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La terra bella

fr. Alberto Degan, Lettera di Natale 2009

Fr. Alberto Degan

Lettera di Natale 2009

 

Il verbo della ‘realtá’ e il Verbo del Regno

"I nostri giovani sono missionari che devono andare a divulgare il verbo della realtà". Cosí ha detto un famoso politico italiano ai giovani del suo partito. A quale realtá si riferiva? Alla realtá della politica italiana ridotta ad una squallida telenovela? Alla realtá della perdita di ogni senso della morale pubblica e privata? Alla realtá del sistema economico neoliberale che, nonostante la drammaticitá della crisi, non vuole rinunciare ai suoi dogmi di morte? Alla realtá di un’intolleranza e un razzismo che sta assumendo un volto sempre piú disumano e che produce leggi disumane?

Mi risulta difficile credere che possano esserci dei giovani che si entusiasmano a divulgare il verbo di questa realtá, e che vogliono dedicare la vita ad annunciare e propagare questa mentalitá dominante che si presenta come unico mondo reale e possibile. Quando ero giovane io, piú che di fronte alla realtá, i giovani si entusiasmavano di fronte alla prospettiva di poter trasformare la realtá, di fronte al sogno di poter costruire un mondo diverso.

E certamente la comunitá cristiana non puó accontentarsi del ‘verbo della realtá’, perché é un altro Verbo quello che dobbiamo annunciare: “In principio era il Verbo... In lui era la vita e la vita era la luce...” (Gv 1,1-4). Il “verbo della realtá”, dome dice Baumann, “imprigiona la nostra immaginazione e la ammanetta ai polsi”, facendoci credere che non c’é alternativa all’oscuritá che ci circonda. Mentre il Verbo della Vita ci spinge a cercare la luce e ad esplorare sentieri nuovi in cui sperimentare forme inedite di fraternitá e solidarietá che garantiscano vita piena per tutti. Gesú non é venuto ad annunciare la realtá, ma é venuto ad annunciare il Regno: “Il Regno di Dio é vicino”, annuncia al principio della sua attivitá missionaria (Mc 1,15). E ai suoi discepoli dice: “Prima di tutto cercate il Regno di Dio!” (Mt 6,33 y Lc 12,31). Questa parola di Cristo ci interpella direttamente: come comunitá cristiana siamo in ricerca, stiamo cercando il Regno? il Regno é la nostra prima e fondamentale preoccupazione? o ci accontentiamo e ci conformiamo con ció che ci offre la realtá del mondo?

E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14), cioé “il Verbo si é fatto realtá”. Potremmo anche dire che, con la nascita di Gesú, “il Regno si é fatto carne, il Regno si é fatto realtá”. Questo, dunque, é il messaggio rivoluzionario del Natale: il Verbo della giustizia, il Regno della fraternitá, della tenerezza e della pace per tutti i popoli non é una chimera che vaga per le nubi, non é un’illusione che esiste solo nella mente di qualche profeta allucinato, ma é una realtá, una proposta reale che parla al cuore e alla mente degli uomini e delle donne. Perció, di fronte a coloro che divulgano il verbo della realtá mondana, dobbiamo ribadire la nostra fede nella realtá del Verbo di Dio, che si é incarnato per “insegnarci... a vivere con giustizia e pietá” (Ti 2,12), cioé per offrirci una proposta di vita realista, applicabile all’ambito familiare, comunitario, economico e politico.

La “vita bella”

A Natale festeggiamo la venuta di Gesú che propone a tutti noi una “vita bella” (1Pt 2,12). Di fatto, il Regno di Dio annunciato da Cristo non é altro che ‘vita bella’ e ‘vita piena’ per tutti. Come sottolineava giustamente Nietzsche, prima della venuta di Cristo, nella cultura pagana occidentale la pietá era disprezzata, e la bontá non esisteva neanche come concetto mentale. Tantoché invano cercheremmo nella lingua latina - per lo meno nel latino classico - l’esatto corrispondente della nostra parola ‘bontá’. Per questo lo storico inglese Trevelyan, parlando dell’evangelizzazione degli anglosassoni, afferma: “Il cristianesimo parlava di caritá e bontá: cose molto rare, pressoché sconosciute agli uomini del Nord come a quelli dell’antica Roma”.

