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Don Primo Mazzolari

Il cristiano: uomo di pace

Don Primo Mazzolari 
"Il cristiano è un  'uomo di pace'
non un  'uomo in pace':
fare la pace è la sua vocazione"


Ritornano più che mai attuali queste parole di don Primo Mazzolari nel 50 anniversario della sua morte



  • la biografia:   Don Primo Mazzolari (Cremona 1890-1959), parroco di Bozzolo, viene profondamente trasformato dall'esperienza di cappellano militare durante la prima guerra mondiale e vivrà il suo ministero come una voce obbediente, ma obiettante e scomoda all'interno della Chiesa.
 
  • il suo pensiero
    1. l'ostinazione della pace (l'obiezione di coscienza - prepara la pace!)
    2. i poveri (La Parola ai poveri - Parole ai ricchi)
    3. la Chiesa (la Chiesa - i compiti del laicato - la parrocchia)
    4. la rivoluzione cristiana (il coraggio di guardare avanti - rivoluzione cristiana - tu non uccidere - commento di Mons. Capovilla)
    5. i lontani (i lontani - nostro fratello Giuda - Cristianesimo e comunismo - siamo tutti prodighi
    6. alcune frasi significative (Noi ci impegniamo - le tentazioni del cristiano - alcuni pensieri)

Biografia

Primo Mazzolari nasce a Boschetto (località alla periferia di Cremona) il 13 gennaio 1890 da una famiglia di semplici fittabili. A 12 anni entra nel seminario di Cremona. La sua vocazione germoglia nella consapevolezza che ogni essere umano è figlio di Dio e per cui è meritevole dello stesso rispetto e dignità da parte di tutti. I suoi anni di seminario furono intensi e molto faticosi a causa della sua personalità passionale, focosa e assetata di conoscenza. È in nome della vocazione resta in seminario pur rendendosi conto della brutta vita di comunità che vi si vive.
Nel 1905 Primo Mazzolari liceale cominciò a scrivere il diario sul quale si rivelano momenti emotivi e di forte spiritualità che preparano il giovane Mazzolari all’impegno filiale nei confronti del popolo ed una ispirazione rivolta alla sincerità, alla franchezza, allo spirito di sacrificio fedele al credo cristiano; tutto questo per dare sostegno ai sentimenti, alla dignità, ma soprattutto per formare il carattere degli uomini e di ogni persona.                              
In questo il vescovo Bonomelli fu maestro di don Primo Mazzolari per i suoi atteggiamenti di apertura nei confronti della società.
Il  25 agosto 1912 Don Primo Mazzolari fu ordinato sacerdote. Il ministero del giovane curato fu molto intensa e ancora più intensa la sua attività di scrittore. Il primo scritto fu il mo parroco del 1932. Il suo ministero sacerdotale vive una progressiva incarnazione nella società del suo tempo. La parrocchia dove visse per gran parte del suo ministero fu la parrocchia di Bozzolo (1920-1922/ 1932-1959).
Durante la prima guerra mondiale si dichiara interventista e ciò lo spinge a dare il suo contributo alla guerra arruolandosi come cappellano militare. Questa esperienza gli fece maturare un forte senso della pace e di rifiuto della guerra. Durante la seconda guerra mondiale ebbe a manifestare il suo impegno per la pace ipotizzando una sorta di obiezione militare. Nel periodo fascista fu più volte arrestato e/o ricercato dal regime per le sue idee e attività anti-fasciste (nel 1925 fu denunciato per non aver cantato il «Te Deum» per i fascisti dopo l’attentato a Mussolini). Nel 1944 fu notevolmente impegnato nella collaborazione con i partigiani nella resistenza contro il nazi-fascismo. Nel dopo guerra (1949) fonda il quindicinale «Adesso» nel quale canalizza tutto il suo impegno cristiano. Nelle sue opere si notano riferimenti, partecipazioni al piccolo mondo della pieve rurale, cioè all'atteggiamento cristiano tenuto dal popolo contadino. Mazzolari non mancò di prendere le difese dei diritti di questa classe sociale; un esempio è la lettera che scrisse sul suo giornale «Adesso» ai vescovi della Val Padana, specificandone le condizioni di vita dei braccianti e salariati. Mazzolari agisce spesso in contrasto con la gerarchia ecclesiastica preoccupandosi, nel corso del suo sacerdozio,di tutte le persone lontane da Dio. Uno dei suoi scritti è dedicato a “I lontani”, la sua idea sui lontani è che  «”Lontano” non è soltanto colui che, andandosene, ha sbattachiato l’uscio di casa, e non s’è neppure voltato indietro, rotto i ponti recisamente, audacemente. Di costoro ce n’erano di più qualche anno fa, anche nei paesi. L’aria favoriva le rotture brusche, drammatiche. Il “transfuga” s’accampava di fronte la chiesa e le muoveva guerra. La “città dell’uomo” contro la “città di Dio”. La “lontananza” era a quei tempi una regione ben definita, “un paese”. Adesso, quasi non esiste più nello spazio; è l’assenza di Qualcuno, uno stato d’animo. Uno stato d’animo non è definibile né numerabile. Da una varietà senza numero di impressioni e sentimenti, vien fuori, non sempre logicamente avvertita ma sempre spiritualmente sofferta, questa conclusione: - Non mi sento più a posto nella chiesa: non sono più sicuro della mia fede. Mazzolari cerca di limitare il divario politico tra cristianesimo e comunismo, perché valuta le idee, gli atteggiamenti comunisti sugli ideali di pace suscitando perciò le critiche anche aspre di molti ambienti cattolici.
Il tema dell'obbedienza in Mazzolari deve essere considerato entro una linea di innovazione, lo sviluppo cioè della sottomissione preliminare e assoluta alla coscienza rispettosa, ma obiettante. Mazzolari riusciva quindi a rispettare le regole, ma nello stesso tempo a obbiettare e fu per questo, che venne definito un "disturbatore della quiete ecclesiastica" e “prete scomodo”. La sua presenza è richiesta in varie città d’Italia e ciò lo porta a fare numerosi viaggi. Il pensiero di Mazzolari fu oggetto di critiche da parte della gerarchia ecclesiastica alle quali seguirono anche provvedimenti ed ammonizioni. Nel 1951 il SS. Ufficio gli proibisce di scrivere sul suo giornale «Adesso» e  gli impedisce di predicare fuori della sua diocesi senza il permesso del vescovo; nel 1954 il S. Ufficio gli proibisce di predicare fuori della sua parrocchia. La sua attività e la sua fede vissuta in radicalità non restano confinate nella sua parrocchia (il pensiero come l’oceano non lo puoi recintare [ndr] ). Nel 1957 l’arcivescovo di Milano Montini, l’invita a predicare nella sua diocesi. Nella dottrina cristiana don Primo Mazzolari cercò sempre più di esaltare e rafforzare la comunicazione immediata con Dio e con ciascuno di noi; il discorso evangelico nel dialogo quotidiano secondo Mazzolari, deve essere un dono e un'arte capace di scuotere le coscienze dei peccatori. Nel febbraio 1959 è ricevuto in udienza da Papa Giovanni XXIII. Pochi mesi dopo, il 12 aprile, muore dopo sette giorni di agonia nella Clinica di S. Camino a Cremona.

HANNO DETTO DI LUI:

  • "Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana" papa Giovanni XXIII (1959)
  • "Non era sempre possibile condividere le sue posizioni: don Primo camminava avanti con un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro; e così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti" papa Paolo VI (1970)
  • "Don Primo fu un uomo leale, un cristiano vero, un prete che camminava con Dio, sincero e ardente. Un pastore che conosce il soffrire e vede lontano. Il suo giornale era la bandiera dei poveri, una bandiera pulita, tutta cuore, mente e passione evangelica" papa Giovanni Paolo I (1978){mospagebreak}

L'obiezione di coscienza

[…] se la buona fede basta a giustificare la coscienza personale di chi dà il comando, non basta a far tranquilli sulla bontà di esso coloro che ne vengono impegnati per obbedienza. La coscienza non può abdicare interamente nelle mani di nessuna creatura, fosse il più grande degli uomini o il più santo. Il cristiano, pur obbedendo alle gerarchie ecclesiastiche che tengono quaggiù il luogo del Signore, non fa rinuncia alla propria anima. Non ci si salva per delega. Ognuno risponde della propria anima, come risponde del proprio prossimo. Il comandamento di qualsiasi uomo può avere qualche cosa di falso o di ingiusto, poiché il Signore, all'infuori dell'infallibilità del pontefice contenuta in termini rigidissimi, non ha garantito nessuno contro le sorprese del maligno. Quindi anche l'ultimo cittadino ha il dovere di obbedire con gli occhi aperti e coscienza vigile.

Vi sono comandamenti che non ammettono incertezze, tanto sono precisi e sufficientemente posseduti dalla coscienza cristiana. Per timore di eccessi o di esaltazioni criminose, non si deve negare ogni valore e ogni autonomia nel giudizio e nell'azione alla coscienza. Non occorre che intervenga ogni momento la Chiesa a ricordare e a precisare ciò che ormai costituisce il pacifico possesso di innumerevoli coscienze cristiane; molto più ch'essa non potrebbe in certe subitanee emergenze pubbliche o private essere tempestivamente presente. L'iniquità di certi ordini o di certe situazioni impostemi non può venir giudicata sul campo che dalla mia coscienza; poiché solo la mia coscienza ne è chiamata a rispondere davanti a Dio e davanti agli uomini.

Per capire che un cristiano non può odiare nessuno, nemmeno il nemico del proprio paese, non c'è bisogno che egli lo chieda al suo parroco o al suo vescovo, tanto meno al papa; e l'obbligo di resistere a tale ingiunzione, qualora ci venga imposta dalla stessa autorità costituita, sgorga evidente appena ne avverte l'immoralità […].

La guerra mette in palio la mia vita e la vita del mio prossimo. I morti non si contano più; i lutti, le rovine sono incalcolabili; le conseguenze morali e spirituali spaventose. Chi ha il coraggio di negare che il più direttamente impegnato nella guerra, colui che va a morire e va a far morire, non abbia diritto di sapere almeno se muore per una causa giusta? "Si tratta - sono milioni e milioni che parlano - della mia vita, la cosa più grande che io ho e di cui Dio solo è il padrone vero; e si pretende che io la metta o la tolga, all'oscuro, con un atto di fede che non so dove appoggiarlo!".

Morire è una cosa tremenda, ma ancora sopportabile; è il far morire che, per un cristiano, il quale come il Cristo ha per missione di dar vita, è il colmo dell'atrocità!…

"Ditemi almeno perché debbo uccidere!".

Il "salus reipublicae suprema lex" non ci basta più. La nostra anima cristiana non può essere riportata sul piano assolutista e pagano di ieri, anche se i regimi vi hanno fatto ritorno a bandiere spiegate. La volontà popolare, espressa come era espressa nelle varie forme delle libertà popolari, poteva anche essere un'illusione, tanto facile l'addomesticamento dell'opinione pubblica. Ma almeno veniva riconosciuto, se non ben tutelato, il diritto della persona di prendere la parola in una decisione di vita o di morte. Adesso che in vari paesi è tornato di moda l'assolutismo che giudica della guerra e della pace, e quindi della vita di milioni di creature umane senza nulla chiedere e senza alcuna esitazione, chi può e deve tutelare i diritti inalienabili della coscienza e della vita, della giustizia e della carità, imponendo ai tiranni riflessione e umanità?

Divenuti inutili e spregiati fino al ridicolo i controlli di un potere sopranazionale o societario, se si toglie anche alla coscienza la sua naturale autonomia e il suo diritto di difesa contro le invasioni dello Stato, che cosa rimane dell'uomo e delle sue prerogative divine?

Tra i due eccessi, l'uomo misura di ogni cosa e l'uomo schiacciato da ogni cosa, c'è la linea cristiana che concilia i diritti dell'uomo con i diritti della comunità, la quale non può essere che in funzione del perfezionamento stesso dell'uomo. Un tempo, l'arbitrio del principe obbligava i sudditi a gravi sacrifici, ma le milizie almeno erano mercenarie, quindi volontarie in un certo senso. Oggi, con la coscrizione obbligatoria e la nazione armata, tutti siamo costretti ad accettare il sacro dovere di uccidere e farsi uccidere.

Nella luce di questa disumana realtà va riesaminata dai cattolici, con maggior benevolenza che per il passato, l'obiezione di coscienza, considerata come un tentativo di difesa primordiale della ripugnanza cristiana al mestiere dell'uccidere. In così drammatica situazione, la Chiesa può limitarsi a elogiare il dovere e la fedeltà a esso? Non sarebbe una maniera, sia pure indiretta e bene intenzionata, di togliere il respiro delle coscienze e aiutare l'oppressione?

