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Sviluppo e sottosviluppo

da una tesi sulla Cooperazione

Coindividiamo con piacere questo stralcio di una tesi sulla Cooperazione, realizzata da Arianna. Chi volesse approfondimenti può chiederli direttamente a arianna.sinigaglia@libero.it 


Sviluppo e sottosviluppo: storia di un grande protagonista e di un piccolo antagonista

 

"L’idea di sviluppo rivela quindi molto più su chi l’ha creata

che non sui sistemi del Terzo Mondo ai quali è applicata."

Ripercorrendo l’evoluzione del concetto di cooperazione fino all’accezione odierna di "cooperazione allo sviluppo" è facile notare come, almeno negli ultimi due secoli, questi cambiamenti siano stati simbioticamente legati a quelli del concetto di sviluppo.

Per A. Colajanni il termine "sviluppo" è un "fuoco culturale dalle straordinarie qualità espressive", sottolineandone così il rilievo semantico di cui si fa portatore. Proprio nel suo testo fondamentale "Problemi di antropologia nei processi di sviluppo" spiega il cambiamento che questo termine ha subito tra ‘800 e ‘900. Mentre nell’Ottocento indicava il raggiungimento da parte di un essere vivente, pianta, animale o uomo, di un "completamento naturale", già noto a priori, nel Novecento il significato di sviluppo si modifica fino a indicare il "superamento della condizione naturale, verso una perfezione, non definibile a priori". La nuova accezione della parola "sviluppo" risente dell’influenza della crescita tecnica ed economica che ha caratterizzato il XX secolo, e si lega al concetto, dominante nella società occidentale, di progresso: "la nozione stessa di «sviluppo» è apparsa, nella sua indeterminatezza, una sorta di mito di fondazione delle società dell’Occidente".

È proprio su questa nuova concezione dello sviluppo che si poggia la divisione del mondo in paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. La paternità di questa terminologia si deve formalmente al presidente americano Truman, il quale nel suo discorso di reinsediamento alla presidenza degli Usa del 1949, disse che toccava ai paesi sviluppati "indicare la via capitalista della prosperità agli stati di recente indipendenza, caratterizzati da sottosviluppo". Lo scopo era di impedire che le ex colonie europee percorressero la via alternativa rispetto al capitalismo: il socialismo. Questo progetto presupponeva di applicare l’idea di benessere, propria dell’Occidente e fatta di urbanizzazione, industrializzazione, e benessere materiale, ai paesi detti appunto sottosviluppati, dando per scontato che la condividessero, e considerandoli un tutt’uno indifferenziato, il Kenya come la Cina, il Buthan come il Guatemala.

Da qui nasce la dicotomia tra sviluppo e sottosviluppo: da una parte lo sviluppo come un dover essere delle società umane e dall’altra parte i paesi del Terzo Mondo che non sono più definiti per delle proprie caratteristiche positive, ma per essere privi di quel carattere fondamentale che è lo sviluppo. Quest’idea di sviluppo che si afferma nel Novecento affonda le sue radici teoriche in un concetto di storia lineare, di derivazione cristiana, e adottata tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento dai primi antropologi evoluzionisti. Gli evoluzionisti culturali ritenevano che tutti i gruppi umani si evolvessero nel tempo lungo una stessa scala evolutiva, e che le popolazioni, dette appunto "primitive", incarnassero stadi di sviluppo passati, superati dalle popolazioni europee. Anche se l’infondatezza scientifica di queste teorie è stata rilevata dall’antropologia all’inizio del XX secolo, espressioni come "popolazioni primitive" continuano ad essere utilizzate dai mass media e ad essere largamente diffuse, come sottolinea V. Siniscalchi, tra l’opinione pubblica. Così diffuse e soprattutto così radicate che, come abbiamo visto, un’idea di una cooperazione basata su principi quali l’empowerment e la partecipazione è riuscita a farsi strada solo negli anni ’90 del secolo scorso. Così diffuse che oggi si può dire che il processo di decolonizzazione, seguito alla Seconda Guerra Mondiale, è stato in realtà una farsa e R. Rolland può permettersi di scrivere "I bianchi si sono ritirati dietro le quinte, ma restano i produttori dello spettacolo". Anche Colajanni scrive che nel Novecento si è assistito all’esportazione di un "modello" che ha causato la cancellazione di gran parte degli altri modelli: "l’occidentalizzazione del mondo" di Latouche, un processo che secondo l’economista francese sta generando un’uniformizzazione culturale planetaria, che causa l’asfissia della creatività culturale di tutte le altre culture, la standardizazzione dell’immaginario e del tempo... "una mimesi generalizzata".