 Il Regno che annunciava Gesú, dunque, era l’irruzione della bontá e dell’amore in tutti gli ambiti della vita umana – personale, familiare, economico, politico, etc. - fino allora dominati dalla logica della violenza e dalla legge del piú forte. E cosí quando gli angeli, la notte di Natale, annunciano “Pace (shalom) sulla terra!” (Lc 2,14) stanno annunciando l’irruzione della bontá, della fraternitá e della vita in una storia fino allora dominata da una logica di oppressione e di morte. (In ebreo, infatti, ‘shalom’, indica pienezza e bellezza di vita per tutti). E quando Gesú esclama “Va in pace!”, sta augurando una vita bella a persone che fino a quel momento avevano sperimentato l’emarginazione sociale (Mc5,34, Lc7,50, etc.), come se stesse dicendo: “É finito il tempo dell’emarginazione e dell’esclusione. D’ora in poi sarai felice, perché anche tu hai diritto a vivere una vita pienamente umana, a vivere in pace con te stessa e con i tuoi fratelli.”.

Nell’Impero romano, non tutti avevano diritto alla ‘vita bella’. Al di fuori dell’Italia, nelle province imperiali, solo una minoranza privilegiata godeva della cittadinanza romana e dei diritti che questa cittadinanza implicava. La maggioranza della gente apparteneva alla categoría del ‘pároicos’, che propriamente significa ‘colui che sta fuori della casa’, ‘colui che non appartiene alla casa’, uno che é qui solo di passaggio, un intruso, che non puó godere dei miei stessi diritti. A queste persone che non godevano della cittadinanza romana, Paolo dice:“Voi non siete piú stranieri né intrusi, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio… destinati ad essere casa di Dio” (Ef 2,19).

Un concetto simile Paolo lo esprime anche nella lettera ai Filippesi: La nostra cittadinanza é nei cieli” (3,20). É interessante notare che in entrambe le lettere Paolo usa un termine con un forte connotato giuridico-politico: ‘polités’ e ‘politeuma’, termini che si riferivano al ‘cittadino ‘ e alla ‘cittadinanza’ romana, come dire: l’Impero non vi riconosce la cittadinanza, ma di fronte a Dio avete la stessa dignitá dei cittadini romani; l’Impero vi considera persone di serie B, persone senza diritti, mentre Dio vi considera con-cittadini, persone con gli stessi diritti degli altri. Coloro che l’Impero considera stranieri, Dio li considera suoi familiari; coloro che l’Impero disprezza come intrusi, la Parola ci dice che sono casa di Dio. Tutte le volte che disprezziamo e offendiamo uno di questi ‘intrusi’, stiamo disprezzando e offendendo la casa di Dio. Per Dio la cittadinanza - cioé il godimento dei diritti, e primo fra tutti il diritto a una vita bella e fraterna - é per tutti i suoi figli.

La finalitá di questa “cittadinanza nei cieli” (Flp 3,20) é quella di “ordinare a Cristo tutte le cose” (Flp 3,21). In altre parole, chi é concittadino del cielo non si adegua alla mentalitá della cittá imperiale, ma collabora con il progetto di Cristo che ordina a sé tutte le cose, cioé vuole dare una nuova configurazione – basata sui principi dell’amore, bontá, giustizia e fraternitá - a tutti gli ambiti della vita umana: famiglia, cultura, politica, economia, etc. Essere cittadini del cielo, dunque, non significa disinteressarsi delle cose del mondo e della politica, ma significa lottare per conformare la politica, e tutti gli altri ambiti della vita umana, ai criteri di Cristo.

La luce del cielo

Il vecchio Tobia, quando diventa cieco, si preoccupa e soffre soprattutto per una cosa, la piú importante: “Non vedo piú la luce del cielo” (Tb 5,10). Si preoccupa di non riuscire piú a vedere la luce che Dio irradia sull’umanitá, si angoscia al pensiero di non poter piú sapere qual é il progetto e il cammino che Dio ha tracciato per gli uomini e le donne. Oggigiorno molti riderebbero di questa preoccupazione e questa angoscia di Tobia: il cielo lo guardiamo e lo contempliamo molto poco, e abbiamo la presunzione di poter vivere senza la sua luce. Dobbiamo educarci ed educare i nostri figli a contemplare lo splendore del cielo.