Risposta ad un aviatore [1941], ora in La chiesa, il fascismo, la guerra, Vallecchi, Firenze 1966.
Tratto da www.fondazionemazzolari.it

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Prepara la pace!

A parte che la guerra è sempre criminale in sé e per sé (poiché affida alla forza la soluzione di un problema di diritto); a parte che essa è sempre mostruosamente sproporzionata (per il sacrificio che richiede, contro i risultati che ottiene, se pur li ottiene); a parte che essa è sempre una trappola per la povera gente (che paga col sangue e ne ricava i danni e le beffe); a parte che essa è sempre antiumana e anticristiana (perché si rivela una trappola bestiale e ferisce direttamente lo spirito del Cristianesimo); a parte che essa è sempre inutile strage (perché una soluzione di forza non è giusta; e sempre comunque apre la porta agli abusi e crea nuovi scontri): qual è la guerra giusta e quella ingiusta? Può bastare l'affidarsi alla cronaca pura, alle semplici date, per stabilire chi attacca per primo, chi offende e chi si difende? […]

Grandi e belle realtà la patria, il popolo, la libertà, la giustizia... Ma esse van servite con la pace: ché la guerra ammazza la patria, la quale, se non è un nome vano, è fatta di cittadini, di case; immiserisce il popolo; fa servi di dittatori o stranieri; e con la miseria eccita furto rapacità e sfruttamento, per cui l'ingiustizia aumenta. Chi ama veramente la patria le assicura la pace, cioè la vita: come chi ama suo figlio gli assicura salute. La pace è la salute di un popolo […].

Noi crediamo però che se qualcuno, comandato a battersi, avesse coscienza chiara e sicura di trasgredire il comandamento di Dio, egli non incorrerebbe nella riprovazione della Chiesa, poiché il rifiuto del cristiano alla guerra, più che una rivolta all'ordine temporale, sarebbe una fedeltà all'ordine eterno. Quando l'ordine temporale non obbedisce all'ordine eterno "è meglio obbedire a Dio che agli uomini". Perché c'è anche il mito del dovere che può schiacciare l'uomo, ed è ben doloroso che proprio noi cristiani, difensori nati della persona umana, ce ne facciamo i divulgatori. Il bene è lo spazio vitale del dovere. Dove comincia l'errore o l'iniquità, cessa la santità del dovere, la sua obbligatorietà, e incomincia un altro dovere: il dovere di disobbedire all'uomo per rimanere fedeli a Dio […].

Non è giunto ormai il momento, per la teologia, di individuare, di smascherare, di colpire tutte quelle forme mentali, quelle tacite acquiescenze, quelle attività criminose che preparano da lontano ma sicuramente le guerre? Non è giunta l'ora di denunciare energicamente tutte quelle storture blasfeme che tentano di trascinare Dio nei labirinti dell'agguato umano? E perché tanta economia di insegnamenti sopra il delitto di Caino moltiplicato all'infinito, quando tutto lo spirito e la lettera del Cristianesimo è pace, carità, primato dello spirito sulla materia, e soprattutto quando il Vangelo ha lanciato per primo il più realistico, attuale, evidente, dei moniti: "Chi di spada ferisce, di spada perisce"? […]

E allora i casi sono due. Se si condanna la guerra senza eccezioni, si può logicamente rinunciare al riarmo, ma se ne si ammette, sia pure in pochi casi, la doverosità morale di fronte a una guerra dichiarata e creduta giusta, non ha senso predicare e praticare il disarmo. Non si fanno le guerre per perderle. Per noi preparare la guerra, riarmarsi vuoi dire allestire condizioni per la guerra. Le armi si fabbricano per spararle (a un certo momento, diceva Napoleone, i fucili sparano da sé); l'arte della guerra si insegna per uccidere. Se vuoi la pace, prepara la pace; se vuoi la guerra, prepara la guerra. E, dunque, tutto fatalmente logico […].

Se siamo un mondo senza pace, la colpa non è di questi e di quelli, ma di tutti. Se dopo venti secoli di Vangelo siamo un mondo senza pace, i cristiani devono avere la loro parte di colpa. Tutti abbiamo peccato e veniamo ogni giorno peccando contro la pace. Se qualcuno osa tirarsi fuori dalla comune colpevolezza e farla cadere soltanto sugli avversari, egli pecca maggiormente, poiché, invelenendo gli animi, fa blocco e barriera col suo fariseismo. Se la colpa di un mondo senza pace è di tutti, e dei cristiani in modo particolare, l'opera della pace non può essere che un'opera comune, nella quale i cristiani devono avere un compito precipuo, come precipua è la loro responsabilità.
Ogni sforzo verso la pace ha una sua validità: chiunque vi si provi dev'essere guardato con fiducia e benevolenza. Il politico può far delle cernite, porre delle pregiudiziali: il cristiano mai. Il cristiano non può rifiutare che il male, per comporre cattolicamente ogni cosa buona […].

La pace è un bene universale, indivisibile: dono e guadagno degli uomini di buona volontà. La pace non s'impone ("non ve la do come la dà il mondo"); la pace si offre ("lascio a voi la pace"). Essa è il primo frutto di quel comandamento sempre nuovo, che la germina e la custodisce: "Vi do un nuovo comandamento: amatevi l'un l'altro".
Nella verità del nuovo comandamento, commisurato sull'esempio di Cristo ("come io ho amato voi"), "tu non uccidere" non sopporta restrizioni o accomodamenti giuridici di nessun genere. Cadono quindi le distinzioni tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, reazionarie e rivoluzionarie. Ogni guerra è fratricidio, oltraggio a Dio e all'uomo. O si condannano tutte le guerre, anche quelle difensive e rivoluzionarie, o si accettano tutte. Basta un'eccezione, per lasciar passare tutti i crimini.

Per noi queste verità sono fondamento e presidio della pace; la quale non viene custodita né dalle baionette né dall'atomica, ma dal fatto che tutti gli uomini, compaginati in Cristo, formano con lui una sola cosa e hanno diritto di ricevere "una vita sempre più abbondante" da coloro che, per natura e per grazia, sono i suoi fratelli. Per questo noi testimonieremo, finché avremo voce, per la pace cristiana. E quando non avremo più voce, testimonierà il nostro silenzio o la nostra morte, poiché noi cristiani crediamo in una rivoluzione che preferisce il morire al far morire.

Persuasi che solo su questi principi si può fondare la pacifica convivenza dei popoli, noi accettiamo la stoltezza cristiana a costo di parere fuori della storia, che altrimenti continuerà a essere una catena di violenze o, se volete, un susseguirsi di fratricidi, cioè l'antistoria, e proponiamo: di renderne pubblica testimonianza, rifiutandoci a ogni svuotamento di essi, sia teorico che pratico; di accettare solo quei mezzi di fare la pace che non negano la pace, sia nei rapporti di nazione e di razza, che nei rapporti di classe e di religione, riprovando e condannando egualmente qualsiasi strumento di ingiustizia e di sopraffazione anche se si presenta sotto il nome di dovere; di creare un movimento di resistenza cristiana alla guerra, rifiutando l'obbedienza a quegli ordini, leggi o costituzioni che contrastano con la coscienza di chi deve preferire il comandamento di Dio a quello dell'uomo.

Se la guerra è un peccato, nessuno ha il diritto di dichiararla, neanche un'assemblea popolare. Se la guerra è un peccato, nessuno ha il diritto di comandare ad altri uomini di uccidere i fratelli. Rifiutarsi a simile comando non è sollevare l'obiezione, ma rivendicare ciò che è di Dio, riconducendo nei propri limiti ciò che è di Cesare.
Mettendoci sul piano del Vangelo e della Chiesa, non rinunciamo a difendere la giustizia, né confondiamo il bene col male prendendo una attitudine rassegnata o neutrale. La "pecora" che non intende farsi "lupo" non dà ragione al lupo; lasciarsi mangiare è l'unica maniera di resistere al lupo come pecora e di vincerlo. Questo è un atto di fede tremendo. Ne abbiamo così piena consapevolezza che la prima testimonianza che domandiamo a Dio di poter dare è proprio questa: credere che la pace non si può fare senza questa fede, che è venuta l'ora di questa fede.

Tu non uccidere [1955], Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 2002{mospagebreak}

La Parola ai Poveri

 

 Questo è veramente un libro che scotta.
Ai poveri, oggi, nessuno dà la parola: più facile dare loro un obolo, una bandiera, una  tessera, una bomba a mano, un mitra…
Il povero è qualcuno che non si vorrebbe: come Dio, il dolore, la morte. Ci sono presenze che ci fanno star male, ci sono parole che ci fanno star male. Ma il silenzio dei poveri è quasi un Vangelo: è la presenza di Cristo, il Povero; è la condanna dell’ingiustizia stabilita che si chiama ordine e dell’ingiustizia che si vuol stabilire che si chiama rivolta.
E’ con l’animo in pace che diamo la parola ai poveri.
Auguriamo a tutti altrettanta pace.
Ma non crediamo che si possa tirare avanti in questo modo. Una società che diventa quasi “una fabbrica di poveri”, come diceva Ozanam, è una società disumana, anche se si dice cristiana. Chiama il cataclisma. E sarà vano piagnucolare e disperarsi per l’arrivo di Attila…
Non è questa la povertà della prima beatitudine, non è questa la povertà che dobbiamo amare: è miseria, miseria nera.
Vorremmo che leggendo queste pagine, vecchie e nuove, i poveri ringraziassero il Signore di averli guardati dallo spirito della ricchezza e pregassero novità di cuore  e di respiro a tutti i miserabili epuloni prima che sian ridotti ad invocare la misericordia di Lazzaro.

Stampato ad uso interno a cura de GIM – via S.Giovanni di Verdara, 139

su autorizzazione della Fondazione Don Primo Mazzolari

 

Don Primo ci diede queste brevi pagine sui poveri un mese prima di morire.
Sono pagine semplici e vive, rapide e audaci: non retoriche, non idilliache, non patetiche, non pacifiche.
Certamente non piaceranno a molti cattolici d’oggi.
Per questo, in appendice, pubblichiamo una piccola antologia patristica sull’argomento.
I Padri della Chiesa hanno sempre parlato dei poveri, e ne han parlato con tanto realismo che se qualcuno amasse i confronti troverebbe il loro parlare più rivoluzionario e imprudente d’ogni altro.
Inutile farci sopra ragnatele di più o meno facile esegesi.
Inutile difendersi con grandi affermazioni di paradossalità.
La cristianità d’allora, ch’era nel suo nascere e non era fatta tutta di santi e di perfetti e viveva in un mondo attentissimo ai difetti dei cristiani, non si scandalizzava quando i Padri parlavano chiaro, né si preoccupava di velarne o dolcificarne le espressioni prima di lasciarle correre per il mondo. (Si legga, a questo proposito, la pagina apertissima di S. Basilio, qui riportata, sul vizio tristissimo del clero di lisciare – anche allora – i ricchi e i potenti, per amore dei comodi e del quieto vivere).
Naturalmente noi abbiamo raccolto solo alcune di queste “parole”: le più precise e ardite, le più inquietanti e ferme, le più dolci e focose.
A volerle raccogliere tutte, sarebbero occorse non poche pagine, ma molti volumi: e a noi non è concesso il lusso di molti volumi…
In tal modo però è venuto fuori un libretto particolarmente vivo e provocante.
Forse mai come questa volta possiamo dire che quando un libro esce nulla è finito ma qualcosa incomincia.
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Parlare dei poveri è un discorso così poco interessante che cade subito.
Se ne parli per chiedere, chi ascolta s’affretta a cavar fuori il suo obolo per levarsi il fastidio del fervorino, rende di più un té danzante…

Parlare ai poveri era assai comodo qualche anno fa, in pubblico s’intende.
Ascoltavano in silenzio i nostri pareri e noi credevamo che ne fossero convinti. Infatti nessuno fiatava. Tutti applaudivano.
Oggi, invece, siccome c’è poco gusto, nessuno lo fà, se non per farsi dare l’investitura di parlare in nome dei poveri.

Parlare in nome dei poveri è un discorso utile per alcuni, ambito da molti.
Perché è una cosa che rende. Perché tutto rende a questo mondo, anche la povertà.
Si può speculare su tutto, oggi. E la speculazione sui poveri è indubbiamente una delle più raffinate e sottili.
Il povero è un re che nessuno invidia, di cui però fa piacere, adesso, avere le credenziali.
Non è così in altri tempi. Allora, l’ambasciatore del povero, anche se era un santo, rischiava di essere almeno importuno. Avvocato dei poveri! Padre dei poveri! Erano una volta titoli rarissimi, e di una nobiltà che più propriamente portava il nome di santità.
Oggi, non è così. Oggi, chi parla in nome dei poveri fa un guadagno sicuro e immediato.
Per questo, sui giornali, nei comizi, ovunque, tutti parlano in nome dei poveri.