Come dire che lo sviluppo di cui tanto si parla è lo sviluppo occidentale, così come la parte occidentale del mondo lo ha pensato e così come si è concretizzato e si concretizza in questa parte del mondo, dando per scontato che questo modello sia gradito e condiviso e, fatto forse ancora più grave, fingendo di non vedere le aberrazioni che questo modello già rivela. Vendiamo per migliore e pretendiamo di esportare un modello che già sappiamo difettoso, ma di cui non sappiamo quali danni (e di quale portata) possa causare. Così non è possibile non esser colpiti da questa osservazione di Colajanni: "non è difficile invece scoprire l’esistenza di numerose civiltà economico-sociali rette da principi economici diversi dall’individualismo, dall’espansionismo e dalla differenziazione che sono tipici dell’Occidente capitalista".

Il fallimento di numerosi progetti e le esperienze negative prodotte da una visione dello sviluppo "per stadi" hanno prodotto molti studi critici che negli ultimi venti anni hanno suggerito approcci diversi al problema dello sviluppo. Nel 1972 un gruppo di studio del M.I.T. (Massachusetts Institutes of Technology) produsse un rapporto che in Italia venne tradotto con il titolo "I limiti dello sviluppo", e che può essere considerato il capostipite di una visione critica dello sviluppo economico su scala mondiale. Questa visione mise in discussione l’ideologia sviluppista e le sue convinzioni che i paesi industrializzati potessero continuare a crescere con un ritmo costante come negli anni precedenti, e che la soluzione per risolvere i problemi dei paesi poveri fosse l’industrializzazione. Il gruppo di ricerca del M.I.T. sostiene che le risorse naturali disponibili costituiscono invece un limite invalicabile alla crescita economica mondiale, e sottolineano la necessità di rispettare le leggi naturali di conservazione dell’ambiente, aprendo così la strada agli studi sullo sviluppo sostenibile.

Come evidenzia A. Vallega "il dibattito sui limiti naturali dello sviluppo ebbe non soltanto il merito di attrarre l’attenzione sul rapporto tra organizzazione dei sistemi economici e risorse naturali, così come tra comportamento sociale e natura, ma anche quello di provocare riflessioni sull’idea stessa di sviluppo. I dibattiti condussero al convincimento che tra crescita e sviluppo esista una differenza sostanziale". Le riflessioni di Vallega nascono sulla scorta di M. D. Young che osserva proprio come i concetti di crescita e sviluppo siano considerati equivalenti, e distingue la crescita, intesa come aumento dimensionale di un organismo o di una struttura, dallo sviluppo, inteso invece come espansione o realizzazione di potenzialità per pervenire ad uno stato più completo, più grande e migliore".

Un secondo movimento formato da economisti e sociologi quali S. Latouche, W. Sachs e I. Illich propone invece idee più radicali, fino a renderli noti con il nome di antisviluppisti. Questi studiosi sostengono la necessità di abbandonare l’idea dello sviluppo e dell’aiuto allo sviluppo, contro il quale sono estremamente critici. Questo movimento, riconoscendo l’esistenza di limiti naturali allo sviluppo globale, ritiene sbagliato cercare di aumentare il ritmo di crescita dei paesi poveri, ritenendo più utile rallentare quello dei paesi ricchi. Ecco come Sachs sostiene questa tesi: "Quaranta anni di sviluppo ci hanno portato ad una situazione in cui i paesi che correvano in testa e quelli che correvano negli ultimi posti non si sono raggiunti […] Le nostre società sono voraci, guardando alla natura da un lato come una miniera e dall’altro come a una discarica […] Tutti dobbiamo prendere il passo più lento[…] La felicità si trova più nell’agire sui desideri che nell’agire sulle cose possedute, nel desiderare di meno piuttosto che nell’accumulare di più." In secondo luogo sostengono che siccome le relazioni con i paesi occidentali hanno conseguenze negative per quei paesi che hanno caratteristiche ambientali, culturali e sociali diverse, quindi i primi non si dovrebbero più occupare di questi, lasciando che ogni paese trovi spontaneamente la sua via per raggiungere condizioni di vita desiderabili per loro.

