerriglia è la “ley”, la legge. Lo
stato non esiste; se ci sono problemi da risolvere ci si
rivolge direttamente alla ley. La regola che sembra governare nel pueblo è
quella del più forte e quindi chi possiede le armi detiene
il potere! Il narcotraffico e la relativa coltivazione di
coca, hanno eliminato tutte le possibilità di coltivare
qualcosa di diverso. Per i giovani del pueblo le possibilità
sono due: o lavorare nei campi dei narcos o
arruolarsi nella guerriglia. Il dolore per una morte
violenta è un'altra caratteristica che unisce gli abitanti
della Guayacana. In ogni famiglia abbiamo ascoltato storie di dolore
e di sofferenza per familiari morti ammazzati, sequestrati,
scomparsi.
Nella preghiera di quei giorni, semplicemente,
riponevo nelle mani del Dio della Vita la sofferenza, il
dolore di questa gente. Pensavo alla parola PACE; mi chiedevo che cosa
significava per questa gente; che significava parlare del
Natale come festa della Vita? Tutto questo lo riponevo nelle mani di quel Dio che
ha voluto farsi uomo, soffrire e morire, per ricordarci il
valore sacro della vita di ogni uomo e di ogni donna. La vita è un dono grande, è un mistero, è sacra
e il Dio della Vita ci ha guidati (a suo modo)
nei giorni che mancavano alla celebrazione del
Natale.
Tutto è cominciato quando gli abitanti della
Guayacana hanno ricevuto “la visita” dell’esercito. Si sono fermati nel pueblo per tre giorni e
si è trattato di una continua violazione delle norme del
Diritto Internazionale Umanitario. Sono entrati nelle case della gente, hanno
utilizzato mezzi civili per i loro spostamenti; questo
significa coinvolgere i civili (che sono protetti dalle
norme del Diritto Internazionale Umanitario) nel conflitto. Per la gente, queste “visite” dell’esercito
sono un grosso problema perché: o preannunciano l’arrivo
dei paramilitari; o sono occasioni per i gruppi insorgenti
(guerriglia e paramilitari) per seminare il terrore nel pueblo
uccidendo coloro che sono considerati “sapos”,
rospi (collaboratori dell’esercito). Questa è un'altra assurdità di questa assurda
guerra: l’esercito che dovrebbe essere l’ente che
protegge la popolazione civile molte volte diventa un
pericolo per la popolazione stessa.
Le immagini che mi rimangono dell’arrivo
dell’esercito nel pueblo sono quella degli alunni
del collegio che abbandonano la festa che stavano facendo
prima delle vacanze di Natale e quella di Leidy, una giovane
del pueblo che vive al lato della chiesa,
che ritornando dal collegio incontra un militare alla
porta della sua casa, parla con sua madre e lasciano la
casa. La mamma va da una amica e Leidy entra nella nostra
casa e chiede il permesso di fermarsi da noi fino a quando
il militare non abbia lasciato libera la casa perché dice:
“Se passa la guerriglia e ci vede nella casa con un
militare alla porta poi ritornano e ci ammazzano”. La paura della gente è palpabile semplicemente
perché non sanno, però immaginano, quello che può
succedere.
E arriviamo finalmente al 24 Dicembre. Alla mattina chiamiamo di nuovo la gente a una
riunione perché ci aiutino a preparare la celebrazione
della sera. La gente collabora, prepareranno i canti,
l’offertorio, le preghiere dei fedeli. Ci rincontriamo il pomeriggio per sistemare il
tutto, pulire la chiesa e tutto è pronto per l’ultimo
incontro della novena e per la messa della notte. Nel villaggio c’è movimento, la vita di sempre,
sembra ritornata la serenità e la tranquillità dei primi
giorni. Pablo dirige la novena e io vado alla casa di don
Carlos Bravo perché lui e sua moglie saranno la famiglia
che al momento del Gloria porteranno il Niño Dios
all’altare. La celebrazione è fissata per le 8 della sera così
Pablo e io ci siamo accordati con Padre Manlio per
incontrarci alle 7 e condividere un po’ prima della messa.