Dare la parola ai poveri  è un’altra cosa.
Più facile dare loro ragione. Più facile dare loro una bandiera, una tessera, una bomba a mano, un mitra…
Il povero è qualcuno che non si vorrebbe. Come Dio, il dolore, la morte.
Ci sono presenze che ci fanno star male, ci sono parole che ci fanno star male.
Non chiedetemi subito perché sia tanto difficile dare la parola ai poveri.
La risposta verrà fuori da sola, alla fine.

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E anzitutto, voler bene ai poveri non vuol dire non volerne ai ricchi.
I ricchi fanno tanta pietà. I ricchi, forse, sono i poveri più poveri, perché sono i più poveri di Dio.
Se il povero è tanto disperato, oggi, perché gli manca il pane, o la casa, o il lavoro, il ricco è sempre disperato perché gli manca tutto per essere felice con quello che crede di avere.
Non vedete com’è costretto ad attaccarsi ad ogni piccola cosa per credere di avere qualcosa! E non vede mai più in là! Mentre gli basterebbe accorgersi che accanto gli vive qualcuno: e allora il resto, che gli rimarrebbe dopo averne fatto parte a chi non ha, prenderebbe sapore di felicità.

A me personalmente non fa dispiacere che uno abbia il termosifone in gennaio e la montagna in agosto: mi fa dispiacere che ci siano tanti senza l’una e l’altro e senza qualcosa di ancor più necessario.
Non ho nessuna voglia di togliere a quelli per dare a questi: ho solo il dovere di dire a chi ha la montagna d’estate e il termosifone d’inverno, l’automobile tutti i giorni e la mantenuta di gran classe, che al mondo ci sono anche coloro che non hanno niente perché qualcuno ha di più.

Non avrei mai pensato che in terra cristiana, con un Vangelo che incomincia con “Beati i poveri”, senza il resto che gli tien dietro in loro favore, e che Cristo, il Povero, garantisce con il suo esempio, non avrei mai pensato – dico – che il parlar bene dei poveri infastidisse tanta gente, che pure è gente di cuore e di elemosina.
Questo parlare mi sembra secondo il Vangelo, che è appunto “la buona novella annunziata ai poveri”.
Questo parlare mi sembra giovi ai ricchi e ai poveri, forse più ai ricchi che ai poveri: certamente non giova a me...

Tempo fa, una piissima persona m’ha detto: - Reverendo, preghiamo per i ricchi: anche i ricchi hanno un’anima da salvare.
D’accordo. Credo anch’io all’anima dei ricchi, anzi ci credo fin troppo.
Ma pregare per l’anima dei ricchi non basta. Non abbiamo il diritto di chiedere a Dio un miracolo perché la salvi, se prima non abbiamo tentato noi il miracolo dell’esempio integrale e dell’umile, ma forte richiamo.
Perché dovremmo ammonire l’adultero, riprendere il disubbidiente, rimproverare l’iracondo, e dovremmo invece tacere e lasciar correre davanti al ricco, non generoso abbastanza o addirittura violatore pubblico della giustizia?
Il settimo comandamento ci dispensa, forse, da quella carità alla quale ci obbligano gli altri?
E’ sospettosamente comodo credere di cavarsela col dire che tutto ciò non ci riguarda, e tacere.
C’è un mucchio sempre più nero di gente che crede di cavarsela tacendo. Questa gente può anche illudersi che per i ricchi sia sufficiente pregare e accettare con quattro inchini le briciole della loro elemosina vanesia così lontana dalla carità e soprattutto dalla giustizia.
Bisogna che ignori quali spessori d’insensibilità e d’idiozia, quali vene di superbia e di miscredenza la ricchezza ha sovrapposto all’anima del mio fratello ricco per illudermi di poterlo salvare tacendo. In tal caso non c’è pietà più assassina di questa.
Bisogna che ignori che Cristo è morto anche per lui, per non gridare al ricco che è solo oggetto d’un deposito atrocemente rischioso, non un padrone.
Se penso alla distesa fervida e divina delle pagine evangeliche – che però non registrano una parola di simpatia per il ricco (eccetto Zaccheo) né per la ricchezza – mi si ghiaccia il cuore davanti ai “guai!” e alla faccenda del cammello e della cruna d’ago. Come? Cristo non sapeva che hanno l’anima anche i ricchi per dover parlare di loro come non ha mai parlato di nessuno?

Troppa gente ha paura di dire ai ricchi, per amore, le uniche parole giuste, le parole forti.
E’ assai più facile, si capisce, esulare il giorno che si presentano a far l’elemosina alla chiesa, che rimandarli coraggiosamente a casa loro se prima non si sono messi in regola nei riguardi della giustizia verso i loro dipendenti.
Con quale occhio, infatti, Dio guarderà il nome del ricco scolpito obbrobriosamente sul capitello della sua chiesa o sulla parete dell’opera parrocchiale, mentre quel capitello e quella parete, a guardar bene, grondano sangue di poveri figli di Dio?
Fabbricando la Certosa di Pavia un Visconti non cancella le taglie imposte ai poveri del ducato milanese; come un industriale non pulisce il suo denaro donando qualche milione alla parrocchia o all’acli.
Sarebbe troppo comodo farsi meriti distribuendo ciò che non è nostro.
Già l’apostolo san Giacomo scriveva: “Fratelli miei, che la vostra fede nel glorioso Signor Gesù Cristo non abbia riguardi alle persone”.

Io credo così all’anima dei ricchi che sento il dovere cristiano di gridare.

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Ci sono davvero i poveri?
La stesa impressione di quando mi chiedono se Dio c’è.
Subito vogliono sapere: chi è? dov’è? cosa fa?

I poveri sono “i figli di Dio”.
Tra i poveri e Dio c’è una stretta somiglianza e un continuo incontro.

Essi vivono così particolarmente legati a lui che nella mente e nel cuore dell’uomo Dio e il povero seguono uguali alternative di luce e di oscurità, di riconoscimento e di negazione, di avversione e d’amore.

E’ per questo che gli atti del povero quasi istintivamente si riferiscono a Dio.
Non ha detto Gesù che saremo giudicati secondo che avremo o no sfamato, dissetato, consolato lui stesso sotto le vesti del povero?

Per conoscere i poveri non basta la statistica.
Anche la politica, che sembra aver dato coscienza ai poveri della loro forza, dei loro diritti, della possibilità di riacquistare la libertà perduta, il più delle volte, in realtà, li tradisce.
I poveri, o sono il “sottoproletariato” di cui la strategia rivoluzionaria si serve come forza d’urto o di rottura, o l’ ”oggetto” di adescamento dei conservatori per rompere l’unità popolare.
Non basta neppure l’amore per conoscere i poveri: neppure l’amore di chi si mette generosamente e concretamente a loro disposizione, pagando di persona, e non con le parole e con i sacrifici degli altri, come troppo spesso fanno i politici.

Io credo che anche questa forma di conoscenza sia incompleta e molte volte illusoria. Perché è impossibile superare un diaframma che realmente esiste, di capire cioè che cosa sia dover essere povero senza possibilità di elezione e di uscita.

I poveri sono scomodi, ingombranti, suscitano ripulsione, intimidiscono.
E’ facile dire una parola gentile a un uomo della nostra condizione: si sa o si può prevedere fino a che punto essa viene compresa. Ma non si sa mai che cosa il povero capisce e che cosa non capisce. E’ difficile misurare la profondità del suo dolore e la superficialità del suo piacere.
Per conoscere veramente i poveri, per parlarne con competenza, bisognerebbe conoscere il mistero di Dio, che li ha chiamati “beati” riservando loro il regno.
Erode ha paura di Gesù che ha per palazzo una stalla e per culla una greppia.
Bisogna che il povero non sia !
E invece il povero vien fuori dalla nostra stessa miseria: come Gesù. Il povero è Gesù. Se non ci sono più poveri non c’è neanche Gesù.

Se vedo me stesso non posso non vedere il povero: se vedo Gesù non posso non vedere il povero.
Le vertigini del benestare prendono dapprima gli occhi: si ha bisogno di non vedere.
Chi ha poca carità vede pochi poveri: chi ha molta carità vede molti poveri.
Che strana virtù la carità! Moltiplica i poveri per la gioia di amare i fratelli, per la gioia di perdere la propria vita nei fratelli.
E non sbaglia la carità, non fantastica: vede giusto, sempre. L’occhio della carità è l’unico che vede giusto.
“Signore, quando mai ti vedemmo affamato, assetato, senza tetto, ignudo o in prigione?” (Matteo, XXV, 44).

Dio, chi è? Prima importa sapere se Dio c’è.
I poveri, chi sono? Prima importa sapere se ci sono.
Non mette conto ch’io spieghi che sono i poveri, se non ci siamo ancora accorti che i poveri ci sono, e non lontano da noi.
Pare assai comodo non vedere i poveri.
Quella dei poveri, come quella di Dio, è una presenza scomoda.
Sarebbe meglio che Dio non ci fosse; sarebbe meglio che i poveri non fossero: poiché se Dio c’è, la mia vita non può essere la vita che conduco; se i poveri ci sono, la mia vita non può essere la vita che conduco.

Sono parecchie le cose che non vorremmo che fossero. Ne nomino alcune, le più scomode, ma le più certe, purtroppo: la morte, il dolore, i poveri, Dio.
Non vogliamo vedere Dio; non vogliamo vedere la morte; non vogliamo vedere il dolore; non vogliamo vedere i poveri.
E sono invece le realtà più presenti, direi le presenze che non possiamo non vedere e non ricordare.

Fino a quando riusciremo a tenere chiusi gli occhi davanti a queste certezze, che l’uomo può anche non voler vedere? Chiudo gli occhi un giorno; chiudo il cuore un giorno; chiudo la ragione un giorno, un anno, molti anni; poi, non ne posso più, e vedo Dio, la morte, il dolore, i poveri: proprio chi non vorrei vedere.
Su ogni strada c’è una svolta: all’improvviso, ecco che dal mio intimo stesso risale la certezza che Dio c’è, e il dolore m’attanaglia, e la morte mi viene vicina, e il povero m’appare.

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Se voi pensate che il povero sia colui cui manca qualcosa per essere felice, chi più povero d’un miliardario?

Siamo tutti poveri, tanto poveri.
Cosa vi manca per essere felici?
Non sapete rispondermi: a me manca tutto, e a voi?

Se mi dite che il povero è chiunque non riceve abbastanza per vivere da uomo, allora il non vedere l’opera delle nostre stesse mani è cosa facile e spaventosa insieme.

Non è il fatto che ci siano dei poveri che fa paura, ma che esistano degli uomini, dei fratelli, che non li vogliono vedere.
La parola ai poveri è soprattutto un saper vedere. Il nostro egoismo fabbrica il povero, poi non lo vede: mentre l’amore, che non lo vuole, lo vede.
Chi non vede il povero, come può dare la parola al povero?

E il diritto alla parola è un diritto che sta prima del pane, del vestito, della casa.
Il povero non vuole solo il pane
.
Nessuno è nobile nella sua povertà come il povero, nessuno più dignitoso di lui nel bisogno, nessuno sa dire di no più fermamente alle proposte che lo portano in basso.
Conoscere è lasciar parlare: è come se il povero parlasse.

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C’è una conoscenza che si sforza di cancellare il povero con ragionamenti che sembrano la quintessenza della saggezza mentre rasentano la diabolicità.
Non parlo di coloro che vorrebbero cancellare il povero facendolo diventare ricco – generosa cancellazione! -, ma di coloro che non vogliono vedere il povero che sotto l’aspetto di colpevole e quindi di responsabile di ciò che gli accade.

Ecco come parla certa brava gente, anche certa gente di chiesa, che temo però non abbia mai aperto il Vangelo o guardato il Crocifisso col cuore: - Se tutti lavorassero come me! Se tutti risparmiassero come me! Se tutti conducessero la casa come me!
Tre comparazioni del solito senso comune, che assai di rado è buon senso.
Ognuno ci metta i “se” che vuole, con le loro possibili sfumature, e poi ditemi come può salvarsi un povero da questa bravissima indignazione.
Non ci accorgiamo che cancellando il povero perché non ha testa, perché non ha voglia di lavorare, perché non sa risparmiare, gli buttiamo addosso anche i nostri meriti, che spesso sono piuttosto dei privilegi o frutti di privilegi? Non facciamo pesare anche le nostre giustizie sulle spalle di chi porta tanta ingiustizia!
Ci sono poveri, lo so, che non hanno voglia di lavorare, che non sono buoni economi; ma non è anche questa un’infelicità di cui bisogna tener conto?
La nostra vantata superiorità non è forse scontata abbastanza sull’inferiorità altrui?
La più brutta ingiustizia è trascurare coloro che soffrono forse per colpa nostra, col pretesto farisaico che noi siamo migliori.
L’onestà, l’operosità, il risparmio non sono un lusso o una decorazione di chi sta bene, perché molti che stanno bene non sono né onesti, né laboriosi, né economi: ma è certo per essi un dovere più facile e meno rischioso che per i poveri.
 