A questa posizione risponde l’economista Amartya Sen, premio Nobel nel 1998, il quale sostiene che lo sviluppo deve innanzitutto espandere le libertà degli esseri umani, poiché la libertà è fine primario e mezzo principale per conseguire lo sviluppo. In base a questa idea l’economista indiano critica gli antisviluppisti, perché rallentare la crescita vuol dire anche limitare la libertà di crescere, e senza libertà non può esserci vero sviluppo. Per spiegare la sua idea Sen parte dal concetto tradotto in italiano con capacitazione (capability) che definisce come la libertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative di funzionamento, cioè di mettere in atto più stili di vita alternativi, in modo che ciascun individuo possa "vivere il tipo di vita a cui a ragion veduta dà valore", ma poiché la libertà di agire di ogni essere umano è delimitata e vincolata dai percorsi sociali, politici ed economici che gli sono consentiti ecco che lo sviluppo diventa "un processo integrato di espansione di libertà sostanziali interconnesse l’una con l’altra". Questa visione che mette al centro le libertà umane , riconosce che la libertà è un "concetto intrinsecamente multiforme", per questo individua vari tipi di libertà (sostanziali, strumentali, politica, economica, sociale), ma considera indispensabile che la società garantisca almeno le libertà di base, cioè che comprendono capacitazioni elementari, quali l’essere in grado di sfuggire a privazioni come la denutrizione, la fame acuta, le malattie evitabili e la morte prematura, e tutte le libertà connesse al saper leggere, scrivere, far di conto, partecipare alla vita politica. Libertà che noi abbiamo il privilegio di dare per scontate, ma che tali non sono perché "nonostante un aumento senza precedenti dell’opulenza globale, il mondo contemporaneo nega libertà elementari a un numero immenso di esseri umani (e forse addirittura alla maggioranza)".

Fin qui ho cercato di delineare nel modo più chiaro possibile il complesso concetto di sviluppo. Ora per definire il concetto di sottosviluppo consideriamo valida la provocatoria affermazione di Colajanni, il quale lo definisce come "l’assenza di sviluppo", o quantomeno l’assenza delle caratteristiche emergenti di ogni forma completa di sviluppo, che è lo sviluppo occidentale. Questa posizione critica è ripresa, da un punto di vista diverso -quello di un geografo- anche da P. Faggi, che sottolinea come il problema del sottosviluppo sia stato trattato per anni in termini meramente quantitativi e considerato solo come mancanza di alcuni fattori o come ridotto valore di certi indicatori economici.

Si tratta, chiaramente, di posizioni polemiche che mirano ad evidenziare come il problema del sottosviluppo sia stato per anni considerato, e trattato, dai Paesi occidentali in termini riduttivi. Questo perché il modello di sviluppo occidentale è stato, ed è ancora, la pietra di paragone con la quale le società extra-occidentali vengono misurate e con la quale devono giocoforza confrontarsi. Mi sembra che le parole di Latouche mettano in luce al meglio questa posizione quando egli sintetizza caustico che le caratteristiche che definiscono il sottosviluppo sono decise dall’Occidente: "Il sottosviluppo è nella sua essenza questa visione, questa parola dell’Occidente, questo giudizio dell’Altro […]. Il sottosviluppo è una condanna occidentale".

 

3. Sviluppo umano e sviluppo sostenibile

 

Nonostante i cambiamenti e l’evoluzione subita il concetto di sviluppo si dimostra inadeguato ad essere la parola simbolo di una cooperazione alla ricerca di un equilibrio tra lotta alla fame e alla povertà, rispetto delle diversità culturali, ed economie e politiche mondiali, e il fallimento di numerosi progetti attesta questa inadeguatezza. È sulla spinta data da questa nuova considerazione che alla fine degli anni ’80 il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) elabora il concetto di sviluppo umano per superare la tradizionale accezione del termine incentrata sulla crescita economica, definendolo "un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso", ma anche di avere le opportunità politiche, economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza.

