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Giovanni Falcone

 Giovanni falcone: un testimone contro la mafia

 

Prima di Falcone c'era Chinnici, e prima di Chinnici Terranova e Costa. Dopo Falcone venne Borsellino. Tutti questi uomini, individualmente considerati, non erano eguali fra loro. Commisero a volte degli errori, ciascuno i suoi; non furono infallibili, né - ciascuno a suo modo - privi di debolezze umane. Ma tutti insieme servirono come pochissimi prima di loro la causa dei siciliani. Succedettero l’uno all’altro senza esitazione alcuna, inghiottendo le lacrime e il timore, prendendo senz’indugio il posto del compagno morto. Ebbero il coraggio eroico delle battaglie e quello, ancor più grande, del comune dovere d’ogni giorno. Insegnarono coi fatti la dignità della vita.

 

Sono le 17,48 quando su una pista dell'aeroporto di Punta Raisi atterra un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall'aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Sopra c'è Giovanni Falcone con sua moglie Francesca. E sulla pista ci sono tre auto che lo aspettano

 

E sulla pista ci sono tre auto che lo aspettano. Una Croma marrone, una Croma bianca, una Croma azzurra. E' la sua scorta, erano stati raggruppati dal capo della mobile Arnaldo La Barbera. Una squadra affiatatissima che aveva il compito di sorvegliare Falcone dopo il fallito attentato del 1989 davanti la villa del magistrato sul litorale dell'Addaura. La solita scorta con Antonio, Antonio Montinaro, agente scelto della squadra mobile che, appena vede il "suo" giudice scendere dalla scaletta, infila la mano destra sotto il giubbotto per controllare la pistola.Tutto sembra tranquillo...

 

La Croma marrone è davanti. Guida Vito Schifani, accanto c'è Antonio, dietro Rocco Di Cillo. E corre, la Croma marrone corre seguita da altre due Croma, quella bianca e quella azzurra. Sulla prima c'è il giudice che guida, accanto c'è Francesca Morvillo, sua moglie, anche lei magistrato. Dietro l'autista giudiziario, Giuseppe Costanza, dal 1984 con Falcone, che era solito guidare soltanto quando viaggiava insieme alla moglie. E altri tre sulla Croma azzurra, Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Un minuto, due minuti, la campagna siciliana, l'autostrada, l'aeroporto che si allontana, quattro minuti, cinque minuti.


Ore 17,59, autostrada Trapani-Palermo. Investita dall'esplosione la Croma marrone non c'è più. La Croma bianca è seriamente danneggiata, si salverà Giuseppe Costanza che sedeva sui sedili posteriori. La terza, quella azzurra, è un ammasso di ferri vecchi, ma dentro i tre agenti sono vivi, feriti ma vivi.

· Antonio Montinaro, 30 anni

· Vito Schifani, 27 anni

· Rocco Di Cillo, 30 anni

· Francesca Morvillo, 47 anni

· Giovanni Falcone, 53 anni

"Un uomo fa quello che è suo dovere fare,

quali che siano le conseguenze personali,

quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni.
Questa è la base di tutta la moralità umana"

(Frase di J.F.Kennedy, che Giovanni Falcone amava ripetere)

Ci piacerebbe ricordarlo per quello che era, un fedele servitore dello Stato. Non vorremmo finire per scrivere un’agiografia, o trasformare questo magistrato in un eroe senza macchia e senza paura. E’ stato a nostro avviso invece un testimone coerente della propria vocazione, capace di andare fino in fondo per amore del proprio lavoro e della sua terra. Nato a Palermo il 19 Luglio del 1939, è di famiglia borghese e conservatrice, residente nel centro del capoluogo siciliano. Il padre, funzionario di provincia, la madre molto religiosa che lo fa partecipare alla vita della chiesa. Da piccolo serve messa. Divenuto più grande, nutre una rispettosa nostalgia per la fede. Da adolescente, terminata la maturità classica si interroga sul proprio futuro: sarà medico o magistrato? In questo periodo uno scritto di Mazzini, riguardante la giustizia, gli infiamma il cuore. Così dopo aver perfino tentato una carriera come ufficiale in marina, nel 1964 Falcone, laureatosi a Palermo, supera il concorso per entrare in magistratura. Già allora i sentimenti che lo abitavano, e che conserverà per tutta la vita, esprimono una decisione estrema nell’andare fino in fondo. Non si poneva cioè il problema se alcune azioni andassero portate a termine, ma solo il modo con cui affrontarle. La sua vita ci testimonia che questo principio, non rimase un bel proclama un po’ retorico, ma fu vissuto quotidianamente dal giudice. Ben presto dunque, dopo una breve esperienza nell’ambito del diritto civile, si dedicò al diritto penale o meglio alla sua vera vocazione,ai processi contro la mafia. E come può essere in Sicilia per chi è coerente con se stesso?