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Non vorrei nemmeno parlarne. Lo faccio solo per scrupolo di verità, e per confondere le ultime resistenze di certi pregiudizi.
Un giorno, durante la raccolta di offerte e di viveri per un gruppo di poveri, una piissima signora per bene mi si precipitò davanti inorridita dall’idea che qualcosa di tutto quel ben di Dio potesse andare a finire in una casa dove la moralità familiare non esisteva nemmeno nelle apparenze.
- Non sono marito e moglie, e vivono come i conigli – sibilò la signora abbassando pudicissimamente gli occhi.
Devo confessare che fui cattivo. Vidi quella “casa”, senza imposte e impiantito, con due o tre suppellettili corrose dall’umidità. Vidi la donna diafana, vidi i due bambini scalzi, paffuti, ma con una tossettina  pertinace. E vidi la piissima signora per bene, la quale aveva avuto tempo e modo d’informarsi di atroci cose non note, accorgendosi un po’ meno delle cose più evidenti. Allora ripeto, fui cattivo. Obbiettai semplicemente alla signora: - Beh! Ci si metta lei nelle identiche condizioni economiche e ambientali di quella famiglia: fra un anno ripasserò a vedere la sua moralità.

Malinconia delle constatazioni.
In sostanza una rivoltante e spicciola tradizione di fariseismo delle persone per bene arriva a negare al povero anche l’elemosina quando questa minaccia di andare a finire in un bicchier di vino o in uno stravizio qualsiasi invece che nel pane o negli stracci per sé e per la nidiata.
Strana questa pretesa di gente abituata a vivere più del superfluo che del necessario, la quale non arriva a capire come anche un affamato possa, una volta tanto, e magari più d’una volta, dimenticare il pane necessario per stordire proprio la fame di tutti i giorni e dimenticarla per un’ora in un bicchier di vino, grama e rara poesia di sensi di chi non può mai distendere l’anima nella gioia.
Strana pretesa che testimonia prima mancanza di psicologia e di buon senso e poi assenza assoluta di carità.
I poveri che danno ai più poveri di loro non calcolano mai prima di dare. Sanno per esperienza tutta la tristezza di ricevere un’elemosina che lungi dall’essere controllata dalla prudenza è strozzata dalla grettezza e dall’avarizia.
Solo i ricchi trovano modo e tempo di accorgersi che un povero sembra non meritare le loro briciole.

E qui la faccenda non è più strana, ma è fin troppo chiara.
Ci si potrebbe contentare di domandare a questa gente per bene, che magari milita persino sotto stendardi e distintivi cattolicissimi, come mai non trova egualmente il tempo di calcolare sugli sprechi che compie ancor più stupidamente per l’industria del proprio così di rado pulito comodo.
E’ ridicolo, o meglio, è tragico attendere che i poveri diventino buoni per aiutarli a essere meno poveri. E’ delittuoso negar loro l’elemosina se non si ravvedono sui due piedi da errori che la mancanza di elemosina, ma soprattutto di giustizia e di carità da parte della gente per bene li ha portati a compiere. E’ vile e farisaico scandalizzarsi della sbornia che lo straccione ha preso coi pochi soldi della nostra elemosina. Se i poveri sono così spesso diventati delinquenti, bisogna andare anche oltre di loro per trovare le ragioni esatte del delitto. Né si può sperare che diminuisca il delitto quotidiano dei miserabili poveri, se non finisce il delitto quotidiano dei miserabili ricchi, che, o non si accorgono dei poveri se non quando questi rubano, uccidono o diventano vittime della rivoluzione, o non se ne accorgono affatto, ed è, forse, ancora più grave.

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E’ incredibile che il più buono degli uomini, il più mansueto, colui che da secoli porta la croce di tutti, faccia paura!
Eppure, molti hanno paura del povero, come molti farisei avevano paura di Gesù, e non solo quando predicava, ma anche quando, condannato a morte, saliva il Calvario.

Non fa paura il povero, non fa paura la voce di giustizia che Dio fa sua, fa paura il numero dei poveri.
Io non ho mai contato i poveri, perché i poveri non si possono contare: i poveri si abbracciano, non si contano.
Eppure, c’è chi tiene la statistica dei poveri e ne ha paura: paura di una pazienza che si può anche stancare, paura di un silenzio che potrebbe diventare un urlo, paura di un lamento che potrebbe diventare un canto, paura dei loro stracci che potrebbero farsi bandiera, paura dei loro arnesi che potrebbero farsi barricata.
Sarebbe così facile andare incontro al povero! Ci vuole così poco a dargli speranza e fiducia!
Invece, la paura non ha mai suggerito la strada giusta.

Ieri la paura pagò i manganellatori: oggi non vorrei che foraggiasse i reazionari, invece d’incominciare finalmente un’opera di giustizia verso coloro che hanno diritto alla giustizia di tutti.
Ma, dicono, c’è da perdere, oggi, a far lavorare.

E chi vi ha detto che si debba sempre guadagnare quando diamo lavoro?
Prima del guadagno, c’è l’uomo: prima del diritto al guadagno, c’è il diritto alla vita. Sta scritto: “Tu non uccidere”. Il guadagno può farci omicidi: Giuda ha venduto il “sangue del giusto” per trenta denari.

L’economia ha le sue leggi, ma tutti hanno il diritto di mangiare.
Tutti siamo chiamati a dar da mangiare agli affamati su quello che abbiamo in tavola.
Produrre per l’uomo: non per il guadagno di qualcuno.
Abbiamo capovolto il pensiero di Dio e i conti non tornano neanche per chi guadagna, perché deve fare il negriero per guadagnare. Come lo fanno quasi tutti i padroni del mondo.
Questa è la crociata da bandirsi, prima ancora di quella anticomunista.
Anche per questi, che non credono in Dio anche se fabbricano chiese, che tolgono a tanti giovani la gioia di avere una famiglia, che mettono sulla strada tante figliole, che rubano la speranza e rendono accettabile l’assurdo comunista, c’è la scomunica,

La paura fa anche dire: - Non sono mai contenti i poveri: diamo cinque ed è come se non glieli avessimo dati; diamo dieci e il volto non cambia.
La ragione c’è, e non vi fa onore. Date cinque, e con la mano tenete il cuore chiuso; date dieci, e il cuore lo tenete ancora più chiuso.
Perché teniamo il cuore chiuso con i poveri?
Crediamo, forse, che essi abbiano soltanto bisogno di “aumenti”?
La povertà non si paga: la povertà si ama.
Per questo motivo non raggiungeremo mai l’incontro lungo la strada delle concessioni. Fino a quando ci sarà una classe che può concedere, e una classe che può reclamare un diritto, non avremo mai il ponte.

Qualcuno trova più comodo e redditizio distrarre e stordire il povero con dei divertimenti, onde fargli dimenticare che ha qualcosa da chiedere, una richiesta di giustizia da presentare. Per togliergli  dignità, per togliere al povero la sua “eminente dignità”, lo si stordisce. I patrizi della decadenza avevano creato il “tribunum voluptatum” per sollazzare i poveri. Ho l’impressione che, oggi, molti, borghesi e no, si assumerebbero volentieri, direttamente o indirettamente, il poco nobile ufficio.
I poveri che si divertono non fanno le barricate: i popoli che si abbruttiscono si possono comprare.

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I poveri fanno paura.
Ma c’è qualcuno che li vorrebbe moltiplicare!
Ci vuol bene chi lavori e porti il peso: più poveri ci sono e più numerose sono le braccia che domandano lavoro.
Mi giudicherete un facinoroso, un violento, perché nessuno ha la spudoratezza di dire certe cose. Abbiamo tutti imparato il vocabolario della buona creanza sociale, certi segreti intendimenti non li scoperchiamo mai. Ma in fondo a certe maniere di giudicare, e soprattutto a certe maniere di comportarci, c’è la diabolica voglia di moltiplicare i poveri per poter scegliere meglio e pagare peggio.
Quando il portafoglio ha preso il posto del cuore, ci si può aspettare questo e altro.
Qualcuno poi li vuole per una ragione… romantica. Non so trovare una parola più propria, né mi sforzo di cercarla: quando certi sentimenti mi fanno groppo, non sto a guardare nel vocabolario.
Una pennellata di colore ci vuole. Se tutti fossimo vestiti bene, che monotonia! Vicino alla pelliccia ci vuole un povero scialle…
Chi sta bene può anche vedere le cose sotto l’aspetto estetico. Chi sta bene vive di immagini, quasi fosse sempre a teatro, sempre spettatore, mai attore.

C’è anche la maniera romantica di aiutare il povero.
Se non ci fossero i poveri, come si potrebbe diventare benefattori?
Se poi un nostro contadino, o un nostro operaio, hanno una bella figliola, si può anche vestirla bene, per farsela amica o compagna…

Ci si diverte infine per i poveri.
Ci si diverte e si fa del bene: ci si diverte facendo del bene. E’ una brutta moda borghese, questa, passata anche in ambienti cosiddetti cristiani.

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Ci sono troppi avvocati dei poveri.
Cercate di capirmi, perché non voglio nessun malinteso.
Il povero è numero, il povero è sofferenza, il povero è protesta continua e spaventosa contro tutte le nostre ingiustizie: il povero è quindi anche una polveriera. Se le dai fuoco, il mondo salta.
Qualcuno si sente già chiamato per questo disumano e facilissimo mestiere, invelenendo la sofferenza invece di placarla e di guarirla.
Quante brutte cose si dicono e si fanno in nome dei poveri!

I poveri sanno difendersi da sé: essi non hanno rilasciato nessun avallo e nessuna delega a questi o a quelli. Siamo noi, che crediamo di avere il diritto di parlare, di firmare, di protestare e di minacciare in nome loro.

Ci sono troppi avvocati dei poveri, che non conoscono “il povero”.
La conoscenza faziosa del povero è preparata da una conoscenza astratta. Ci si vergogna di non aver visto questo o quel film, di non aver letto il tal libro, di non aver avvicinato l’uomo del giorno, e nessuno si vergogna di non aver visto il povero.
Chi conosce il povero?
Chi ne ha sentito il cuore?
Chi lo segue nella sua quotidiana “via crucis” ?
Parliamo di giustizia, e non sappiamo dove collocarla !
Ci vuole un altare per l’offerta: e questo altare è il povero. Ma noi non sappiamo salirvi perché non abbiamo mai visto il povero. Troppa gente scantona per non incontrarlo: troppa gente non ha ancora fissato in volto il povero, né sopportato l’odore del povero! E spesso son proprio coloro che da mattina a sera non fanno che parlare di giustizia in nome dei poveri!
Anch’io ho sete di giustizia, ma mi sono accorto che giustizia non è una parola per la piazza alla vigilia delle elezioni, o per il codice che poi vien letto come vien letto: la giustizia è spalla, braccio, mano, coscienza, cuore…
Se non lo vediamo così il povero, se non l’accettiamo così, costruiremo un’altra volta la nostra piccola giustizia sulla rena. Ci daremo leggi che tutelano con cuori che divorano. Senza la carità del cuore, tutto si fa fuoco divorante.

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Senza una conoscenza umana del povero, non si arriva alla conoscenza fraterna.
L’uomo deve vedere l’uomo nel povero.
Il “compagno” non basta, il “camerata” non basta, come non basta colui che è della nostra razza, della nostra classe, della nostra nazione.
Non disprezzo nessuna conoscenza e nessun vincolo, ma abbiamo troppo sofferto, e tuttora soffriamo, di questi limiti di umanità: abbiamo troppo sofferto per quello che è legato alle parole razza, nazione, casta, classe, per accoglierle come il momento della nostra conoscenza. Abbiamo bisogno di vedere subito l’uomo, per non cadere di nuovo nella tentazione d’ipotecare la giustizia e di restringere il cuore.

Vogliamo anzitutto una visione umana del povero, perché il povero non ha nazione, né classe, né razza, né partito: è l’uomo che domanda a tutti pietà e amore.
E quando dico voglio vedere l’uomo, non intendo l’uomo dei filosofi, che non m’interessa, come non m’interessa il dio dei filosofi.
Intendo l’uomo reale, l’uomo vero, in carne e ossa: uno cioè che posso toccare.
E quest'uomo che posso toccare e che chiede pietà sono io stesso.
Povero è l’uomo, ogni uomo.
Non per quello che non ha, ma per quello che è, per quello che non gli basta, e che lo fa mendicante ovunque, sia che tenda la mano, sia che la chiuda.
Il povero sono io, chi ha fame sono io, che è senza scarpe sono io.
Questa è la realtà: così è il vedere reale.
Io sono il povero; ogni uomo è il povero!