Questo approccio mette al centro dello sviluppo le persone, la dimensione umana, prima trascurata, e ridefinisce le modalità d’intervento, spostandole dalla crescita del PIL al miglioramento della qualità della vita e delle condizioni di sostenibilità sociale ed economica. Lo sviluppo quindi non si basa solo sulla quantità della crescita, ma sulla sua distribuzione, cioè l’accessibilità al processo di crescita da parte delle popolazione. Obiettivi primari di questa nuova accezione di sviluppo diventano:

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il miglioramento della vivibilità dell’ambiente, salvaguardando le risorse ambientali e riducendo l’inquinamento.
la promozione dei diritti umani, in particolare alla partecipazione democratica, alla convivenza pacifica, all’equità delle opportunità di sviluppo e d’inserimento nella vita sociale;
il miglioramento dell’istruzione, con particolare attenzione all’alfabetizzazione, all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo;
il miglioramento della salute della popolazione, con una attenzione particolare per i problemi più diffusi e per i gruppi più vulnerabili;
la promozione della crescita economica sostenibile, in particolare migliorando la situazione economica delle persone in difficoltà;

Così inteso lo sviluppo umano ha per obiettivo le persone, rappresentando un processo di ampliamento delle scelte della gente, che costituisce quindi esso stesso un obiettivo per tutta la società.

Coerentemente con questo nuovo concetto di sviluppo i tradizionali indicatori che si riferiscono solo alla crescita economica (come il PIL) vengono sostituiti dall’indice di sviluppo umano (ISU - HDI): la miseria umana e lo sviluppo hanno molti aspetti, ma ogni essere umano possiede un senso complessivo del proprio stato di benessere o di assenza di benessere. Per questo l’Isu è stato elaborato tenendo conto di tre fattori, tre elementi essenziali della vita umana:

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il livello di istruzione, rappresentato dall’indice di alfabetizzazione degli adulti (moltiplicato per due) e dal numero di anni di studio.
il livello di sanità, rappresentato dalla speranza di vita alla nascita;
il reddito, rappresentato dal prodotto interno lordo individuale, dopo una trasformazione che tiene conto sia del potere di acquisto in valuta, sia del fatto che l’aumento del reddito non determina un aumento del benessere in modo lineare;

Tutte e tre le misure soffrono di un difetto comune: sono delle medie, e questo significa che nascondono profonde sperequazioni all’interno della popolazione complessiva, annullano le differenze tra i gruppi sociali, le disparità tra maschi e femmine, che pesano soprattutto sul reddito. Tuttavia l’ISU ha comunque il merito di rappresentare un valido tentativo di misurazione della complessità dello sviluppo umano.

L’indice di sviluppo umano inoltre evidenzia come il legame tra sviluppo economico e sviluppo umano non sia automatico, né ovvio. Infatti molti paesi a rapido sviluppo hanno constatato che la crescita del PNL non è riuscita a ridurre le privazioni socioeconomiche di tutte le fasce della popolazione. Per dimostrarlo basta guardare i dati del Rapporto UNPD del 2003: in 54 paesi si è registrato una diminuzione del reddito medio nonostante la crescita economica.

L’indice di povertà umana (Ipu) serve invece per misurare la distribuzione dei risultati ottenuti in termini di sviluppo umano: è un parametro che misura il livello nazionale di povertà, analfabetismo, disoccupazione ed aspettative di vita. Non c’è alcuna correlazione tra Ipu e sviluppo umano, né tra Ipu e reddito. Lo dimostrano ancora i dati del 2003: gli Stati Uniti sono al 7° posto nella classifica dell’Isu, ma sono uno dei paesi con il più elevato Ipu.

Come abbiamo visto nell’excursus storico nel corso degli anni ’80 si è assistito ad un cambiamento di prospettiva, che ha portato a considerare come le attività umane, se da un lato dipendono dall’ambiente, dall’altro lo modificano, come scrive Faggi "Dopo decenni di determinismo (la natura condiziona l’uomo), seguiti dalla decade dell’ecologismo (l’uomo condiziona la natura), si passa così alla concezione di un’interazione continua tra società umana e natura, intese come sottosistemi appartenenti allo stesso sistema, ciascuno dotato di dinamiche evolutive proprie ma in stretta connessione con quelle dell’altro".