Il ‘Sumak Kawsay’: la ‘vita bella’ come proposta politica

‘Sumak Kawsay’ é un’espressione dell’idioma quechua – l’idioma degli antichi Incas – tuttora parlato dalla maggioranza degli indios ecuadoriani, e propriamente significa ‘il buon vivere’: é il corrispondente nella cultura indigena di ció che il Vangelo chiama ‘vita bella’, é la ‘filosofia’ di vita che gli indios cercano di trasmettere ai loro figli. E la cosa straordinaria é che la nuova Costituzione dell’Equador – approvata l’anno scorso in un referendum popolare – definisce la spiritualitá del ‘buon vivere’ come il cardine principale di tutto l’edificio costituzionale. In altre parole, la nuova Carta costituzionale del nostro paese ha voluto ridare cittadinanza politica al sogno, e ha riportato nel discorso politico ufficiale l’ideale di una vita buona e bella per tutti.

Sostanzialmente, la filosofia del Sumak Kawsay si basa su una concezione comunitaria di felicitá: non si accontenta che solo pochi individui privilegiati godano di una vita piena, ma vuole garantire bellezza e felicitá a tutti. E quando parla di comunitá, il sumak kawsay non si riferisce solo agli uomini ma anche alla natura: anche la natura ha diritto a vivere una vita bella, ha diritto a vivere in pace. E in realtá, se non ci preoccupiamo della felicitá dei nostri fratelli e della nostra sorella Natura, nemmeno la vita dei pochi ricchi potrá essere una vita bella e felice: é nell’interesse di tutti – ricchi e poveri – arrivare a sentirci in pace con tutti i nostri fratelli e sorelle che condividono con noi la vita sul pianeta. In quest’ottica, gli indicatori dello sviluppo economico non possono essere solo quelli dell’aumento e accumulazione della ricchezza. Un autentico sviluppo esige che la ricchezza prodotta migliori la qualitá della vita per tutti, includendo in questa qualitá le relazioni di fraternitá con gli altri esseri umani, il rispetto per la Natura, la giustizia sociale e il benessere spirituale.

Ascoltare l’umanitá

Il fatto che il principio del Sumak Kawsay sia stato inserito ufficialmente nella Carta costituzionale significa riconoscere la profonditá e la validitá di proposte culturali e spirituali che vengono da settori della popolazione latinoamericana tradizionalmente emarginati ed esclusi dal dibattito politico. Di fatto, come dice il prof. Dávalos, economista dell’Universitá Cattolica dell’Equador, il dogma dellla crescita economica provoca l’indifferenza verso tutti quei saperi que non entrano nello schema della teoria dello sviluppo, e provoca anche la distruzione di questi saperi, soprattutto quando cominciano ad essere pericolosi”.

Il principale requisito della proposta politica del ‘buon vivere’, dunque, é mettersi in un atteggiamento di ascolto nei confronti di tutti quei popoli – soprattutto indios e afro - che finora non sono stati ascoltati perché considerati arretrati, e scoprire che proprio nella sapienza dimenticata di questi popoli possiamo trovare una luce in grado di aprirci nuovi orizzonti. In quest’ottica missione é... ascoltare l’umanitá, valorizzare la ricchezza che Dio ha seminato nel cuore di tante culture e tanti popoli disprezzati, e trovare lí fonti d’acqua inaspettate.

Il mito della crescita economica

La filosofia del ‘buon vivere’ si contrappone in maniera netta all’economia neoliberale. Naturalmente, anche il neoliberismo - come tutti i sistemi economici e politici - si presenta come progetto di felicitá, e concretamente ci promette una ‘vita bella’ basata sulla crescita economica. Sennonché questa ‘vita bella’ é garantita solo a una piccola minoranza: in realtá, sostiene il prof. Davalos, “la cosiddetta ‘crescita economica’ crea ed esaspera la povertá”. Di fatto, prima dell’applicazione del neoliberismo, in America Latina la stragrande maggioranza della popolazione non soffriva la fame, mentre oggi la FAO calcola che sono 53 milioni i sudamericani che vivono in miseria.

Perció l’aumento della fame non é un errore di percorso e non é frutto della casualitá, ma é “un requisito indispensabile perché possano operare le leggi del mercato capitalista”. Secondo Davalos la finalitá della ‘crescita economica’ é “l’amministrazione politica della penuria”, perché producendo e aumentando la povertá, il Fondo Monetario Internazionale aumenta il suo potere di condizionare - attraverso i cosiddetti ‘aggiustamenti strutturali’ - la politica dei paesi del Sud. Secondo il dogma neoliberale la crescita economica risolverá tutti i problemi connessi alla disoccupazione e alla mancanza di lavoro, ma in realtá, commenta Davalos, “pensare che la crescita economica possa risolvere il problema della povertá é ingenuo, perché la povertá é un fenomeno politico” e lo si puó risolvere solo a livello di decisioni politiche.