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A un certo momento ho bisogno di scegliere tra il povero che è in me e il povero che è in ognuno.
E’ una scelta difficile, perché dentro di me urla un istinto che mi può portare ad amare me stesso fino al disprezzo degli altri.
Per poter fare bene questa scelta bisogna che il fratello si manifesti all’uomo come in un ostensorio.

Chi non sente l’amore dell’uomo non può avere fratelli; e chi non arriva al fratello rischia di cancellare anche l’uomo.
Perché avvenga il miracolo, è necessario che Cristo mi parli, e s’incarni nell’uomo.
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria fra gli angeli, e sederà sul trono davanti a tutte le genti, separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri. Manderà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra. Allora il re dirà, volto a destra: “Venite, o benedetti dal Padre mio. Ecco il regno per voi preparato sin dalla fondazione del mondo. Perché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere; fui senza tetto e mi accoglieste; ignudo e mi vestiste; infermo e mi visitaste; in prigione e mi veniste a trovare”. Allora i giusti risponderanno: “Signore, quando mai ti vedemmo affamato e ti demmo da mangiare; assetato e ti demmo da bere; senza tetto e ti accogliemmo; ignudo e ti vestimmo; infermo e in prigione e ti visitammo?”. E il Re risponderà: “In verità vi dico che quanto avete fatto a uno di questi minimi, miei fratelli, l’avete fatto a me” (Matteo, XXV, 31-40).

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Dovrei chiudere, e m’accorgo che i poveri non hanno ancora preso la parola.
Sono tuttora degli sconosciuti, anche tra noi. E gli sconosciuti difficilmente prendono la parola…

- Diteci allora dove si può conoscere il povero.
Dove sta di casa; dove soffre e attende che qualcuno gli si metta vicino; dove si prepara la redenzione o il perdimento dell’uomo.
I destini del mondo si maturano in periferia.
Nelle piazze e nei parlamenti si fanno gli affari e la politica; ma l’umanità si degrada o si eleva in periferia, ove molti vanno a far questua di voti o di peggio, come se il dolore potesse essere sfruttato al pari della fatica senza che gridi vendetta a Dio.

Un secolo fa, dopo l’altra rivoluzione, un gruppo di studenti della Sorbona osarono dichiararsi cristiani.
Un professore chiese loro: “Come potete credere in una cosa morta? Dateci una testimonianza che il Vangelo è ancora vivo.”
Federico Ozanam rispose per i suoi compagni: “Il Vangelo vive perché vivono i poveri! Amiamo i poveri come Gesù!”.

Bisogna amare i poveri.
I poveri vanno amati concretamente (“figlioli miei, non amate a parole, ma a fatti”); e vanno amati come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto d’ipoteca, neanche di farli cittadini del regno dei cieli…
Cittadini del regno dei cieli i poveri lo sono già, per diritto di chiamata evangelica: “Beati voi, o poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Luca, VI, 20).
La carità di ogni specie non c’è bisogno che renda: è già feconda e perfetta in sé, quand’è vera carità.

Bisogna andare dai poveri. E’ più facile magari andare in chiesa e forse è anche più comodo.
I poveri non s’incontrano lungo il corso, o sulle piazze, molto meno nei comizi, ove spesso si alterano i loro connotati, come se il Cristo fosse quello visto dai farisei, da Erode, da Pilato, da Giuda.
Bisogna andare là dove il povero nasconde la sua sofferenza e la nostra ingiustizia. Il più delle volte non ha neanche una casa: “fui senza tetto e non mi accoglieste” (Matteo, XXV, 43).

E allora, ciò che noi abbiamo pensato di lui, ciò che gli abbiamo attribuito per disimpegnarci dal volergli bene, ci apparirà come una bestemmia.
Chi parla male del povero, parla male di Cristo. Diventiamo buoni e vedremo giusto: purifichiamo il cuore e vedremo Cristo anche nel tabernacolo più profanato.

Il povero – ogni povero – si presenta al cristiano con un diritto di precedenza: col volto e il diritto di Cristo: “Avevo fame, avevo sete, ero senza casa…”.
Chi non capisce il povero non capisce Cristo: chi lascia fuori il povero, lascia fuori Cristo, che ancora una volta va a dormire fuori delle mura.
Le paure del mondo borghese non mi fanno paura: mi fa paura che Cristo vada a morire fuori dalla città.
Noi abbiamo cattedrali magnifiche, insegne cristiane ad ogni passo, ma se Cristo è in agonia fuori delle mura, coloro che costruiranno la nuova città sono fuori delle mura dove Cristo è in agonia.
“Lo spogliarono, e gli gettarono sulle spalle uno straccio rosso, e, intrecciata una corona di spine, gliela posero in capo…” (Matteo, XXVII, 29).
La novità è incominciata così: un Cristo, rifiutato dai sacerdoti, dai potenti e dai ricchi, che va a morire fuori delle mura.
Non ho più il coraggio di continuare, ma chi chiude gli occhi per non vedere non avrà parte con lui nel regno che gli prepara…{mospagebreak}


Parole ai ricchi 

a cura di RIENZO COLLA

DOTTRINA DEI DODICI APOSTOLI
(90-100)

A chiunque ti chiede dà e non ridomandare; poiché il Padre vuole che tutti ricevano dei suoi doni”. (I, 5)

“Non essere di coloro che nel ricevere allargano la mano e la stringono invece nel dare”. (I, 6)

“Non esiterai a dare, né darai brontolando; poiché conoscerai chi è il tuo buon rimuneratore.
Non scaccerai il povero, ma farai parte di tutte le cose col tuo fratello, e non dirai che sono cose tue, infatti se partecipate in comune dei beni immortali, quanto più non dovete farlo per quelli che passano”. (IV, 7-8)

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ERMA
(140-154)

Fa il bene, e di ciò che il Signore ti dà per le tue fatiche danne ai poveri con semplicità, senza stare incerto a chi dare e a chi non dare. Dà a tutti, poiché a tutti Dio vuole che si dia dei suoi doni”.

“Nel giorno di digiuno non prenderai che pane e acqua, poi calcolerai la somma che avrai risparmiata e la darai a una vedova, a un orfano o a un povero. Così tu ti priverai perché un altro profitti della tua privazione e preghi per te il Signore”. (Il pastore)

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SAN GIUSTINO MARTIRE
(+ 165)

“Noi, che un tempo amavamo e cercavamo l’oro e le proprietà, ora mettiamo tutto in comune…”. (La prima apologia, XIV)

“Nel giorno del sole, dopo la lettura, la preghiera e l’eucarestia, si fa la distribuzione delle offerte, su cui si sono celebrate le azioni di grazie.
I ricchi danno spontaneamente quello che vogliono.
E quanto vien raccolto si mette davanti a chi presiede. E questi soccorre gli orfani, le vedove, i poveri, i malati, i carcerati, i pellegrini. Noi ci prendiamo a cuore tutti quanti si trovano in necessità”. (La prima apologia, LXVII)

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CLEMENTE DI ALESSANDRIA
(+215)

“Non desiderare i cibi dei ricchi, dice la Scrittura, perché questi stanno insieme con una vita menzognera e turpe.
I ricchi sono attaccati ai cibi sopraffini, che in breve tempo finiscono nella latrina. I mangiatori intemperanti e insaziabili che nelle case dei ricchi svergognano se stessi offendono soprattutto i poveri”. (Il Pedagogo, II, 1)

“La miglior ricchezza è avere pochi desideri; il vero orgoglio non consiste nell’inorgoglirsi delle ricchezze, ma nel disprezzarle”. (Il Pedagogo, II, 2)

Dio fece tutte le cose per tutti; dunque tutte le cose sono comuni.
Egli ci diede solo l’uso delle cose.
E’ ingiusto, quindi, che uno viva lussuosamente, mentre i più sono poveri.
E’ meglio aiutare i poveri che avere una casa ricca! E’ più saggio spendere per gli uomini che per le pietre! E’ più utile avere amici ornati che ornamenti senz’anima!” (Il Pedagogo, II, 12)

“E’ ridicolo e rivoltante che i ricchi usino vasi e piatti d’oro e d’argento, e che certe matrone si faccian fare d’oro perfino i vasi per gli escrementi di modo che alle ricche non è possibile nemmeno evacuare senza fasto! Io vorrei che veramente durante tutta la vita stimassero l’oro degno di escrementi…” (Il Pedagogo, II, 3)

“La ricchezza mi sembra simile a una serpe: se uno non sa prenderla di lontano per la coda, gli si attaccherà alla mano e lo morderà”. (Il Pedagogo, III, 6)

Non è ricco chi ha, ma chi dà: è il dare, non l’avere che fa l’uomo felice”. (Il Pedagogo, III, 6)

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SAN CIPRIANO
(+ 258)

“I ricchi sono sempre preoccupati: il giorno sono in ansia per gli affari, la notte non dormono per timore dei ladri.
Essi sono veramente torturati su un fastoso patibolo. E non volendo liberarsi da questi deliziosi carnefici, continuano a chiamare beni – ironia delle parole! – ciò che non usano neppure se non per fare il male!”. (A Donato, 12)

“Dando al povero tu dai a cristo. Dando da mangiare al povero, tu dai da mangiare a Cristo!”. (La disciplina delle vergini, 11)

“Tu temi che il tuo patrimonio possa esaurirsi se fai l’elemosina, e non sai, infelice, che mentre stai in questo timore ti viene a mancare la vita e la stessa salute. Mentre infatti vuoi impedire ogni diminuzione di ciò che possiedi, non vedi che diminuisci te stesso. Tu ami il denaro più della vita, e mentre temi di perdere il patrimonio per tuo spirituale vantaggio, tu stesso vai in rovina per vantaggio del tuo patrimonio”. (Le buone opere, 10)

“Tu che sei ricca, ungiti gli occhi, non con l’antimonio diabolico, ma col collirio di Cristo.
Tu che sei ricca, non puoi bene operare nella Chiesa; chè i tuoi occhi, inverniciati di nero e come avvolti nelle tenebre della notte non possono vedere il povero”. (Le buone opere, 14)

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SAN BASILIO
(+ 379)

“Per ladri non si devono intendere solo i tagliaborse, o quelli che portano via le vesti nei bagni; ma, per esempio, chi, divenuto capo d’un esercito, o principe d’una città, o sovrano d’un popolo, tira a sé, sotto sotto, o anche ruba pubblicamente a man salva.
Chi, ritenuto capo d’una chiesa, riceve ricchezze da simili individui, per suo uso privato, o col pretesto d’un onore a lui dovuto per la sua dignità, o con la scusa dell’elemosina per i poveri della sua chiesa, diventa complice di ladroneria. Invece di rimproverare i ladri, di ammonirli, di distoglierli dalle ingiustizie, porge facilmente la mano al dono e invidia coloro che tanto più dovrebbe aborrire quanto maggiori sono le loro furfanterie. Spesso anzi li lusinga, scodinzolando loro intorno, passeggiando con loro, frequentandone i palazzi, stringendo quelle mani che compiono tutte quelle ladrerie in pubblico e in privato. Davvero che operando in tal modo veniamo chiamati manutengoli di ladri!
Bisognerebbe che noi ci mettessimo sotto i piedi le prepotenze di tutto il mondo e tutte le sue grandezze e sontuosità. E invece, quando vediamo che ai tribunali vengono condannati i ladri piccoli dai ladri grossi, proviamo grande antipatia per quei poveracci a causa dei loro piccoli furti e grande ammirazione per gli altri! Gli uni li sfuggiamo, perché sono ladri; gli altri li ammiriamo, a bocca aperta, perché ammucchiano tesori rubando!”. (Commento al profeta Isaia)

“Io conosco molti, che digiunano, pregano, gemono ed ostentano tutta la pietà che non conta, ma che poi non danno a che soffre nella miseria. Ora, a costoro, a che servono queste virtù? Il regno dei cieli non sa che farsene…”.
“Che cosa risponderai a Dio, tu che vesti i muri e non vesti il tuo simile? Tu che orni il tuo cavallo e non hai uno sguardo per il tuo fratello in miseria? Tu che lasci marcire il tuo grano e non nutri chi ha fame? Tu che nascondi il tuo oro e non vieni in aiuto all’oppresso? …
A chi ho fatto torto, tu dici, conservando quello che è mio? Dimmi, che cosa ti appartiene? Da chi lo hai ricevuto per portarlo nella vita? Sarebbe come se un tale, dopo aver preso un posto a teatro, ne allontanasse ogni altra persona e pretendesse considerare sua proprietà quello che è per l’uso di tutti. Così fanno i ricchi: perché sono i primi detentori di un bene comune si credono in diritto di appropriarsene. Se ciascuno si accontentasse del necessario e donasse agli indigenti il superfluo non vi sarebbero né ricchi né poveri”.