Di fronte a questo cambiamento di prospettiva il concetto di sviluppo umano si dimostra insufficiente ad affrontare le nuove sfide dello sviluppo. Nasce così ancora una volta un’accezione nuova del termine, non per sostituire quella precedente ma per affiancarla: si comincia a parlare quindi di sviluppo sostenibile, dove l’aggettivo "sostenibile" indica l’idea che il progresso delle attività umane non debba più procedere ad un ritmo tale da modificare in modo errato, o da esaurire, le risorse ambientali. È difficile dare una definizione di sviluppo sostenibile, questo concetto appare nel panorama internazionale in seguito alla crescente attenzione per i temi ambientali, ma il suo significato si espande ben oltre i confini dell’ecologia, per questo mi sembra interessante, come punto di partenza, la definizione che ne dà S. Crispoldi: "Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che, pensando ai posteri, previene la distruzione totale delle risorse, […], attenti alle ragioni dell’ambiente, del contesto immediato, degli esseri umani, di tutti gli esseri viventi, e delle relazioni complesse che si instaurano tra queste variabili". Questa definizione mi piace perché propone un’idea di qualità (della vita) che proietta il problema della vivibilità degli esseri umani sulla Terra in un tempo diverso dal futuro prossimo, e perché parla di "relazioni complesse" tra le variabili, e mi sembra che l’acquisizione della complessità delle variabili in gioco sia il punto di partenza necessario per comprendere l’ampiezza di questo concetto. Anche A. Vallega d’altronde definisce lo sviluppo sostenibile come un paradigma complesso che nasce dall’incrociarsi della teoria ecologica, che vede l’ecosistema come una "macchina non banale", e quindi non completamente prevedibile, ma come un organismo autopoietico perché capace di produrre da sé gli elementi per riorganizzarsi e reagire nei riguardi dell’ambiente esterno, con altri filoni di pensiero quali la teoria etica, la teoria economica e la teoria politica, da cui nasce una posizione innovativa che sostiene che lo sviluppo innanzitutto non si identifica necessariamente con la crescita, anche se non la esclude, ma comporta sempre un miglioramento qualitativo (qualità della vita, paesaggio, patrimonio culturale) e richiede il diritto per tutti i componenti della comunità umana, a esprimere le proprie potenzialità; questa idea di sviluppo implica l’affermazione di valori che riguardano sia la società, sia la natura e include l’ambiente nelle internalità del sistema economico, e presuppone che sia garantita l’integrità dell’ecosistema.

Il concetto di sviluppo sostenibile quindi, nato dalla messa in evidenza "del problema della cosiddetta scarsità assoluta, ossia l’esistenza di risorse naturali non rinnovabili" si amplia fino ad abbracciare il concetto di sviluppo umano, auspicando un futuro di equilibrio tra le diverse popolazioni, e queste a loro volta in equilibrio con l’ambiente, un equilibrio dinamico e "relazionale", non basato su un’unica scala di sviluppo a cui una parte della popolazione del pianeta deve conformarsi, ma uno sviluppo da creare assieme, nell’ambito di una relazione complessa tra uomini, società (tutte le diverse società), e natura. Lo sviluppo sostenibile è dunque quello che favorisce un approccio dal basso e la partecipazione delle popolazioni interessate a tutte le fasi del progetto, perché i "progetti che hanno un impatto positivo e sostenibile sono proprio quelli che analizzano e usano attentamente le conoscenze locali".

Camminando sui passi dell’evoluzione del concetto di sviluppo si comprende che quello che è in atto è un "processo di de-economicizzazione" delle teorie e pratiche delle sviluppo, che sta contribuendo a costruire una visione integrale e sempre più globale dei processi di cambiamento pianificato e di modernizzazione, all’interno dei quali l’uomo si possa collocare sempre più come "attore globale", con tutto il suo carico di beni, ma anche di costumi e di sistemi di ideali e di valori, non possiamo quindi non auspicare con Colajanni che si compia "quella «rivoluzione copernicana» che dia finalmente un orientamento diverso a tutta la storia planetaria, rimettendo definitivamente al centro dell’attenzione del cambiamento l’uomo nella sua situazione globale e attribuendo importanza e centralità anche alla diversità delle culture, al tema delle identità sociali, delle storie particolari delle diverse società umane".

 

8. La testimonianza di un missionario:

intervista a p. Lorenzo Schiavon

 

P. Lorenzo Schiavon è un padre comboniano che ha vissuto per 12 anni in Karamoja, una regione dell’Uganda abitata da una popolazione di guerrieri semi-nomadi dediti soprattutto alla pastorizia.

L’ho intervistato per parlare di Paesi in via di sviluppo, di culture "altre", con una persona che ha vissuto per molti anni in una di queste realtà, e si è confrontata quotidianamente con le problematiche connesse.

Gli ho chiesto di raccontarmi la sua esperienza in Karamoja, in particolare su alcuni temi importanti per questa tesi. Abbiamo parlato quindi di sanità, di medicina tradizionale, ma anche di concetti fondamentali nel sistema culturale di una popolazione, come vita e morte.

Più di tutto però ho lasciato che mi raccontasse la "sua" Africa…

Visto che sei un sacerdote, parlami del rapporto tra "magia" e religione: come si integrano queste due componenti nella cultura dei Karimojong?