Lascio la casa di don Carlos e mi fermo da Irene,
una giovane madre di 28 anni che fa parte della Junta de
Acción Comunal (JAC), che ha organizzato una piccola
festa per i bambini del quartiere.
**********
Vi chiedo perdono se interrompo la sequenza degli
avvenimenti ma credo che Irene meriti un posto tutto
particolare.
Ho conosciuto Irene per caso; quando abbiamo detto
che il Monseñor sarebbe venuto a inaugurare la
novena la JAC ha deciso di pitturare l’esterno della
chiesa. E cosi abbiamo condiviso con alcuni giovani un poco
di lavoro e tra questi giovani abbiamo conosciuto Irene. Abbiamo subito avuto l’idea che si trattava di
una “tipa particolare”, una leader. Lavora
come “promotora de salud” nel villaggio. Lei ci ha un po’ introdotto nella situazione che
sta vivendo la Guayacana e abbiamo approfittato della
amicizia per tentare di rappacificare alcune situazioni di
piccoli conflitti senza arrivare ai limiti e agli eccessi. Ho incontrato di nuovo Irene il giorno in cui il
tema della Novena era quello della difesa della vita anche a
rischio della propria. Abbiamo chiacchierato un poco dopo la posada
e con molta semplicità Irene mi ha raccontato un poco della
sua vita.
Ha un bambino stupendo di una anno e quattro mesi e
lo voleva battezzare. Solo c’era un piccolo problema: il papà non
poteva essere presente il giorno del battesimo. “Nessun problema Irene, puoi battezzare tuo
figlio o se preferisci aspettare il giorno che il papà
ritorna…puoi aspettare.” “Sai hermano, credo che il papà non
ritornerà più. Quando il bambino aveva quattro mesi, i
paramilitari hanno sequestrato mio marito e fino ad oggi non
ho avuto notizia di lui. Ho sofferto molto, ho pianto molto e un giorno mi
sono decisa: sono andata dai paramilitari e ho chiesto che
liberassero a mio marito o che mi restituissero il cadavere
se lo avevano ucciso. Non ho ricevuto risposta.”
Io non avevo parole, Irene ha continuato a parlare.
“I genitori di mio marito mi incolpano del
sequestro e dal giorno della sua scomparsa
hanno deciso di non aiutarmi. Io vivo sola con la mia famiglia,
il mio papà ha un cancro alla prostrata e gli
rimangono pochi mesi di vita. Voglio che mio figlio cresca bene, possa studiare e
che soprattutto incontri un paese dove ci si rispetti e ci
sia pace. Ed è per questo che ho deciso di mettermi nella
JAC: per poter costruire una Guayacana migliore. La guerriglia ci minaccia di morte, però io voglio
continuare fino a che ne avrò la possibilità”.
Sono rientrato a casa e mi sono fermato nella
cappella. Persone come Irene sono la speranza per poter
costruire un futuro di Pace. Pensavo a quante parole diciamo ogni giorno senza
darci conto. Molte volte la speranza per costruire un mondo
migliore sta al nostro fianco, nelle persone che il Dio
della Vita mette sul nostro cammino. UN ALTRO MONDO E’ POSSIBILE se tutti vivessimo un
poco del coraggio, dell’audacia e della fede nella vita,
di Irene.
**********
Tentiamo riprendere il filo del discorso: stavo
nella casa di Irene e mi sono accorto che le 7 erano passate
già da alcuni minuti e che Padre Manlio ci stava
aspettando. Saluto rapidamente e vado verso la chiesa. La vita del pueblo è animata, saluto alcune
persone che incontro lungo il cammino dando loro
appuntamento per la celebrazione Eucaristica. Arrivo
alla casa e fortunatamente padre Manlio non è arrivato.
All’ingresso della chiesa mi aspetta Pablo e mi
dice di chiudere le porte della chiesa; io non
capisco però Pablo insiste. Quando siamo soli mi dice che la guerriglia è
giunta nel pueblo e che hanno ucciso tre persone. Il tutto è avvenuto da non più di 5 minuti. La guerriglia ha ucciso a Maizel, una giovane di 29
anni, sua madre e il compagno della madre. Maizel ha una bambina di tre anni che si è salvata
dal massacro perché si trovava nella cappella aspettando
che iniziasse la messa. I corpi sono lì al suolo davanti alla porta della
casa che non dista più di 20 metri dalla chiesa. Semplicemente ascolto Pablo che mi racconta quello
che è successo e poi ritorno correndo alla casa di Irene. Il mio pensiero era per i bambini che stavano nella
casa.