“Non uscisti nudo dal seno di tua madre? E non ritornerai ugualmente nudo alla terra?
Quanto ai beni presenti, da chi li hai avuti? Se rispondi: dal caso, sei un empio che rifiuta di riconoscere il suo creatore e di ringraziare il suo benefattore; se convieni di averli avuti da Dio, dimmi dunque per quale ragione egli te li ha dati.
Dio è forse ingiusto nel ripartire le cose necessarie alla vita? Perché tu sei nell’abbondanza e l’altro nella miseria? Non è forse perché un giorno tu riceva la ricompensa della tua bontà e della tua fedele amministrazione e l’altro ottenga la corona riservata alla pazienza?”. (dalle omelie)

Se uno spoglia chi è vestito si chiama ladro. E chi non veste l’ignudo quando può farlo merita forse altro nome?
Il pane che tu tieni per te è dell’affamato, il mantello che tu custodisci nel guardaroba è dell’ignudo, le scarpe che marciscono in casa tua sono dello scalzo, l’argento che conservi sotterra è del bisognoso”.

“O ricco, ricordati che sei servo di Dio e dei tuoi fratelli. Non pensare che tutto sia destinato al tuo ventre. Considera le ricchezze che sono nelle tue mani come cosa d’altri: per breve tempo ti allietano, poi scorreranno via e scompariranno, ma tu dovrai renderne strettissimo conto… Imita la terra, o uomo, porta frutti a somiglianza di essa, non mostrarti peggiore d’una creatura inanimata.
Come potrò metterti sott’occhio i patimenti del povero? Egli, se si guarda intorno nella sua casa, vede che oro non ce n’è e non ce ne sarà mai. Suppellettili e vesti, quali sogliono essere le robe del povero, del valore di pochi oboli in tutto. Ma c’è di più. Egli volge l’occhio ai figli e pensa di condurli sul mercato… Immagina la lotta fra la necessità e la fame da una parte e l’affetto paterno dall’altra…
O ricco, non ti fanno pietà le lacrime del povero, non ti inteneriscono il cuore i suoi gemiti? Duro e implacabile, tu non vedi che oro, non farnetichi che di oro. Lo sogni quando dormi, lo brami quando ti svegli. Come i maniaci non vedono la realtà, ma delirano, così tu, schiavo della cupidigia, non vedi in ogni cosa che oro e argento. La vista dell’oro ti è più chiara che quella del sole, vorresti che tutto si convertisse in oro e fai il possibile per riuscire nel tuo scopo. Quale astuzia non metti in opera per il miraggio dell’oro! Per te il frumento diventa oro, il vino si solidifica in oro, la tana si trasforma in oro: tutti i tuoi traffici, tutti i tuoi progetti sono per procurarti oro. L’oro poi si moltiplica con gli interessi e tu non sei mai sazio…”. (Il ricco insensato)

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SAN GREGORIO DI NAZIANZO
(+390)

Io non sapevo che noi vescovi dovessimo gareggiare coi consoli, coi prefetti, coi generali, i quali non sanno più dove ammucchiare le loro sostanze. Non sapevo che fosse nostro dovere rimpinzarci in ventre di cibi prelibati sottratti ai poveri, sciupare in cose inutili ciò che sarebbe necessario ad altri, contaminare coi nostri rutti gli altari. Bello cavalcare su destrieri puro sangue, e andare in giro su splendidi cocchi con fastoso seguito mendicando gli applausi del volgo…
Cercatevi un altro che sia gradito alla moltitudine; a me date la solitudine e l’agreste semplicità, datemi Dio, al quale solo saremo accetti, pur nell’umile e povera nostra vita”.
“A tutti i poveri dobbiamo aprire il cuore, per qualsiasi causa essi soffrano. Uomini, noi dobbiamo pagare a tutti gli uomini il tributo della nostra umanità: siano essi bisognosi per la perdita dei genitori, o per la crudeltà dei padroni, o per la prepotenza di chi comanda, o per l’esosità degli esattori, o per sanguinaria crudeltà degli assassini. Tutti gli uomini, infatti, sono ugualmente degni di compassione e guardano alle nostre mani come noi guardiamo a quelle di Dio quando abbiamo bisogno di qualcosa.
Soffriranno i poveri a cielo scoperto e noi abiteremo case splendidissime, fulgide d’oro e d’argento, adorne di marmi di ogni specie, di fini mosaici e di svariate pitture? Tremeranno essi dal freddo in logori cenci, e forse non disporranno neppure di questi, e noi cercheremo le raffinatezze di vesti molli e fluenti, di vaporosi tessuti di lino e di seta, e di tali vesti, alcune ci serviranno, anziché per brillare, per fare una brutta figura (io chiamo con questo nome tutto ciò che è superfluo), altre le terremo riposte nelle casse con inutile e vana sollecitudine pascolo dei tarli e del tempo che tutto consuma? Giaceremo noi splendidamente su alti letti e magnifici tappeti, sdegnandoci al solo udire la voce dei poveri?…
In casa nostra anche il pavimento deve odorare di fiori, spesso anche fuori stagione; la mensa dev’essere profumata per divenire così ancor più effeminati. Bisogna che ci stiano sempre dinanzi dei giovani, alcuni, schierati in bell’ordine, con le chiome sciolte, effeminati, col volto meticolosamente rasato, ornati più di quanto convenga a occhi impudichi; altri, tenendo le coppe coll’estremità delle dita nel modo più elegante e sicuro che sia possibile; altri, agitando accoratamente sul capo dei ventagli, rinfrescando coll’aria mossa dalle mani la mole della carne.
Oltre a ciò, bisogna che la mensa sia piena di cibi, che i cuochi e i pasticcieri ci mettano perfino in imbarazzo colle loro ricette per lusingare il nostro ventre avido ed ingrato.
Per i poveri sarà molto avere acqua a sazietà, per noi, invece, vino fino all’ubriachezza, e per i più intemperanti anche oltre l’ubriachezza.
Bisogna assolutamente che noi siamo raffinati e ricchi più del necessario, o almeno siamo giudicati tali; quasi ci vergognamo se non siamo stimati depravati, servi del ventre e di ciò che è sotto il ventre”. (dalle omelie)

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SAN GREGORIO DI NISSA
(+394)

“Tu sei uomo, ama dunque i tuoi fratelli, non il denaro”.

“Chi ha troppo, non è fratello, ma ladro”.

“Coi poveri che sono malati sii doppiamente generoso, perché chi è povero e malato soffre di doppia povertà”.

“Che importa che il ricco faccia un po’ di elemosina: quel denaro costa le lacrime di cento poveri…”. (dalle omelie)

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SANT’AMBROGIO
(+397)

“E’ meglio proteggere la causa dei poveri ed esporsi alla disapprovazione di alcuni (com’è capitato a noi per aver infranto i vasi della Chiesa per riscattare gli schiavi), piuttosto che essere crudeli.
L’oro, la Chiesa lo ha, non per tenerlo, ma per dispensarlo. A che serve custodire ciò che, custodito, non è di aiuto ad alcuno?
Non sappiamo noi quanto oro ed argento hanno tolto dal tempio del signore gli assiri? Non è chiaro che i sacerdoti fanno meglio a farne moneta per aiutare i poveri, qualora manchino altri soccorsi, che lasciarli esposti alle ruberie e alle contaminazioni dei sacrileghi nemici?
Il Signore direbbe certamente: Perché hai permesso che tanti bisognosi muoiano di fame? Certo, non ti mancava dell’oro: dunque, perché non sfamarli? Perché tanti, condotti in schiavitù, per non essere riscattati, sono stati uccisi dai nemici? Era meglio conservare i templi vivi di Dio che i metalli.
A questi argomenti non sapresti cosa rispondere. E che vorresti dire? Forse che hai avuto paura che manchi l’ornamento alla chiesa di Dio? Egli risponderebbe: i sacramenti non cercano l’oro; né piacciono a cagione dell’oro quelle cose che non si comprano con l’oro. L’ornamento dei sacramenti è la redenzione degli schiavi e dei poveri. Quelli sì che sono vasi preziosi!”. (Degli uffici, II, 28)

“Fino a che punto, o ricchi, vorrete estendere le vostre folli bramosie? Credete forse di essere i soli ad abitare la terra? Perché disprezzate il povero?
Il mondo è stato creato per tutti: per i ricchi e per i poveri. La natura non fa distinzioni perché ci genera tutti poveri. Noi non nasciamo coi vestiti, né con l’argento e l’oro. Nudi nasciamo, bisognosi di cibo e di vestito; e nudi ci riceverà la terra. Al povero come al ricco basta per sepoltura l’angolo d’un campo; e la terra, troppo piccola per i desideri del ricco quand’è vivo, l’ingoia tutto intero quand’è morto. Com’è possibile distinguere tra i morti, ricchi e poveri? Scavate la terra e fatemi vedere il ricco.”

“O ricchi, vi insuperbiscono i vostri immensi palazzi? Vi dovrebbero invece fare arrossire, perché, mentre potrebbero dare alloggio a fole intere, voi ne escludete i poveri. I vostri palazzi vi impediscono perfino di udire la voce supplichevole dei poveri; è vero che, se anche l’udiste, non l’ascoltereste.
Nel costruire i vostri palazzi vorreste superare voi stessi, e non siete mai tranquilli perché mai vi accontentate. Vergognatevi! Ricoprite le pareti e spogliate gli uomini!
Davanti alla porta della tua casa, grida chi non ha vesti per ricoprirsi e tu lo disprezzi; implora l’ignudo e tu invece ti chiedi con quali marmi preziosi tu possa ricoprire i tuoi pavimenti. Il povero ti chiede un po’ di denaro e non l’ottiene; ti domanda un pezzo di pane e il tuo cavallo è trattato meglio di lui. Ti dilettano gli stucchi preziosi, mentre gli altri non hanno da mangiare. Quale giudizio, o ricco, attiri sul tuo capo!
Il popolo ha fame e tu rinchiudi i tuoi granai; il popolo implora e tu abbondi di pietre preziose. Disgraziato, nelle tue mani stanno le sorti di numerose persone: potresti salvarle dalla morte e non lo vuoi. Solo con la gemma dell’anello che ti porti al dito potresti salvare un’infinità di vite umane…”. (La storia di Nabot di Jezrael)

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SAN GIOVANNI CRISOSTOMO
(+407)

“Mio e tuo non sono che parole”.

“Non aiutare i poveri è rubare; quanto possediamo non appartiene a noi, ma  a tutti”.

“Non tener conto della condotta del povero. L’unico titolo in favore del povero è la sua indigenza, è la necessità in cui si trova. Non esigere da lui nient’altro: fosse anche il più delinquente di tutti, se manca del necessario, cerchiamo di saziare la sua fame. Così ha comandato di fare Cristo…
Se ci mettiamo ad esaminare con tanto scrupolo gli immeritevoli, probabilmente non ci capiterà mai nessuno che sia meritevole; se invece siamo generosi anche con gli immeritevoli, certamente c’imbatteremo in persone meritevoli e tali da compensare il demerito di tutti gli altri. Noi non facciamo la carità ai costumi, ma all’uomo; dobbiamo sentire compassione non per la virtù, ma per la sventura”.

“Ai poveri non rinfacciamo l’ozio, cosa spesso facilmente scusabile. Noi lavoriamo, sì, ma per far cose che sono anche peggiori dell’ozio…
Tu, spesso, passi tutta la giornata nei teatri, nei ritrovi, nelle conversazioni più inutili, sparli di tutti e non pensi di fare alcun male o di stare in ozio. E questo povero diavolo che tutto il santo giorno non fa che supplicare e piangere, afflitto da mille guai, tu lo condanni, lo trascini al tribunale e gli chiedi conto di quello che fa? E questo lo chiami sentimento umano?”.

“Imitiamo le pie donne al sepolcro, non abbandoniamo Gesù. Esse dimostrano tanta generosità verso un morto, con rischio della loro vita; e noi rifiutiamo di nutrirlo quando ha fame, di vestirlo quando è nudo. Anche ora è proprio lui. E’ lui che ha detto: Sono io”.

“La tavola della Cena non era d’argento, come non era d’oro il calice nel quale Cristo offrì il suo sangue ai discepoli: e tuttavia ogni cosa era preziosa e degna di venerazione perché ripiena dello Spirito.
Vuoi onorare il corpo di Cristo?
Non cominciare allora a disprezzarlo perché è nudo. E non onorarlo qui con vesti di seta, disprezzandolo fuori dov’egli soffre.
Chi disse: “questo è il mio corpo” è lo stesso che disse: “voi m’avete visto affamato e non m’avete dato da mangiare” e “ogni volta che avete rifiutato di farlo a uno di questi miseri è a me che l’avete rifiutato”.
Dio non ha bisogno di calici d’oro, ma di cuori d’oro”.

Ricco non è chi ha molte cose, ma chi non ha bisogno di molte cose, né povero è chi nulla possiede, ma chi molto brama: questo è il vero concetto di ricchezza e povertà.
Se dunque vedi uno che desidera molto, credi che è il più povero di tutti, anche se ha le ricchezze di tutti; se invece vedi uno che non ha bisogno di molto, credi che è il più ricco di tutti anche se non possiede nulla”.