Il rapporto con la magia, il soprannaturale, presso i Karimojong è meno marcato che presso i popoli sedentari, questi hanno un rapporto più forte con la terra, e quindi con tutto il sistema di spiriti ed energie ad essi legati. Diverso è soprattutto il rapporto con i defunti: i Karimojong rimangono nella stessa zona per un periodo che varia dai 4 ai 10 anni e seppelliscono l’anziano dietro la sua capanna, ma poi si sposteranno, quindi non c’è quel rapporto con la tomba, con il luogo, che si riscontra invece presso le popolazioni sedentarie.

Il valore della magia è legato al concetto unitario che i Karimojong hanno della persona, come unione di corpo e anima (concezione biblica): i mali del corpo testimoniano che qualcosa non va nell’anima, per questo ricorrono al medicine-man. Egli dà loro delle erbe, dei preparati tratti dalle piante, che cureranno il male del corpo, ma attraverso un complesso rituale cura anche l’anima. La sua terapia si basa su una visione olistica del malato, in cui le varie sfere della vita della persona da curare sono considerate un tutt’uno unitario. Il medicine–man è una figura che ha dei "tratti" particolari, è una figura rispettata e temuta, egli acquisisce il suo ruolo perché la collettività riconosce in lui queste caratteristiche distintive, quindi avviene per un processo di cooptazione.

Una figura molto importante è… il profeta, egli ha la capacità di "vedere", di leggere il futuro, soprattutto attraverso la lettura delle interiora degli animali, che viene fatta nel corso di un rito, al termine del quale egli dà la sua interpretazione dei segni; ma ho più volte notato che perfino i bambini conoscono il significato di alcuni "segni", questo significa che è un "linguaggio" il cui valore è ancora molto radicato nella cultura della comunità.

Un rituale come questo è giustificato da una visione unitaria del tempo: il presente è determinato dal passato, e il presente a sua volta contiene in sé i segni del futuro, gli elementi per conoscerlo, perché il presente a sua volta determina il futuro. Unitaria è anche la visione della comunità, che è unitaria non solo sul piano dello spazio, ma anche in senso temporale: ogni Karimojong si porta dentro gli antenati e in lui ci sono le generazioni future, delle quali è responsabile. Tutto l’insieme dei membri passati, presenti e futuri costituisce la comunità.

L’importanza data alla magia è tale che non si affrontano una razzia, uno spostamento, o un momento decisivo senza chiedere il parere almeno degli anziani: i ragazzi vanno da un anziano a chiedere la benedizione prima di fare la razzia, se uno non gliela dà vanno da un altro finché trovano uno che li accontenta. Una figura molto forte all’interno della comunità è l’anziana del villaggio, lei ha il potere di maledire e di benedire, detiene un forte potere psicologico.

Nella cultura dei Karimojong non esiste l’aldilà, se non nel modo in cui te l’ho spiegato, ma oggi per effetto dell’influenza della cultura occidentale, e di noi missionari, i Karimojong ti dicono che l’aldilà è come un grande villaggio dove vivono gli spiriti dei defunti, e questi di notte si riuniscono attorno al fuoco a chiacchierare.. per questo ci sono le stelle. Ma non credo che questa visione sia molto radicata nella loro cultura, ce lo dicono per farci contenti.

Com’è la situazione sanitaria in Karamoja, e in Uganda?

Ci sono gli ospedali governativi, che ricevono fondi dalla comunità europea, e che come tutti i servizi governativi creano attorno a sé delle realtà di vita sedentaria. Generalmente questi ospedali non funzionano bene, perché il governo non è interessato al Karamoja: è una comunità piccola, poco istruita, la gente non va a votare. Ma il governo riceve questi soldi e ha bisogno di far vedere che almeno una parte viene utilizzata per lo scopo previsto, così apre gli ospedali.

Poi ci sono gli ospedali gestiti da personale religioso, suore, cappuccini e quelli aperti da qualche Ong, sono strutture private, che funzionano bene, sono ben organizzate, ben gestite, all’interno si lavora bene. Non perché sono gestiti da personale occidentale, perché all’interno c’è molto personale locale (anzi di solito è la maggior parte), ma è proprio perché c’è una motivazione diversa: qui si lavora davvero per curare le persone, non ci sono sprechi (di materiale e di risorse), tutti cercano di dare il meglio, nessuno lavora al risparmio. Lo stipendio, per quanto "piccolo" a fine mese arriva ..in un ambiente così il personale locale lavora volentieri, con soddisfazione. Mentre negli ospedali governativi c’è una gara a chi fa meno, gli stipendi a volte non arrivano anche per 4 mesi…e la gente che ci lavora ha bisogno di quei soldi…in una situazione così ognuno cerca di guadagnare il massimo per se stesso, lavorando il meno possibile…e così gli ospedali governativi non funzionano bene.

