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Tra gli afrodiscendenti in mezzo alla Colombia che non conta

Lettera di padre Daniele Zarantonello - Colombia

Tra gli afrodiscendenti

in mezzo alla Colombia che non conta

  

Un saluto di pace!

É troppo tempo che non do mie notizie e mi scuso. Sono stati mesi di ascolto, di silenzio attento, di tante domande e dubbi, di presa di coscienza del “dove” e del “come” sono arrivato qui in Colombia. Anche tempo di ringraziamento e di lode per le numerosissime persone che acompagnano con l’amicizia e la preghiera questa mia nuova missione, e per la bellezza che scopro nel vivere quotidiano la mia scelta di vita qui a Tumaco. 

Vivo a Tumaco appunto, nell’estremo sud della Colombia, un’isola della costa pacifica colombiana. Come in tutta la costa del Pacifico, la popolazione é prevalentemente negra afrodiscendente (95%), portata qui fin dagli inizi dell’invasione spagnola di questi territori per lavorare come manodopera schiava nelle miniere di Barbacoas. É una Colombia differente da quella che possiamo vedere a Bogotá, o a Medellín, é la Colombia abbandonata e vilipesa, quella che non conta. Quando ero a Bogotá ho chiesto a molte persone cosa pensassero della costa, di Tumaco in particolare: molti non sapevano che esistesse e chi ne aveva conoscenza ne parlava come di un posto dove non sarebbe mai andato.

In questi giorni siamo sulle prime pagine dei giornali: una bomba esplosa davanti alla Polizia nel centro di Tumaco in ora di punta e di mercato ha lasciato 11 morti e piú di 70 feriti. Sono giorni di lutto e si respira tristezza e paura nell’aria. Non é l’unica né la ultima: c’é molta violenza in cittá, una delle scuole di Tumaco non ha ancora aperto i battenti a causa delle minacce contro i professori, per non aver pagato il “pizzo” (qui chiamato “Vacuna”) alle bande criminali che paralizzano la cittá. É difficile leggere questa realtá, é difficile scegliere come starci dentro, é difficile scegliere le parole adatte per descriverla ... non sai mai chi ti ascolta e come reagirá ... nessuno parla, tutti sopportano. Non é una pazienza rassegnata: la maggior parte delle persone dalle 5 del mattino é in strada, lavora, soffre, spera, cerca possibilitá di lavoro e di vita degna. 

 Ma c’é questa fascia grande di giovani che davvero preoccupa: hanno finito le scuole dell’obbligo, con un livello educativo cosí basso da non poter accedere a nessuna universitá statale, e con un reddito cosí infimo da non poter pensare ad una scuola privata, non trovano lavoro e non ci sono investimenti locali seri per poter pensare a un qualsiasi lavoro qualificato. Si lavoricchia pescando, vendendo frutta (cocco, cacao, banane, mango, ...), tagliando e caricando nei camion legna per l’esportazione all’ingrosso di legname pregiato (che chiaramenta arricchirá qualcun altro) o facendo i mototaxisti, o facendo qualche lavoretto municipale se sei amico dell’autoritá eletta. Senza risorse, senza sbocchi lavorativi, senza visione di futuro con speranza, vari giovani scelgono le bande criminali, che controllano il narcotraffico locale, e muovono soldi e armi in gran quantitá.

La risposta dello Stato all’emergenza regionale é stata duplice: primo, inviare migliaia di militari per controllare la zona, con spese militari enormi e senza ombra di dubbio inutili, con un aumento di mitragliatrici e uniformi ad ogni angolo di strada e nessuna riduzione della violenza; secondo, la fumigazione delle coltivazioni di coca con gas altamente velenosi (proibiti dalla comunitá internazionale), pericolosi per la salute e devastatori del terreno, che oltre a distruggere la coca distruggono tutti gli altri prodotti locali, fomentando l’abbandono dei campi e l’aumento della tugurizzazione della cittá. Sono le classiche soluzioni facili, dall’alto, la “risposta efficace” ai problemi territoriali che servono solo per poter dire alla televisione: “stiamo agendo con rapiditá ed efficacia”. Quando se ne va la telecamera del telegiornale nazionale, pochi si stringono la mano compiaciuti, mentre migliaia di famiglie devono barricarsi in casa per paura delle rappresaglie o devono lasciare le loro terre sterili per emigrare in cittá. 