L’essere umano come ‘materiale di scarto’

Il dogma della crescita economica é un idolo cui il sistema neoliberale é disposto a sacrificare qualsiasi cosa, anche vite umane. E cosí le cittá sudamericane ospitano un numero sempre piú grande di persone considerate ‘inutili’: commercianti ambulanti, prostitute, barboni, mendicanti, immigrati, etc. In altre parole, la ‘bella vita’ del sistema neoliberale ha prodotto un gran numero di persone che sono considerate ‘rifiuti umani’, rifiuti che non si sa come smaltire. Interessante, a questo propósito, é il commento del card. Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires: “Dobbiamo lottare tutti insieme perché questa cittá si renda conto di com’é caduta in basso. Gridiamo con forza e senza paura: no ai ragazzi, agli uomini e alle donne come materiale di scarto! In questa cittá ci sono quelli che ‘entrano’ nel sistema e quelli che sono di troppo, per i quali non c’é né pane né dignitá. In questa cittá di Buenos Aires si ‘scartano’ le persone, e si buttano nel bidone dell’immondizia”. Finora questa realtá era evidente soprattutto nelle metropoli del Sud del Mondo, ma adesso si fa sempre piú presente anche nelle cittá europee e nordamericane. Perció la lotta cui ci invita il cardinal Bergoglio ha assunto ormai una dimensione planetaria: No all’essere umano come materiale di scarto!

Un piccolo paese, una grande proposta

Secondo il ‘buon vivere’ della tradizione quechua, nessun essere umano é eccedente o inutile, e ognuno deve interessarsi del bene della comunitá, imparando a farlo da piccolo. Una delle tante iniziative che si inseriscono nella política del Sumak Kawsay é la campagna di alfabetizzazione che il presidente Correa ha lanciato due anni fa e che vede come protagonisti gli studenti. Un requisito obbligatorio per terminare la scuola superiore é alfabetizzare un gruppo di almeno 20 persone analfabete che vivono nei quartieri o nelle zone piú povere del paese: ogni sabato, gli alunni e le alunne del quinto anno vanno in uno di questi quartieri per dare – gratuitamente - lezioni di alfabetizzazione.

Un’altra iniziativa che rientra nella politica del Sumak Kawsay é il progetto Yasuní-ITT, con cui il governo ecuadoriano vuole contribuire ad affrontare il problema del cambiamento climatico. Si tratta di una proposta rivolta alla comunitá internazionale: l’Equador si impegna a lasciare intatto il ricchissimo giacimento petrolífero del Parco Nazionale Yasuní per non mettere a rischio la sua ricca biodiversitá, di cui beneficia tutto il pianeta; e come contropartita, chiede una compensazione economica internazionale. Tanto per dare un’idea, in un solo ettaro di questo parco si trovano 655 specie di alberi e arbusti, piú del totale delle specie native di alberi di Stati Uniti e Canadá messi insieme.

Lo slogan scelto per lanciare questo progetto é “Un piccolo paese, una grande proposta”, a proposito della quale il presidente Correa ha detto: “L’Equador riconosce il proprio dovere di conservare la biodiversitá amazzonica. Ció beneficia tutta l’umanitá, perché eviterá l’emissione di milioni di tonnellate di anidride carbonica. Ed é normale che ci appelliamo alla corresponsabilitá di tutte le nazioni. I fondi ottenuti con questa iniziativa saranno destinati allo sviluppo di forme rinnovabili di energía idraulica, geotérmica, eólica e solare. Tutti siamo corresponsabili di un’economia sostenibile a livello mondiale, ma la responsabilitá di coloro che per tanti anni hanno distrutto l’ambiente é maggiore. Nei paesi andini stanno sparendo i ghiacciai; un eventuale aumento del livello del mare farebbe sparire la piú grande cittá del nostro paese, Guayaquil. Con questa proposta vogliamo dar vita a un nuovo modello di sviluppo basato sul rispetto dei diritti della Natura, sulla giustizia sociale e sullo sfruttamento sostenibile delle risorse”.