Parlo con Irene, con Ariel e con gli altri giovani
che s’incontrano nella casa. Chiedo che si deve fare per non lasciare i corpi
all’asfalto come se si trattasse di uno spettacolo, perché
almeno in questi momenti ci sia un minimo di rispetto per la
dignità dell’uomo. La risposta è chiara: “Hermano, tu e noi non possiamo fare
niente. I cadaveri devono stare li; questa è la legge della
guerriglia. Ritornando alla chiesa mi incontro con padre Manlio
e con Pablo e decidiamo celebrare la Eucaristia. Suoniamo
le campane e la gente si prepara per la messa.
Tutto è pronto quando ci chiama doña Maria e ci
comunica che sta entrando nel pueblo l’esercito. C’è il rischio molto concreto di un possibile
scontro fra esercito e guerriglia. E’ meglio che la gente ritorni alla casa e che la
situazione si “normalizzi”. Nel pueblo scendono il silenzio e
l’oscurità, solamente si sente il rumore dei blindati
dell’esercito e alcune raffiche di mitra in lontananza. Con Padre Manlio andiamo dove giacciono i cadaveri
e deponiamo una piccola candela accesa. La signora Maria ci invita alla sua casa e ci offre
dei biscotti ed un poco di vino. Alle 9 di sera già tutto
è terminato, rimangono i tre corpi nell’asfalto in un
mare di sangue, una bambina di tre anni orfana, un silenzio
irreale nel piccolo paese.
La chiesa rimane aperta e passo alcune ore lì,
aspettando che vengano gli amici del Pinde dove devo andare
per la Celebrazione della parola. Seduto sul pavimento, cerco di mettere un poco di
ordine nella testa, nei pensieri e nel cuore. Sento un profondo dolore, sono triste e piango. Nella chiesa avevamo messo gli otto cartelloni con
gli slogan che ci avevano guidato nei giorni della Novena. Tutti parlano della vita, però manca l’ultimo
che con Pablo avevamo deciso di mettere alla porta della
chiesa prima di iniziare la Celebrazione di natale e che
dice: “AMA E SARAI FELICE”. Rileggo gli slogan e guardo alla culla che la gente
aveva preparato nel pomeriggio con un tamburo, (uno
strumento che utilizzano i cercatori di oro) e con fiori di
camomilla.
E’ vuota manca la statua di Gesù Bambino. Fisso la mia attenzione nella culla vuota ed è il
vuoto che tengo nel cuore questa notte. E’ il vuoto che hanno nel cuore tante persone
della Guayacana che ci hanno avvicinato e piangendo ci hanno
chiesto il perché di queste tre persone ammazzate. E’ il vuoto, il silenzio di Pablo e mio che non
sappiamo che cosa rispondere ed è il perché che nel
silenzio della preghiera grido al Dio della Vita in questa
notte che doveva essere la festa della vita e che per tutti
si è trasformata in una notte di silenzio, di dolore e di
pianto. Leggo e rileggo il prologo del vangelo di Giovanni:
“In Lui
era la vita
e la vita
era la luce degli uomini.
Veniva nel
mondo la luce vera,
quella che
illumina ogni uomo.
Egli era
nel mondo,
e il mondo
fu fatto per mezzo di lui
eppure il
mondo non lo riconobbe.
Venne fra
la sua gente
Ma i suoi
non l’hanno accolto.
A quanti
però l’hanno accolto
ha dato il
potere di diventare figli di Dio”
Suonano dure le parole di Giovanni però lasciano
spazio alla speranza. Dio della Vita ho il cuore pieno di dolore, non
capisco e semplicemente grido “perché?” Aiutami a riconoscerti, a scoprire dove stai in
questi momenti bui perché solo Tu sei la luce che ci può
illuminare.