Non mi dilungo di piú sulla realtá locale: sentiamo forte l’urgenza dell’accompagnamento dei giovani, della formazione di piccole comunitá di resistenza per rompere l’isolamento imposto dalla violenza, dell’educazione come strumento di liberazione. Ho incontrato una comunitá di amici che dentro questa realtá cerca di iniettare il dono evangelico della speranza comunitaria. 

I miei compagni di comunitá sono fr. Claudio, P. Franco, p. Joseluis e p. Michele. Siamo in 5, divisi in due casette, per accompagnare due distinte zone della cittá ... peró la comunitá é unica, lavoriamo, preghiamo, progettiamo insieme. Viviamo nella zona piú “calda” della cittá, come presenza semplice e vicina alla gente. Il lavoro pastorale cerca di partire sempre dalla realtá e dalle risorse (poche) della gente: non facciamo grandi progetti né grandi “doni”, perché vediamo il danno causato dalle tante organizzazioni internazionali che hanno usato e usano questa gente e la loro realtá per arricchirsi dietro la facciata della solidarietá, con progetti magniloquenti che lasciano solo alla gente il braccio teso di chi chiede e non sa piú pensare o criticare in modo costruttivo.

In questi mesi ho visto, ascoltato ... Ma la realtá mi vuole subito all’opera e non mi lascia tregua, cominciando dal vescovo che mi ha giá nominato coordinatore diocesano della catechesi! La mia comunitá mi ha chiesto di accettare, sia per l’urgenza di accompagnare questa area pastorale sia per l’equipe con cui lavoreró che mi garantiscono che é molto buona (me ne sto rendendo conto di persona!). Ho potuto visitare alcune comunitá della costa, e sono rimasto colpito del loro stato di abbandono pastorale: c’é stato un lavoro, nel passato, di formazione dei leaders locali, che peró é andato a picco con la coltivazione della coca e tutte le sue conseguenze, e non é stato mai piú ripreso. Si fanno visite sporadiche e inefficaci. In questi giorni sto ascoltando un sacco di persone, chiedendo consiglio, raccogliendo materiali, cercando di fare un po’ il resoconto storico del cammino fatto finora per poter dare un passo in avanti aderente alla storia e nel rispetto di chi si é impegnato in quest’area in questi anni. 

Ho chiesto di poter entrare dentro questa realtá dei villaggi della costa andando per i prossimi 6 mesi ogni 15 giorni per 2/3 giorni in una comunitá, chiamata “Bocas de Curay”, a due ore di canoa da Tumaco, dove faró un corso di formazione ai leaders locali, accompagnato da persone valide, e preparando un materiale il piú possibile utile e attento alla realtá attuale della gente, che spero poter presentare alla diocesi per fine anno come proposta di lavoro futuro. Saranno mesi importanti, soprattutto per quanta riguarda il lavoro d’equipe e la consulenza di tutti. 

Nel complesso io sto bene, vivo con preoccupazione la sofferenza della gente e mi intristisce vedere come poche persone disgraziate siano le colpevoli della postrazione di questo popolo. Non ho paura, la preghiera é forte, costante, paziente, la comunitá con cui vivo é molto umana, semplice e serena. Lo stile di vita é sobrio, essenziale, attento alla realtá che tutti vivono. Sono contento di stare qui e di poterci stare per un bel po’ di tempo, se Dio vuole.

 

Un abbraccio di pace,
p. Daniele 
Tumaco, 10 febbraio 2012

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