Praticamente, si vuole inaugurare una nuova logica económica per il ventunesimo secolo, dando vita ad un’economia in cui si preveda un compenso non solo per la produzione di mercanzie ma anche per la produzione di beni ambientali e spirituali. É commovente vedere che, mentre in alcuni paesi degli 8 ‘Grandi’ la política é ridotta ad un piccolo, squallido spettacolo di corruzione, ricatti e difesa di interessi economici privati, in un piccolo paese come l’Equador si pensa in grande: la política é vissuta come uno strumento per ridisegnare un futuro sostenibile per tutta l’umanitá.

Pochi giorni fa é passato per Guayaquil Riccardo Moro, responsabile nazionale della Campagna della CEI per la cancellazione del debito estero. Mi diceva che é rimasto impressionato dalla ricchezza e dal dinamismo di movimenti e proposte che salgono dalla societá civile equadoregna e, piú in generale, latinoamericana: “Noi in Italia, in questo momento, una ricchezza simile ce la sognamo!”, ha commentato.

Dios en la calle”. Ascoltare il canto degli ultimi

Leggendo la mia “lettera agli amici” di settembre, qualcuno é rimasto molto colpito dai vari episodi di violenza di cui parlo: non c’é dunque speranza?, mi hanno chiesto. Ed io rispondo: certamente sí. Senza dubbio la vita é una lotta, la missione é una lotta, ma in questa lotta non siamo soli: “La Sapienza di Dio grida... fa udire la sua voce... lungo la via, ai crocicchi delle strade” (Proverbi 8,1-2). Dio ci precede sempre nella lotta, ci precede sempre sulle strade dei quartieri in cui svolgiamo la nostra missione. E se affiniamo l’udito, possiamo udire la Sua voce, ad esempio, nel riso della signora Bellita, una vecchietta che vive in una baracca di legno con figlio, nuora e nipoti e che, nonostante l’avanzata etá, continua a visitare persone piú anziane e piú ammalate di lei, ed é desiderosa di approfondire la conoscenza della Parola.

Possiamo udire la Sua voce anche nella carta che i detenuti del settore ‘B alto’ del carcere di Guayaquil hanno scritto alle Autoritá un mese fa, denunciando i capi mafiosi che volevano impadronirsi delle loro celle. É un evento storico, perché é la prima volta che i detenuti hanno osato ribellarsi pubblicamente contro la mafia interna. Il direttore della prigione é stato obbligato a fare un’inchiesta, e cosí si é riusciti a superare l’immobilismo – dettato dalla paura - fin qui adottato. Possiamo infine udire la voce di Dio nel canto di tanti giovani neri che, attraverso la musica rap y reggae, esprimono la loro sete di giustizia, il loro desiderio di essere rispettati come esseri umani, il loro sogno di vivere in un quartiere pacifico, dove non si debba lottare ogni giorno per sopravvivere e non si debba piangere ogni settimana la fine di una vita innocente. E se da un lato esprimono la loro rabbia e il loro dolore di fronte alla povertá, alla discriminazione e alla violenza, dall’altro esprimono anche la loro fede nel Dio della vita che, con la Sua parola d’amore e di giustizia, li incoraggia e li spinge a lottare, a cantare e a danzare pur in mezzo a tante difficoltá.

Proprio per permettere a questi giovani afro di cantare la loro esperienza di Dio e di far sentire il loro canto a una societá che generalmente non lascia loro molti spazi, abbiamo appena finito di incidere un disco intitolato “Dios en la calle” (“Dio sulla strada”). Quattro gruppi musicali – ‘Lirica Oscura’, ‘Los Misteriosos’, ‘Black’n white’ e ‘Reviviendo los tambores’ – hanno seguito un corso di formazione su Bibbia e musica: analizzando vari passi, abbiamo visto come la poesia e il canto – nella Bibbia – sono un mezzo per entrare in comunione con Dio, per riempirci del suo Spirito e cosí poterlo trasmettere agli altri. Allo stesso tempo, studiando vari tipi di musica afro – jazz, reggae, son, marimba, rap, etc. – ci siamo resi conto che nella tradizione del popolo nero la musica é stata ed é lo strumento privilegiato per esprimere il proprio dolore, ma anche la propria forza e la propria speranza. Terminato il corso, ogni gruppo ha composto due-tre canzoni di denuncia sociale e di lode a Dio.