Leggendo alcune sue biografie, emerge una personalità molto schiva, che evita sempre gli argomenti personali nel corso di ogni conversazione. Ma soprattutto Falcone da siciliano e ancor meglio da palermitano ha trascorso tutta la vita immerso nella diffusa cultura mafiosa, come un altro siciliano comune e come un qualsiasi mafioso, e conosce perfettamente il lessico delle piccole cose dei gesti e dei mezzi gesti che a volte sostituiscono le parole. Cosi diviene magistrato da manuale, un servitore dello Stato che dà per scontato che lo Stato debba essere rispettato, ma non uno Stato ideale e immaginario, ma questo Stato, così com’è. Dotato di una straordinaria capacità di lavoro e di una memoria di elefante, ha saputo sfruttare in modo intelligente la polizia, ha organizzato efficacemente la propria sicurezza personale. Si è circondato di persone qualificate. Si è dimostrato rigoroso all’estremo nell’esercizio del suo mestiere di inquirente: senza mai colpire obiettivi vaghi; senza mai imbarcarsi in alcuna iniziativa di cui non fosse assicurato il successo; senza mai entrare in polemica personale con un presunto mafioso. E qui occorre sottolineare come Falcone fosse abilissimo a creare un rapporto vero ed umano con questi criminali. Anche quando i boss mafiosi si dimostravano insolenti, arroganti o vittimismi, era sempre capace di opporre loro una calma e una sicurezza di sé incrollabili. E a rispettarli, riconoscendo talvolta in qualcuno di loro un’ umanità insospettabile, come quando afferma ”Che calore, che senso di amicizia quando ci siamo salutati con i pentiti Buscetta, Mannoia, Calderone”. E si è spinto anche oltre. Unico magistrato che si sia occupato in modo continuo e con impegno assoluto di quel particolare problema noto come Cosa Nostra, è il solo capace di comprendere e spiegare perché la mafia siciliana costituisca un mondo logico, razionale, funzionale e implacabile. Più logico, più razionale, più implacabile dello stato. Falcone di fronte all’incapacità e alla mancanza di responsabilità del governo, si è talvolta eretto a difensore di certi mafiosi pentiti contro lo Stato, vittime di vendette trasversali. Cosa Nostra uccide ad essi tutti i più cari parenti per aver rotto il muro del silenzio, e in Italia i collaboratori di giustizia hanno dovuto attendere una legge del 1991 per poter beneficiare di un programma di protezione ufficiale, per aver diritto a vivere. A Falcone quindi il compito di stare anche dall’altra parte della barricata, a fianco di ex mafiosi e mafiosi contro la barbarie dello Stato. Per riassumere allora, Falcone è in grado di combattere la mafia perchè la conosce e la comprende meglio di chiunque altro.

E proprio perché la conosce non sottovaluta mai i rischi che corre, anche se alla fine forse nemmeno lui riesce a realizzare quanto pericoloso fosse diventato per la criminalità organizzata, e di cosa sarebbero stati capaci per ucciderlo. Convive infatti come ogni siciliano, fin dalla nascita con l’idea della morte, ne parla con ironia, la considera come una parente, con la quale prima o poi si deve fare i conti. Durante il maxiprocesso del 1986 lui stesso racconta che giocava con i colleghi a scrivere i propri necrologi truculenti da pubblicare sul “Giornale di Sicilia”. Tuttavia fa di tutto per non diventare un facile bersaglio della mafia, e immolarsi alla criminalità per mancanza di attenzione. In una lunga intervista lui stesso afferma come moltissimi colleghi siano stati troppo imprudenti e salvo qualche rara eccezione che conferma la regola, non abbiano fatto tutto il dovuto per proteggere la vita da un nemico così pericoloso come Cosa Nostra. Certo questo gli è costato molto, Falcone ha di fatto rinunciato ad ogni forma di libertà almeno 11 anni prima della sua morte, quando non si è concesso più un ora d’aria senza scorta, ha spesso contemplato il sole da dietro i vetri blu della sua auto blindata, ha trascorso le ferie rinchiuso all’Asinara con Paolo Borsellino per preparare gli atti processuali, ha diffidato anche di un caffè offertogli magari in buona fede, ha rinunciato ad ogni abitudine, anche la meno pericolosa. Ha in un certo senso condiviso la sorte dei suoi avversari, anche se il suo carcere variava più volte anche nella stessa giornata. Falcone poi ha sempre sottolineato l’importanza della professionalità nella lotta alla mafia. Che significa adottare iniziative solo quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Che significa impegno duro, continuo, quotidiano. Senza bluff e dilettantismi. Che significa ribadiva, evitare le trappole, ma soprattutto avere la consapevolezza che le indagini non possono essere monopolio di un’unica persona, ma frutto di un lavoro di gruppo.