“La parola del Signore è chiarissima: “Chi accoglie voi, accoglie me”. Quindi ricevere un povero è ricevere Gesù Cristo, aiutare un povero è aiutare Gesù Cristo.
Non disprezziamo i poveri quando li vediamo afflitti dal freddo e dalla nudità: Gesù si offre continuamente ai nostri occhi, nelle piazze e nelle vie, all’entrata delle chiese, nelle nostre stesse case.
A qualunque ora del giorno noi possiamo, anche se laici, divenire sacerdoti di Gesù Cristo, investiti dello splendore misterioso di un nuovo sacerdozio. E qual è il nostro altare? La mano del povero”.

“Abramo era ricco, ma non avaro. Non insidiava la casa o la roba degli altri, ma soccorreva il povero e ospitava il pellegrino.
Non ricopriva d’oro il tetto della sua casa, ma ai piedi della quercia alzava la propria tenda, contento dell’ombra delle foglie.
Eppure era così splendida la sua ospitalità che neppure gli angeli si vergognarono d’entrarvi, essi che non cercano lo splendore della casa, ma le virtù dell’anima”.

“Quale pazzia! Quale stoltezza! Accanto a voi una creatura, fatta ad immagine di Dio, muore di miseria, e voi pensate di farvi confezionare vasi immondi in oro puro!
La mia non è un’esagerazione.
Il re dei persiani porta una barba d’oro, avendo i suoi barbieri trovato il modo di chiudere in lamine d’oro ogni pelo della sua barba.
Gloria a te, o Cristo, che ci hai liberati da tanto orrore e da tanta follia!
Quanto a voi, miei cristiani, sappiate che non solamente vi esorto, ma vi ordino di rinunciare a tali fantasie di lusso smodato.
Mi comprenda chi vuole. Ma sappia ognuno che io non sopporterò tali eccessi. A coloro che scandalizzeranno cristiani e pagani coi loro costumi io interdirò l’entrata in chiesa”.

“Voi abitate in case a tre piani e il povero non ha un tetto per ripararsi; voi riposate su morbidi letti ed egli non ha neppure un cuscino…
E quando voi accaparrate il grano, elevate i prezzi ed inventate nuove forme di usura.
Che speranza avete di salvarvi?”.

“No, io non posso sopportare queste mollezze e queste infami sontuosità.
Non posso sopportare che la Chiesa abbia tanti ricchi tra i suoi figli e non riesca poi a soccorrere i poveri”.
“Potreste voi dimostrare che la ricchezza è giusta? No, perché la sua origine è quasi sempre avvelenata da qualche frode…
Dio, all’inizio, non ha fatto uno ricco e uno povero, ma ha dato a tutti la stessa terra”.

“La terra non è forse tutta del Signore? E allora i frutti della terra devono essere comuni a tutti.
Le parole “mio” e “tuo” sono causa di discordia. La comunità è molto più conveniente all’ordine naturale che la proprietà!”.

“Non pretendiamo che vi facciate tutti poveri, vi chiediamo solo che vi accontentiate del necessario, e cioè che teniate solo quelle cose senza le quali la vita non può essere vissuta. Il superfluo, il di più, è inutile!”.

“E’ la vostra durezza che obbliga la Chiesa a possedere campi, case, cavalli. Essa avrebbe preferito lasciare a voi tutte queste cose, e che fosse il vostro amore la sua ricchezza.
La condizione attuale conduce a due risultati ugualmente deplorevoli: priva voi di ogni merito, e condanna i preti di Cristo ad occuparsi di cose lontanissime dal sacerdozio.
LA cupidigia che avete per i beni del mondo ha spaventato i vostri pastori che hanno costituito un patrimonio per le vedove, gli orfani e i poveri.
Essi fecero questo malvolentieri, perché il loro più grande desiderio era che fosse la vostra buona volontà a venire in soccorso ai poveri mentre essi continuavano ad attendere unicamente alla preghiera…
Noi non osiamo più parlare contro i vizi del mondo perché ormai la Chiesa non differisce in nulla dal mondo.
Un tempo gli apostoli non ricevevano, neppure per distribuirlo, il denaro.
Oggi invece sono diventati quasi degli uomini d’affari, dei finanzieri, degli imprenditori, dei commercianti.
Rimettiamo una buona volta ogni cosa al suo posto. Che i preti si occupino della preghiera e del loro ministero, e i laici dei campi e delle case…”. (dalle omelie)

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SAN GIROLAMO
(+420)


“Altri costruiscano chiese, innalzino imponenti colonne, ornino le porte d’avorio e d’argento, e impreziosiscano di gemme gli altari. Io non condanno nessuno. Ognuno segua la sua opinione. D’altra parte è meglio spendere così piuttosto che custodire avaramente la propria ricchezza…
Ma altro è il tuo compito: vestire Cristo nei poveri, visitarlo negli ammalati, nutrirlo negli affamati, accoglierlo in quelli che non hanno un tetto”.

Viviamo come se non avessimo niente e possedessimo tutto. Quanto basta per vivere e per vestirsi sia la ricchezza dei cristiani. Se possiedi qualcosa, vendile; se non possiedi niente, non dartene pensiero.
E’ chiaro che se, rimandando di giorno in giorno, non vendi a poco a poco le tue cose, Cristo non avrà di che nutrire i suoi poveri.
Ha dato tutto a Dio chi gli ha offerto se stesso. Gli apostoli abbandonarono soltanto le imbarcazioni e le reti. La vedova diede due monetine in elemosina, ma la sua offerta vale più delle ricchezze di Creso. Chi pensa alla morte disprezza senza difficoltà ogni cosa”.

“Sbarazzati di ogni peso importuno, non voler correr dietro alle ricchezze del mondo, credi al Vangelo che paragona le ricchezze alle gobbe del cammello. Spogliati di quanto impedisce il tuo volo verso l’alto.
Cristo a chiunque ha comanda di vendere e dare ai poveri: è solo questo gesto che testimonia la volontà di seguirlo veramente”.

“Ai nostri giorni, disgraziatamente, non è tanto facile imbattersi in monaci o in gente di Chiesa che accettino di vivere sotto le insegne di Gesù povero.
La gloria di un vescovo è essere al servizio dei poveri, la vergogna del sacerdozio è invece interessarsi delle ricchezze…
Evita di assiderti alla mensa dei grandi del mondo, non riceverli neppure con facilità alla tua. La livrea del console stona alla porta di colui che è il servo di un Dio povero e appeso alla croce.
Mi dirai che fai questo per meglio servire i poveri con l’appoggio dei potenti. Sbagli. Anche presso i mondani ha più credito il prete virtuoso che quello ricco”. (dalle lettere)

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SANT’AGOSTINO
(+430)

Il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri.
Possedere il superfluo è quindi possedere il bene degli altri
”.

“Ognuno ha il suo peso. Tu sei ricco, un altro è povero. Il peso della povertà è il non avere, il peso della ricchezza è l’avere più del necessario.
Ognuno aiuti a portare il peso dell’altro. Porta concretamente il peso del povero, cioè il non avere, ed egli porterà con te il troppo avere”.

“O povero ricco, perché hai tanti desideri? Tu non desideri che saziare l’avarizia, ossia una cupidigia vana, sciocca, turpe. E non vedi che l’avarizia ti opprime e ti schiaccia, mentre tu non la potrai mai saziare”.

“E’ un dovere, nel giorno di digiuno, fare elemosina. Che cosa vi è infatti di più giusto che dispensare in opere si misericordia ciò che si risparmia per astinenza? E che cosa vi è di più ingiusto che far servire a una sporca avarizia le restrizioni del digiuno?”.

“Il vero sacrificio del cristiano non è il fumo dell’incenso o il sangue degli animali, ma l’elemosina che si dà ai poveri. Con questo sacrificio si placa il Signore e ci sono perdonati i nostri peccati”. (dalle omelie)

“Non lasciarti troppo impressionare dagli scandali. Il Signore stesso ci ha detto: “Guai al mondo a causa degli scandali; ma è opportuno che ci siano”.
E chi sono gli autori degli scandali se non quelli cui accenna l’apostolo san Paolo quando scrive: “Essi fanno i loro interessi e non quelli di Gesù Cristo”?
Nella Chiesa ci sono pastori buoni che pensano al bene delle anime e pastori cattivi che non pensano che alla ricchezza e al privilegio. Il Signore, parlando dei cattivi pastori, ha detto: "Fate quel che dicono, ma non quello che fanno, perché non fanno quello che dicono”. (a Felicia)

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SAN PIETRO CRISOLOGO
(+450)

“Che dire se nel giorno di Natale il povero soffre?
Il popolo ebreo celebrò sempre le sue feste pagando la decima parte dei suoi averi. E noi cristiani che non vogliamo dare neppure la centesima parte delle nostre sostanze… No, fratelli, non dico questo per demagogia: è il mio dolore che parla.
Io soffro tremendamente quando leggo che i magi hanno ricoperto d’oro la culla di Cristo e vedo poi che i cristiani lasciano spoglio l’altare del corpo di Cristo che sono i poveri.
Nessuno dica di non avere. Dio chiede quello che si ha, non quello che non si ha”. (dalle omelie)
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SAN GREGORIO MAGNO
(+604)

“Quale responsabilità ricevere senza fatica il premio della fatica! Noi viviamo delle offerte dei fedeli, ma non ci adoperiamo sul serio per le loro anime. Ci serviamo di quanto i fedeli ci hanno offerto in riparazione dei loro peccati, ma non ci affatichiamo abbastanza a pregare e a predicare contro i peccati.
E’ raro il caso che si rimproveri apertamente qualcuno per le sue colpe, anzi, se si tratta di un ricco, si arriva perfino a lodare la sua colpa, per non perdere il dono che ci dava. E questo è molto grave. Ricordiamo quanto dice Osea di alcuni: “Campano sui peccati del mio popolo”. Perché dice così? Perché alimentano le colpe dei peccatori, per non perdere i doni”. (Omelia ai vescovi){mospagebreak}

La Chiesa

Cosa la Chiesa può sopportare e cosa non può sopportare

Chi capisce come dev'essere presente la Chiesa in questa svolta della storia capisce anche ciò che la sua carità può sopportare e ciò che non può sopportare proprio in nome della stessa carità. Ripeto: in nome della carità, poiché la rivoluzione cristiana, l'unica che può essere giustificata anche davanti alla storia, più che da diritti conculcati o offesi nasce da doveri suggeriti e imposti al nostro cuore dalla carità che ci lega al nostro prossimo. Chi più ama è potenzialmente l'unico e vero rivoluzionario.

La Chiesa sopporta:

 * il male che le fanno i suoi nemici, che, per quanto si allontanino e la rinneghino, portano sempre l'incancellabile volto di figli, e di figli tanto più cari quanto più cresce il loro perdimento;
   
    * di essere spogliata di ogni bene materiale e di ogni privilegio concessole più o meno disinteressatamente dagli uomini;

    * di vedere le sue basiliche e le sue chiese distrutte, chiusi i suoi conventi e le sue scuole, poiché è già "l'ora che né in Gerusalemme né su questo monte i veri adoratori adorano il Padre in spirito e in verità";

    * le persecuzioni aperte e subdole, le calunnie e le blandizie, i vituperi e i panegirici menzogneri;

    * gli erranti e in un certo senso perfino l'errore quando esso non può venire colpito senza offesa mortale all' anima dell'errante;

    * di essere misconosciuta nella sua carità, colmata di obbrobrio per colpe non sue;

    * il disonore che le viene dalla vita indegna dei suoi figlioli stessi, i loro rinnegamenti e i loro tradimenti;

    * d'essere baciata da un Giuda, rinnegata da un Pietro.

La Chiesa non può sopportare:

    * che vengano negate o diminuite o falsate le verità che essa ha il dovere di custodire e che costituiscono il patrimonio dell'umanità redenta;

    * che sia cancellato dalla storia e dal cuore il senso della giustizia che è il patrimonio di tutti, ma in modo particolare dei poveri;

    * la libertà e la dignità della persona e della coscienza, che sono il nostro divino respiro. Mentre sopporta senza aprir bocca di essere spogliata e tiranneggiata in qualsiasi modo, non può sopportare che vengano spogliati, conculcati, manomessi i diritti dei poveri e dei deboli, individui, città, nazioni e popoli, cristiani e non cristiani. E nella sua difesa materna e invitta è tanto più grande quanto più la sua tutela si estende alla plebs infedele, egualmente santa. Alcuni gesti di munifica protezione di Pio XII, in favore di ebrei perseguitati, hanno commosso e sollevato l'ammirazione del mondo;

    * il potente che abusa della propria forza per opprimere i deboli;

    * il sapiente che abusa della propria intelligenza per circuire e trarre in inganno l'ignorante;

    * il ricco che abusa delle proprie ricchezze per angariare e affamare il popolo.