Naturalmente, non tutti sono d’accordo sul tipo di missione che stiamo svolgendo con i giovani qui a Guayaquil: ‘Non si puó solo farli cantare’, potrebbe commentare qualcuno. Ma in realtá, io non faccio neanche questo: non ‘faccio’ cantare i giovani, perché non c’é bisogno che li faccia cantare, perché loro cantano da soli, anche se io non glielo dico. In realtá, tutto quello che faccio é ascoltarli. Piú d’una volta uno di questi giovani m’ha detto: “Fratel Alberto, vuole ascoltare la canzone che ho composto ieri notte? ha un po’ di tempo?”. Perché sembra che quasi nessuno abbia tempo per loro. E cosí mi metto ad ascoltarli: ascolto i pensieri e i desideri di coloro che quasi nessuno é disposto ad ascoltare, ascolto il canto degli ultimi...

La settimana scorsa abbiamo lanciato il disco “Dios en la calle” in un concerto nel centro di Guayaquil, e adesso utilizzeremo questo disco e queste canzoni come strumento di evangelizzazione dei giovani afro di Guayaquil e di altre cittá, seguendo la metodologia comboniana del “Salvare l’Africa con l’Africa”, cioé, “evangelizzare i giovani neri con i giovani neri”. Do grazie a Dio per accompagnarci sulle strade – a volte torride e ‘secche’, altre volte bagnate e ‘fangose’ – di Guayaquil, perché quando cammino con Lui, sotto il sole o sotto la pioggia, sento che non sono solo, sento che non sto camminando invano, perché Qualcuno si sta preoccupando di mantenere viva nel mio cuore e nel cuore della nostra gente la speranza e la voglia di continuare a camminare e a cantare.

La porta del cielo

Nel libro della Genesi Giacobbe sogna che “una scala poggia sulla terra, mentre la sua cima raggiunge il cielo”, e “gli angeli di Dio scendono e salgono su questa scala” (Gn 28,12). Quando Giacobbe si sveglia dal sonno, capisce che il fazzoletto di terra su cui si era coricato era stato visitato da Dio: “Che portentoso questo luogo! Questa é proprio la casa di Dio, questa é la porta del cielo!” (Gn 28,17). In realtá, ogni luogo dove noi corichiamo il capo e ogni luogo su cui poggiamo i piedi puó essere casa di Dio.

Questa scala che Giacobbe vede nel sogno simboleggia il desiderio di Dio di vivere unito all’uomo. Questi scalini, che garantiscono la comunicazione tra cielo e terra, sono sempre in funzione, di notte e di giorno: ad ogni ora, gli angeli scendono per questa scala con i loro messaggi divini e vi risalgono con le nostre preghiere rivolte a Dio. I nostri occhi non sempre vedono questa scala, ma la scala non smette mai di funzionare. Non é la stessa cosa vivere con questa scala o vivere senza. Come cambierebbe la nostra vita, e la vita del pianeta, se ci rendessimo conto che il luogo in cui lavoriamo, la strada su cui camminiamo, e la cittá in cui viviamo é la porta del cielo!

Case, alberghi, prigioni e manicomi

Giacobbe si rende conto che il luogo in cui ha passato la notte é ‘casa di Dio’. Non é casuale questa espressione: la casa é il luogo in cui uno si sente amato e accolto per quello che é, e Dio sa che per vivere una vita autenticamente umana i suoi figli devono fare l’esperienza della casa. Purtroppo, peró, oggigiorno, come dice Baumann, “le uniche case” – e le uniche comunitá - “che molti uomini e donne postmoderne conoscono sono sempre piú simili ad alberghi: luoghi di soggiorno temporanei”, dove sostanzialmente mangiamo e dormiamo. Tra i diversi clienti di un albergo non c’é nessun legame affettivo, vitale: ognuno vive la sua vita, e a pranzo o a cena semplicemente mangiano in tavoli contigui, magari in orari diversi.

Mi ricordo che mia mamma, quando qualcuno di noi arrivava tardi per mangiare o non si faceva molto presente nella vita familiare, protestava: “Questa casa non é un albergo!”. E tutti sentivamo che diventare un albergo era il peggio che potesse capitarci. Certo, puó essere comodo, per certi aspetti, vivere in un albergo: uno fa quello che vuole, viene alla ora che vuole, senza rendere conto a nessuno. Inoltre, ti trovi tutto fatto: non devi neanche fare la fatica di preparare da mangiare o farti il letto. Peró l’albergo ha anche i suoi svantaggi, primo fra tutti il fatto che potrebbe essere pieno: nessuno ti garantisce che ci sia una stanza libera per te. E se non hai piú soldi sufficienti per pagare la tua stanza, ti buttano fuori, senza pietá, anche se hai dormito in quel letto per mesi o per anni: nessuno ti regala niente, solo il denaro ti dá il diritto di continuare a vivere nell’hotel.