Arrivano gli amici del Pinde e vado con loro per la
Celebrazione della Parola. Al Pinde il clima è totalmente diverso; nella
cappella bambini e famiglie che dalle 7 della sera stanno
facendo festa aspettando la mezzanotte. Mi chiedo
come farò, che cosa dirò? Non posso leggere il Vangelo, non ne sono capace. Chiedo a Karina che si legga solo la prima lettura
e le parole del profeta Isaia diventano un’invocazione al Niño
Jesús in questa triste notte di Natale.
“Su
coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.
Hai
moltiplicato la gioia,hai aumentato la letizia.
Poiché tu
hai spezzato il giogo che opprimeva il popolo.
Poiché
ogni calzatura di soldato nella mischia
e ogni
mantello macchiato di sangue
sarà
bruciato.
Poiché un
bambino è nato per noi
ci è stato
dato un figlio
ed è
chiamato “principe della pace”
e la pace
non avrà fine”.
Il giorno di Natale c’è movimento nel pueblo;
arriva la guardia di finanza e l’esercito (scortati dai
paramilitari!!!!!!) per fare i rilievi del caso e prelevare
i corpi. La tensione è grande., la gente cerca risposte a
quanto è successo e lentamente la vita ritorna alla
normalità. Per poco tempo però perché alla sera del 26
assistiamo a uno scontro armato tra guerriglia e esercito. E ancora una volta nel paese ritorna il silenzio,
il buio, la paura. Il giorno seguente ci avvisano che la guerriglia è
entrata nella casa di una famiglia che vive al Km. 80 (la
Guayacana si trova ubicata al Km. 76-77) cercando un
componente della famiglia accusato di essere un informante
dei paramilitari. Non lo hanno incontrato e cosi
hanno sequestrato (come rappresaglia) la famiglia intera di
10 persone. Adesso la tensione e la paura nel pueblo
sono palpabili; la gente vive ogni giorno nell’aspettativa
di nuovi attacchi, di nuove incursioni della guerriglia.
Ci avviciniamo al 31 di dicembre però la voglia di
fare festa è sparita e la guerriglia pensa bene di spezzare
le ultime speranze della gente con una “azione
esemplare”. Il 29 di Dicembre alle 8 di sera la guerriglia
entra nuovamente nel pueblo e passando casa per casa
ordinano a tutti di entrare nelle case e di chiudere tutto. Praticamente:
tutti a dormire. Anche Pablo ed io obbediamo, chiudiamo tutto e alle
8.30 già siamo a letto. Non passa molto tempo e inizia una lunga
sparatoria, i colpi di mitra sono l’unico rumore che si
sente in questa notte. La sparatoria avviene nel centro del paese. Nessuno si muove, tutto è buio e silenzio (anche i
bambini piccoli non piangono e stanno in silenzio). Non sappiamo che cosa stia succedendo fuori,
soltanto ascoltiamo i colpi molto forti.
Poi un lungo periodo di silenzio fino all’arrivo
di macchine e camioncini. Voci di gente che sembra felice di
poter essere entrata nel pueblo senza particolari
problemi. Io ho pensato che i paramilitari avevano “tomado
el pueblo”. E poi dopo tutto questo….la festa: musica, balli.
Pablo ed io ci rendiamo conto che tutto questo sta
succedendo molto vicino alla porta della nostra casa. Passiamo la notte in veglia ascoltandola musica e
vivendo la “festa degli ospiti” però non riusciamo a
decifrare chi siano. Il silenzio regna assoluto nel pueblo, solo
le parole e la musica della festa indesiderata. Finalmente alle 3 di notte ascoltiamo le parole
tanto attese: “Muchachos vamonos”, ragazzi
andiamocene.
Il silenzio irreale ritorna ad essere il padrone
assoluto del pueblo. Passo il resto della notte in veglia cercando di
capire che cosa sia successo e pensando a ciò che potrò
incontrare quando aprirò la porta della casa. La stessa cosa succede a Pablo.
Finalmente alle 7 di mattina ascoltiamo il rumore
delle macchine e questo è il segnale che possiamo uscire
senza problemi. Mi cambio in fretta, esco nella piazza e vedo un
lenzuolo bianco e alcune persone. Mi avvicino e incontro la moglie e la figlia di don
Carlos Bravo: “Hermanito, la guerrilia ha matado a mi esposo
y a mi hijo”. Fratello, la guerriglia ha ammazzato mio marito e
mio figlio.