Ripensando alle scelte fatte, mai è stato colto dal dubbio di combattere una lotta contro i mulini a vento, e soprattutto che non ne valesse la pena. Rinunciava volentieri ad una vita normale, pur di vedere sconfitta Cosa Nostra, ma soprattutto vedere trionfare dopo centocinquant’anni di latitanza lo Stato in Sicilia. Nel 1991, scelse di lasciare Palermo per andare a Roma, per ragioni molteplici. A Palermo non disponeva più dei mezzi necessari per combattere Cosa Nostra, il frazionamento delle inchieste aveva paralizzato i giudici del pool antimafia, e così in qualche modo era divenuto il simbolo di una battaglia disorganizzata. In più a Palermo, anche dentro la magistratura non aveva più molti amici, anche l’allora sindaco Orlando lo accusa di tenere chiuse nel cassetto le risultanze sugli omicidi politici (Reina, Mattarella, La Torre) per compiacere i nuovi amici della DC e del PSI. Così Falcone va a dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia. Così Falcone, non abbandona la lotta alla mafia ma la sposta solo ad un livello più alto, pur sapendo i rischi che comporta. In un clima di totale sfiducia nei suoi confronti, con accuse pesanti anche da Magistratura democratica, da amici di un tempo, il neodirettore agli Affari Penali ispira un decreto retroattivo, presentato dal ministro Martelli e dal ministro dell’intero Scotti, che il primo marzo 1 Marzo 1991 riporta in cella 41 boss agli arresti domiciliari. Così il magistrato firma di fatto la sua condanna a morte. Del resto la mafia ci aveva già provato senza successo il 21 Giugno 1989, quando cinquanta candelotti di tritolo furono nascosti tra gli scogli a venti metri dalla casa dove trascorreva le vacanze. Ma Falcone non si era illuso di averla fatta franca. Disse:« Il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno».

E così le famiglie decisero nel 1992 di uccidere il loro nemico numero 1, ricorrendo ad un dispiegamento di forze senza precedenti, per fermare l’ottimo lavoro del giudice che rischiava di compromettere seriamente il potere mafioso. Riina e gli altri realizzarono infatti, che la stagione di complicità dello stato era terminata. Così la preparazione dell’attentato di Capaci durò ben due settimane. Riina pretende un’adesione aperta di tutte le famiglie, e poi da il via a tutta una serie di operazioni per collocare sotto il manto stradale quintali di esplosivo. Dovrebbe far riflettere in questo caso, quale sia la totale padronanza del territorio da parte di Cosa Nostra. E così si giunge al 23 Maggio del 1992. E’ un sabato. Alle 17.56 avviene il botto che gli italiani dimenticheranno difficilmente e i siciliani ci si augura mai. Giovanni Falcone muore assieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Falcone così vede compiuta la sua stessa profezia. “Si muore generalmente perché si è soli o perché si entrati in un gioco troppo grande. Si muore perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato, che lo Stato non è riuscito a proteggere”.

L’uomo Giovanni Falcone è morto, ma le sue idee, la sua radicalità, il suo impegno vivono ancora. Crediamo di poter affermare che ha vissuto laicamente un vero e proprio martirio, lo ha vissuto nella quotidianità e in quel tragico Sabato di maggio. Ma allo stesso tempo quella morte, diviene simbolo di mille altre morti, non meno importanti, che ogni giorno ci dovrebbero interrogare e provocare. Che dovrebbero farci uscire dal clima di indifferenza che regna sovrano ormai ovunque, senza distinzioni geografiche e che consente all’ingiustizia spesso di regnare incontrastata e che priva cittadini onesti che lottano per la Giustizia non solo della libertà ma anche della vita.

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