Ma i Karimojong ricorrono agli ospedali per curarsi?

Nella zona del Karamoja si è raggiunto uno dei livelli più alti di vaccinazione di tutto l’Uganda, l’ospedale di Matami (si tratta di un ospedale diocesano, all’interno del quale lavorano anche medici Cuamm) si è rivelato essere il migliore dell’Uganda per quanto riguarda il rapporto tra spesa e rendimento. I Karimojong vanno più spesso negli ospedali privati, perché sanno che lì il servizio è migliore, anche se devono pagare: culturalmente questo per loro non è un problema, sono abituati, perché quando vanno dal medicine-man pagano, portando doni. Quando un Karimojong va alla capanna del medicine-man prima di tutto gli dà il suo dono (un capretto o altro), che è il pagamento, e poi può parlare.

Un’indagine ha rivelato però che nella maggior parte dei casi i Karimojong vanno prima dal guaritore tradizionale, solo in seconda battuta vanno al più vicino dispensario, o all’ospedale, perché sanno che all’ospedale verranno trattati come numeri. Arrivi, prendi un numero e poi aspetti per ore, quando è il tuo turno ti visitano velocemente e poi ti danno la cura. Con lo stregone invece c’è un rapporto personale, e umano, ti ascolta, paghi, ma il consulto dura anche 6 ore, durante le quali il medicin-man fa sentire il suo paziente il centro dell’universo. La consultazione è un lungo rituale, che ha un forte valore psicologico: tutto questo è molto importante per i Karimojong. Per questo la medicina occidentale non può soppiantare la medicina tradizionale, perché non è in grado di soddisfare questo bisogno.

Toglimi una curiosità: ma le terapie dei medicine-man funzionano?

All’ospedale a volte arriva una persona rovinata dal medicine-man, una che se fosse arrivata prima avrebbe potuto essere curata, o una persona la cui situazione magari è stata peggiorata dalle "cure" del medicine-man, ma per una che arriva così vuol dire che almeno 50-70 sono state curate. I medicine-man hanno una precisa e accurata conoscenza di tutte le piante che crescono nella zona, una conoscenza che si tramanda di padre in figlio. Una volta sono andato a fare una passeggiata con un anziano medicine-man, che mi descriveva l’utilizzo di ogni piccola erba che vedevamo, mi diceva "Questa è buona per il mal di pancia, questa cura le scottature..", e così via…

Ma tutti i Karimojong hanno una conoscenza base delle proprietà delle piante della zona, e utilizzano queste conoscenza anche per decidere dove portare a pascolare il bestiame: decidono il loro percorso in base alle erbe che crescono nelle varie zone, ad esempio ogni tanto le portano su quel "pascolo" (è una parola un po’ grossa per il Karamoja) perché sanno che lì ci sono erbe che fanno bene all’intestino. E in questo modo si prendono cura del loro bestiame, che è importantissimo per i Karimojong, perché costituisce la loro ricchezza, ma in senso più simbolico che pratico. Solo chi possiede del bestiame ha una vera posizione sociale. Per i Karimojong i buoi sono una via di mezzo tra una cosa e una persona. Se ne occupano gli uomini, e ogni padre lascerà i propri buoi ai suoi figli. Quando un bambino dimostra una particolare "simpatia" per un bue il padre glielo regala, e quello diventa il suo "bue preferito" (per il bambino), da cui prende un nuovo nome, che significa più o meno "padrone del bue tal dei tali". Questo nome viene dato anche agli stranieri che si stabiliscono presso i Karimojong per un lungo periodo, è un importante segno di riconoscimento, che indica che fai parte della loro comunità.