Oggigiorno l’albergo é diventato un modello di vita, non solo in riferimento alle nostre case ma anche in riferimento alle nostre cittá. La cittá-albergo, o la cittá-dormitorio, sembra essere il modello della cittá futura: una cittá – e una societá - in cui varie famiglie e vari popoli vivono fisicamente vicini gli uni agli altri, ma senza conoscersi e senza amarsi, senza la coscienza di essere legati da un destino comune. Leggevo che quest’anno in Italia si sono persi 650.000 posti di lavoro, una situazione drammatica. Esaminando questi dati cercavo di mettermi nei panni di questi disoccupati, e pensavo: ‘Forse per la prima volta nella mia vita sento che non sono necessario al sistema, sento che il sistema non si preoccupa di me, perché puó andare avanti senza di me: sono in esubero. Forse per la prima volta sento sulla mia pelle la disumanitá di questo sistema. Prima per me era solo una questione astratta da meditare, o un’ingiustizia che colpiva i paesi del Terzo Mondo; mentre adesso colpisce direttamente la mia vita: per questo sistema io sono una persona di troppo’.

Secondo il progetto della ’vita bella’ evangelica, nessuno é di troppo, perché ognuno di noi ha un valore immenso, a tal punto che Gesú ci dice che nemmeno un capello del nostro capo andrá perduto (Lc 21,18). Nel sistema attualmente vigente, invece, ognuno é potenzialmente in esubero; in questo momento, a livello mondiale ci sono almeno tre miliardi di persone in esubero o comunque sostituibili. E di fatto, in un albergo nessuno é necessario: se il cliente non ha i soldi per pagare vitto e alloggio, lo si sostituisce con un altro cliente piú ricco. In una casa, invece, nessuno é in esubero, e tutti siamo necessari: chi se ne va lascia un vuoto incolmabile. Dobbiamo operare con creativitá perché le nostre cittá siano cittá-casa, cittá-famiglia, dove tutti ci sentiamo accolti e necessari. Solo cosí le nostre cittá saranno ‘sicure’.

La parola ‘cittá’ deriva dal latino ‘civitas’. Secondo alcuni latinisti, ‘civitas’ deriva dal verbo ‘cieo, ciere, civi, citum’, che propriamente significa ‘convocare, raggruppare, provocare un incontro’. Da questo termine deriva, fra le tante, la parola italiana ‘incitare’ e la parola spagnola ‘cita’, che significa ‘appuntamento’, e si applica soprattutto all’incontro tra due fidanzati. La cittá, dunque, storicamente nacque dall’ansia di voler superare l’isolamento delle ‘villae’, case di campagna molto distanti l’una dall’altra: la cittá nacque dal desiderio di raggrupparsi e incontrarsi. La cittá-dormitorio, dunque, é una non-cittá, é la negazione dell’idea stessa di cittá: é un raggruppamento di case e di gente in cui peró le persone non si incontrano mai.

É l’incontro che ci rende umani: quando manca la dimensione dell’incontro, la cittá si trasforma in un manicomio. Commenta a questo proposito il sociologo Phil Cohen: Le nuove dimore messe a disposizione dalle ideologie politiche e dalle nuove culture ‘etniche’ sembrano piú prigioni o manicomi che luoghi di potenziale liberazione”. E cosí tanti uomini e tante donne che sono alla ricerca di una casa e di una cittá, finiscono poi per ritrovarsi in alberghi, o prigioni o manicomi. Ad esempio, molti rifugiati politici stranieri, ansiosi di trovare una casa, finiranno invece nei Centri di Identificazione, molto simili a ‘prigioni’. E chi vorrá offrire loro una casa e un alloggio si ritroverá anche lui in carcere.