Una volta di più il silenzio, il vuoto, il dolore,
il pianto e un grido: “perché?” Mi fermo alcuni minuti in silenzio davanti ai corpi
abbracciando la figlia di don Carlos. Il colpo è forte per tutto il paese, con Pablo
facciamo un giro nelle case per vedere come sta la gente e
per capire che cosa sia successo effettivamente. Ci
rendiamo conto che tutta la gente è terrorizzata,
impaurita; il popolo non può parlare, semplicemente piange.
Ci rendiamo conto di come molte persone che vivono
nella piazza e che abitano in case di legno abbiano passato
tutta la notte sdraiati sul pavimento per paura di
proiettili vaganti. Carminia, la signora del ristorante, ci chiama e ci
fa entrare nella sua stanza e poi piangendo ci dice che ha
passato tutta la notte sdraiata nel pavimento della stanza
cercando di proteggere con il suo corpo ai suoi due figli.
Pablo ed io abbiamo bisogno di riordinare un poco
le idee, di riprenderci dallo spavento che anche noi abbiamo
passato nella notte e di decidere che cosa fare in questa
situazione. Lo facciamo aiutati dalla preghiera e dai consigli
della gente. Non possiamo fare molto, semplicemente termineremo
il corso per il battesimo e terminata la messa di fine anno
ritorneremo a Tumaco per parlare un poco con il Monseñor
e poi di nuovo a Bogotà.
Questa è stata l’esperienza di missione di
quest’anno; si potrebbero dire molte cose di più, si
potrebbe raccontare e raccontare però… Non è stato facile vivere questi giorni. Non è stato facile lasciare la Guayacana. Non è stato facile ritornare nella “sicura”
Bogotà.
La testa, i pensieri continuano a stare nella
Guayacana e, nella preghiera, le parole lasciano il posto ai
volti delle amiche e degli amici della Guayacana che mi
hanno insegnato tanto. Mi hanno aiutato a capire che cosa significa
“Fare causa comune con i più poveri e
abbandonati”
Molte volte ho utilizzato questa frase, forse tante
volte a sproposito o senza capire bene che cosa significasse
veramente o fino a che punto si può arrivare a fare
“causa comune”. E se leggiamo fino in fondo la frase che Comboni ha
pronunciato al suo ingresso in Karthum:
“…e il giorno più felice della mia vita sarà
quello in cui potrò dare la vita per voi”.
In questa frase sta il significato della vocazione,
della consacrazione al Dio della Vita per la missione
secondo il carisma di San Daniele Comboni. Ringrazio il Dio della vita per avermi chiamato
alla missione.
Vi ricordate l’immagine della “cuna vacia”. Mi sono sbagliato, non era vuota! Il Niño Jesús non stava nella culla, stava
nei volti delle persone uccise, nei volti delle persone
sequestrate, nel volto delle persone che piangevano di paura
e piangevano perché non capivano e non capiscono il
significato di tanta violenza, nel volto delle persone che
“no aguantan más”, - non sopportano più -, e
hanno lasciato la Guayacana. Il Niño Jesús non lo potevo incontrare
nella culla perché stava nel volto delle persone semplici
che però hanno posto tutta la loro fiducia in Dio e che con
il loro esempio e la loro vita mi hanno insegnato che cosa
significa avere fede. La culla del presepe quest’anno si è riempita di
questi volti.
“Gracias
Dios de la Vida por haberme regalado esta Navidad”.
Grazie,
Dio della Vita per avermi regalato questo Natale.
A voi, amiche e amici, chiedo che continuate ad
accompagnarmi con le vostre preghiere e la vostra amicizia
perché ogni giorno io possa essere fedele alla vocazione
missionaria, collaborando alla costruzione del Regno che è
giustizia, pace, fraternità, amore.
Les
deseo un feliz año nuevo de paz;
vi auguro un felice anno nuovo di Pace.
Un
abrazo y una sonrisa.
Hermano
Antonio
torna
all'inizio della pagina |