Quindi il bestiame non viene allevato per quello che produce…

Le mucche sono tutte molto magre, perché la zona è molto arida, producono poco latte e quel poco serve per i vitelli, solo una piccola parte viene utilizzata. Dei buoi viene mangiata la carne, e poi servono per i rituali. Il bestiame viene allevato principalmente perché esso determina l’avere una posizione sociale, se non hai una piccola mandria non sei nessuno. Per noi occidentali, che viviamo con la logica dell’accumulo, sembra impossibile, lì non esiste proprio l’idea di accumulare, perché se viene tuo cugino, tuo fratello e ti dice che ha bisogno di quel denaro perché suo figlio sta male, tu glielo dai, e gli dai il tuo riso se i suoi bambini hanno fame.. così non c’è nemmeno il "tempo" di accumulare.

Nella nostra missione c’era una ragazzo molto bravo, lo abbiamo aiutato perché potesse andare a scuola e poi lo abbiamo mandato a Luanda per imparare a fare il meccanico, gli piaceva montare e smontare i motori, ed era bravissimo. Ma non si è aperto una piccola officina, ha preferito prendersi un po’ di terra e vivere di quello che questa terra produceva, aveva il suo trattore, ed era contento. Se qualcuno lo chiamava per aggiustare un mezzo lui andava, ma non veniva pagato per questo, perché, se la richiesta veniva, ad esempio, dal comandante dell’esercito, non poteva dirgli di no, pur sapendo che non avrebbe pagato, perché che strada fai poi alla sera per tornare a casa? E poi i popoli africani hanno un concetto molto allargato di "famiglia", così alla fine sono tutti parenti, e hai parenti non chiedi di pagarti. Questo ragazzo alla fine non si faceva pagare neanche da noi, noi eravamo la sua "banca", quando aveva bisogno di qualcosa ce lo veniva a chiedere, e in questo modo il suo denaro era più al sicuro.

Come sono vissuti i momenti della nascita e della morte?

Per i Karimojong i figli sono tutto, rappresentano il futuro, la ricchezza…tutto, quindi una nascita è un momento di grande gioia, di festa.. ma neanche troppa perché nasce un bambino al mese! I bambini sono davvero vissuti come una grande ricchezza, si è calcolato che ogni donna ha una media di 6-8 gravidanze, circa 2-3 bambini muoiono nei primi anni di vita.

E come è vissuta la morte di un bambino?

È più dolorosa della morte di un adulto, ma c’è di fondo l’idea che di figli se ne potranno fare altri.Comunque ti dicevo che un bambino è davvero molto importante, soprattutto per la donna, perché la qualifica come donna. La sterilità è vissuta come una maledizione, ci sono ragazze che si suicidano perché non possono avere figli. È l’unico motivo per cui un Karimojong può rimandare la moglie alla sua famiglia d’origine.

E la sterilità è considerata solo femminile..

No, anche perché essendo una società poligamica, diciamo che c’è la controprova, ma è anche una società dominata da una cultura fortemente maschilista, quindi se un uomo è sterile, la cosa viene "coperta", magari facendo mettere incinta la donna da un altro.

Alla donna incinta si porta un rispetto particolare, è come se attorno a lei ci fosse un’aura particolare, anche se poi lavora fino al momento del parto. Anche il parto è vissuto secondo un importante e preciso rituale, che è diretto dalla mamma del papà del nascituro, coadiuvata da tutte le altre donne della famiglia, ma è lei che annuncia che è iniziato il parto e che assegna le mansioni alle altre.

Poi nei giorni successivi vengono a farlo battezzare, anche se non credono in Dio, nel "nostro" Dio, ma si arrabbiano se non glielo battezzi, perché per loro costituisce una ulteriore protezione contro gi spiriti maligni, una difesa in più per il bambino.

E com’è vissuta la morte?

La morte è considerata un passaggio dovuto, non è fine, ma parte della vita, è vissuta anche con un certo fatalismo, anche quando muore un giovane si tende a pensare che doveva andare così…C’è dolore, ma è un dolore vissuto nella consapevolezza che la morte fa parte del ciclo della vita, per questo tra i Karimojong non c’è un sentimento di angoscia nei confronti della morte. E poi la morte è un momento che viene vissuto in questo contesto di famiglia allargata: chi vive un lutto, ad esempio, non fa mai da mangiare, sono gli altri a portargliene.

Quello che oggi più di tutto angoscia i Karimojong è la paura di scomparire come gruppo etnico e come cultura: dal primo anno della mia permanenza in poi ho visto un’escalation di violenza, dovuta anche al fatto che c’è chi vende loro le armi, ma io non credo che questo fattore basti a giustificare il livello di violenza che si è raggiunto in quella zona. È questa paura che scatena in loro questa violenza.

 

 

Antonino Colajanni

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