Ma ci sono vari tipi di prigione. Cohen parla di ideologie politiche come ‘prigioni’ e ‘manicomi’, ricordandoci che, quando chiudiamo il nostro cuore alla pietá, diventiamo prigionieri della cultura dell’odio, e in questo modo perdiamo la ragione e perdiamo la nostra umanitá: cose che solo dieci anni fa ci sarebbero apparse assurde e ci avrebbero causato ribrezzo - come impedire che un bambino possa ricevere cure mediche solo per il fatto d’essere straniero - adesso le accettiamo come normali, perché in un manicomio anche il gesto o la terapia piú crudele – elettro-shock e altre - puó sembrarci ‘normale’ e ‘necessaria’. Mi alzeró e ricorreró la cittá. Per le strade e le piazze cercheró l’Amato della mia anima(Ct 3,1). Circondati da alberghi, prigioni e manicomi, una delle prioritá missionarie é ricorrere la cittá per riscoprire o ricreare il calore dell’amore e dell’incontro nelle nostre case, nelle nostre strade e nelle nostre piazze.

Coltivare campi

Molte volte, per indicare la missione di Dio e la missione dei suoi discepoli nel mondo, Gesú usa la metafora del campo, della semina e della raccolta: “Il Regno di Dio é simile a un uomo che ha seminato un bel seme nel suo campo” (Mt13,24). Se non vogliamo ridurre le nostre cittá a manicomi o deserti, anche noi siamo chiamati a seminare un “bel seme” in tutti quegli spazi e quei campi che sono indispensabili per rendere piú umana la vita delle nostre comunitá. Pensiamo, ad esempio, a quanti anziani e quanti ammalati passano soli la maggior parte della loro giornata! Mentre nell’appartamento contiguo, magari, due o tre vicini passano tutto il giorno dialogando con il computer.

Pensiamo a quanti giovani poveri, qui a Guayaquil, passano metá della loro giornata dormendo – cosí mi hanno detto alcuni di loro! Perché non hanno lavoro, non hanno soldi per studiare, e non sanno cosa fare, e uscire per strada spesso é pericoloso: molti di loro vivono in palafitte sul fiume dove tutti buttano la spazzatura, e nel loro quartiere non c’é neanche un piccolo campo di calcio per giocare.  Come afferma Baumann, “i campi decisivi per la qualitá della vita e delle relazioni umane richiedono tempo ed energie, ma sono del tutto trascurati o poco curati”. Pochi, ad esempio, invertono energie e risorse in attivitá inerenti alla pulizia dell’ambiente, alla cura del paesaggio, alla creazione di legami di solidarietá nel quartiere, alla formazione spirituale e professionale dei giovani, alla valorizzazione dell’esperienza e saggezza degli anziani, al dialogo e all’incontro tra persone di culture diverse, etc. Probabilmente perché la coltivazione di questi campi non mi offre - nell’immediato - un ritorno economico, ma anzi, per un po’ di tempo mi fará investire e ‘perdere’ - in termini monetari - piú di quello che potrei guadagnare. Sappiamo infatti che la nostra economia ragiona a breve termine.

E non ci rendiamo conto che, a lungo termine, la coltivazione di questi campi é ‘redditizia’, perché é essenziale per la felicitá e la prosperitá spirituale e materiale delle nostre comunitá, ed é una conditio sine qua non per la salvezza del mondo. Alcuni di questi campi giá esistono, anche se da tempo rimangono incolti, mentre altri possiamo e dobbiamo crearli adesso; e altri ancora saranno scoperti o inventati solo fra qualche anno. In ogni caso, c’é bisogno di un grande sforzo di creativitá, perché senza il nostro impegno e senza la nostra creativitá “tutti questi campi che oggi sono in stato di abbandono si trasformeranno presto in deserti” (Baumann).

La ‘terra bella’

Per combattere la desertificazione di questi campi vitali Dio ci esorta a vivere una vita bella:“La vostra vita in mezzo ai pagani sia bella, affinché... osservando le vostre azioni belle, glorifichino Dio nel giorno della sua visita” (1Pt 2,12). Contro le ideologie pagane che vorrebbero ridurre le nostre cittá a prigioni e manicomi il segno caratteristico dei cristiani é la bellezza: la desertificazione delle nostre cittá si combatte a colpi di ‘opere belle’ di “caritá” (1Pt 4,7) e “ospitalitá” (1Pt 4,9). Il cristiano che ascolta e mette in pratica questa parola produce “frutti belli” (Mt 12,33 e Mt 19,7) in una “terra bella”: “Il seme caduto sulla terra bella é colui che ascolta la parola (Mt 13,23). Siamo dunque chiamati a coltivare campi per trasformare le nostre comunitá e le nostre cittá in una terra bella e ospitale per tutti i suoi abitanti, una terra in cui nessuno sia considerato intruso o materiale di scarto, ma a tutti sia permesso di vivere una vita bella e fraterna. Buon Natale!!

 

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