Vi sono quindi dei limiti nella sopportazione della Chiesa, e questi limiti vengono non dai raffreddamenti ma dai colmi della sua carità. Ciò che è abominevole per il Signore lo è pure per la sua Chiesa; la quale, senza parteggiare, non può trattare alla stessa stregua la vittima e il carnefice, l'oppressore e l'oppresso.

Chi fermerebbe la mano del malvagio, chi solleverebbe il cuore abbandonato dell'oppresso se un'egual voce raccogliesse il grido dell'uno e il gemito dell'altro?

Sarebbe un delitto il pensare, per il fatto che la Chiesa predica la pazienza ed esalta l'infinito valore del dolore, specialmente del dolore innocente, ch'essa accettasse le tristezze dei prepotenti come un mezzo provvidenziale per moltiplicare i meriti sovrannaturali dei buoni. Purtroppo il nostro linguaggio ascetico, sprovveduto di ampiezza e d'audacia mistica, può indurre un profano in apprezzamenti non solo sproporzionati ma contrari al buon senso.

La sofferenza ben sopportata mi redime e redime, ma non fa diventar buona l'ingiustizia di chi ha pesato su di me. E una bontà conseguente, che non ha nulla da spartire con la causa ingiusta che ha generato la mia sofferenza. Soffrendo bene l'ingiustizia, creo una corrente di bontà: ma non per questo gli uomini sono dispensati dal fermare con tutte le forze la sorgente di male che continua a generare l'errore.

Perché c'è uno che espia in modo edificante, io non sono scusato di lasciar fare e di lasciar passare. Il soffrire non è un bene in sé e se il Signore ci aiuta a cavare il bene dal male non vuole che noi chiamiamo bene il male, il quale va tolto di mezzo nei limiti della nostra responsabilità e della nostra carità. Il perdono stesso delle offese va all'uomo, non all'azione di lui, la quale rimane giudicata anche dopo il perdono, anzi giudicata veramente e irrevocabilmente solo dopo il perdono.

Risposta ad un aviatore [1941], ora in La chiesa, il fascismo, la guerra, Vallecchi, Firenze 1966{mospagebreak}

 
I compiti del laicato

Occorre salvare la parrocchia dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti. Per uscirne, ci vuole un laicato che veramente collabori e dei sacerdoti pronti ad accoglierne cordialmente l'opera rispettando quella felice, per quanto incompleta struttura spirituale, che fa il laicato capace d'operare religiosamente nell'ambiente in cui vive. Un grave pericolo è la clericalizzazione del laicato cattolico, cioè la sostituzione della mentalità propria del sacerdote a quella del laico, creando un duplicato d'assai scarso rendimento.

Non devesi confondere l'anima col metodo dell'apostolato. Il laico deve agire con la sua testa e con quel metodo che diventa fecondo perché legge e interpreta il bisogno religioso del proprio ambiente. Deformandolo, sia pure con l'intento di perfezionarlo, gli si toglie ogni efficacia là dove la Chiesa gli affida la missione. Il pericolo non è immaginario. In qualche parrocchia sono gli elementi meno vivi, meno intelligenti, meno simpatici che vengono scelti a collaboratori, purché docili e maneggevoli.

"Gli altri non si prestano". Non è sempre vero oppure l'accusa non è vera nel senso che le si vuol dare. In troppe parrocchie si ha paura dell'intelligenza, la quale vede con occhi propri, pensa con la propria testa e parla un suo linguaggio. I parrocchiani che dicono sempre di sì, che son sempre disposti ad applaudire, festeggiare e... mormorare non sono a lungo andare né simpatici né utili. Il figliuolo che nella parabola dice di no e poi va è molto più apostolo del fratello che accetta e non fa.

Il professionismo, sottospecie di fariseismo, sta in agguato anche nella parrocchia, mentre il laicismo - pensiero e vita staccati da ogni senso religioso - può essere superato soltanto da un audace laicato cattolico, al quale spetta, come compito principale e urgente, di ricreare cristianamente la vita della parrocchia senza portarla fuori dalla realtà e senza imporle delle mutilazioni in ciò ch'essa possiede di buono, di vero, di grande e di bello.

Bisogna ritrovare il coraggio di porsi in concreto i veri problemi dell'apostolato parrocchiale. Molti temono che la discussione prenda la mano all'azione. In certi spiriti superficiali purtroppo è possibile. Ma nei cuori profondi che vivono con pura passione questa grande ora cristiana (cuori che sentono in tal maniera sono legioni dentro e ai margini della Chiesa), la discussione, anche se vivace, è sempre una protesta d'amore e un documento di vita.

Lettera sulla parrocchia [1937], ora in Per una Chiesa in stato di missione, Editrice Esperienze, Fossano 1999{mospagebreak}

La parrocchia

La stragrande maggioranza dei preti italiani si trova a disagio nello schema seminor-ghese della sua giornata e chiede di uscirne per ritrovarsi vicino al popolo di Dio e parlargli a cuore a cuore. L'impresa è così bella che non oso nemmeno fissarla in volto. Sono troppo stanco! Anche il sogno stanca. Ma come spaccare diversamente la durissima crosta delle diffidenze, dei dubbi, dei pregiudizi, delle stanchezze, dei disamoramenti, che circondano e accompagnano così spesso il nostro lavoro parrocchiale? Come richiamare i motivi eterni delle beatitudini evangeliche, se non ci buttiamo perdutamente sulla strada di esse?

"Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri".
"Non prendete né bisaccia, né mantello, né oro, né argento, né bastone, né spada…".

Questo parlare del Signore, per noi, non è consiglio, ma comando. Quel giorno che non avremo più entrate né bilanci, quando saremo un po' come gli uccelli dell'aria e i gigli del campo, lo scandalo porterà frutto.

Questo nostro povero mondo materialista e calcolatore non può essere salvato sul piano del calcolo e della quantità. Dio ha sempre scelto le cose che non sono per confondere quelle che credono di essere; gli ignoranti per confondere i sapienti; i folli per confondere i prudenti; i poveri per confondere i ricchi. Forse quando ho incominciato a scrivere non volevo arrivare fin qui. Ma col Vangelo in mano si sa dove s'incomincia e non si sa dove si finisce.

Il Vangelo è novità e sorpresa. La strada continua per chi ha osato aprire il libro, e dire: "Ti seguiremo ovunque andrai". Ma "gli uccelli dell'aria hanno un nido, le volpi una tana: il Figlio dell'uomo non ha ove posare il capo".

La Provvidenza sta tagliandoci gli ormeggi: direi che c'impedisce di fare l'economo, l'amministratore, mestieri che hanno troppa parentela col mercenario. Il denaro non risponde più al prete, ci disobbedisce: solo la povertà, ma una povertà accolta con passione, ci è rimasta fedele. In terra cristiana, il povero è la più onorevole professione; per un sacerdote, è la vocazione.

Chiudo, benché il discorso sia appena avviato. È bene che il dibattito resti sui punti fondamentali. Il mio non è che un invito. Indicare dei rimedi e delle strade è molto e niente, se i rimedi non vengono bene applicati, se le strade non vengono camminate per arrivare, ma solo per dire che ci muoviamo.

Il professionismo, sottospecie di fariseismo, sta in agguato anche nella parrocchia; mentre il laicismo - pensiero e vita staccati da ogni senso religioso - può essere superato soltanto da un audace laicato cattolico al quale spetta come compito principale e urgente di ricreare cristianamente la vita della parrocchia senza portarla fuori dalla realtà e senza imporle delle mutilazioni in ciò che essa possiede di buono, di grande e di bello.

"La parrocchia rimane la comunità base della Chiesa, a patto che si faccia più acco-gliente e più adatta" (card. Suhard).

Bisogna ritrovare il coraggio di porsi in concreto i veri problemi dell'apostolato par-rocchiale. Molti temono la discussione. La discussione, nei cuori profondi, anche se vivace e ardita, è sempre una protesta d'amore e un documento di vita. E la Chiesa, oggi, ha bisogno di gente consapevole, penitente e operosa, fatta così.

La parrocchia [1957], ora in Per una Chiesa in stato di missione, Editrice Esperienze, Fossano 1999{mospagebreak} 

Il coraggio di guardare avanti

Come dev'essere il mondo, che il prodigo porta nella casa, perché venga consustanziato dalla grazia? Non contano le previsioni, come non conta la paura. La novità non la si deve descrivere né temere. Ciò che di questo mondo deve finire, che urge far finire, finirà, quando e come non importa. Importa non sgomentarci di nessun crollo. Domani c’è ancora il sole. I giorni sono giorni, le stagioni stagioni… e si rincorrono quasi a ripetersi. Ma ognuna ha il suo colore e il suo profumo, la sua gioia e la sua pena. Tutto s'assomiglia e tutto è così diverso che la meraviglia ci gonfia ogni giorno il cuore e gli occhi.

Ogni generazione, anche la nostra, ha le sue strade di perdimento e di salvezza, una sua maniera di cercare. La ricerca può anche degenerare e il pericolo è tutt'altro che ipotetico. Sotto i nostri occhi si svolgono avvenimenti così spaventosi che la ragione ne è sconvolta al pari del cuore. Ora, se lungo questa strada non incontreremo nessuno che faccia da testimonio a Cristo, lo smarrimento sarà anche maggiore. Testimoniare non vuol dire predicare il ritorno sulle strade di una volta. La strada della salvezza dev'essere davanti e continuare. Una strada, che ha servito un tempo, è rispettabile: ma se adesso non conduce più, ci dev'essere qualche cosa che non va bene, almeno per noi.

E allora, invece di perdere il tempo in discussioni, proviamo, a fatti, che Cristo è il Signore di tutti i tempi, anche dei nostri, e che egli ci guida e che, ancora una volta, è davanti, perché chi guida non può essere che davanti, oltre ogni nostro sforzo. Finora abbiamo dimostrato al nostro mondo più sollecitudine che fiducia, più tono di tutela che di salvezza. La tutela non è mai amabile e pochi sono disposti a sopportarla. Il nostro mondo sopporta piuttosto la servitù, qualora la giustifichi un sogno di potenza e di grandezza.

La cristianità di ieri ebbe epoche meravigliose, che fermano ancora la nostra ammira-zione: ma se ci adoperassimo a ripristinarle oggi, il pugno di lievito diventerebbe un cippo funerario. Il passato ci apprende come s'incarni nella storia l'ideale cristiano, ma non a rifare la storia sulla stessa trama. Molti sbandamenti odierni non si sarebbero avverati se non avessimo guardato troppo indietro.

"Io non reputo d'essere arrivato, ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che mi stanno davanti, proseguo la strada verso la meta". Nel mezzo della rivoluzione più radicale della storia, non c'è che il metodo e il proposito di san Paolo che possono interpretare il nostro impegno. Mistica del dovere, mistica del super-uomo, mistica dell'umanesimo… medievalismo, francescanesimo, il demiurgo… sono dighe di fortuna che non reggono all'urto dei popoli in marcia.

Ci vuole la novità evangelica, servita da una fede che accetti tutti i rischi dell'andare avanti. La redenzione non ha né surrogati né mezze vie. (1943)

Impegno con Cristo [1943], Edizioni Dehoniane, Bologna 1979{mospagebreak}

Rivoluzione cristiana

Non vogliamo una rivoluzione che invidi, ma una rivoluzione che ami: non vogliamo portar via a nessuno il suo piccolo star bene, vogliamo solo impedirgli che il suo piccolo star bene determini lo star male di molti. Vogliamo una rivoluzione che sia la manifestazione liberatrice ed educatrice della nostra pietà e della nostra carità.

Il suo punto di partenza non può essere quindi che interiore. Mi dichiaro contro di me: se no, il mio pormi contro gli altri, che fanno l'ingiustizia, avrebbe un significato farisaico e non cambierebbe nulla. Non mi nascondo: mi metto in prima fila, al muro, se occorre: altrimenti sarei un rivoluzionario di mestiere. Una rivoluzione che non mirasse alla piena libertà dell'uomo e alla sua divina dignità sarebbe insopportabile […].

La rivoluzione cristiana, a differenza degli altri movimenti rivoluzionari quasi sempre sporadici e contingenti, ha una tradizione e una continuità, un passato e un domani. Un motivo d'insoddisfazione, che costituisce non la colpa ma la beatitudine dell'uomo che ne è travagliato, ispira e guida la rivoluzione cristiana, che ha la sua storia nella storia della cristianità. Ma non tutta la storia della cristianità è una esperienza rivoluzionaria nel senso vero che deve avere per noi questa parola; quindi, la storia della cristianità va intelligentemente ripulita di quelle scorie e di quegli arresti che, ragionevolmente, scandalizzano quanti non riescono a riallacciarsi, attraverso i rivoli incontaminati di ogni tempo, alla purissima e viva sorgente del Vangelo e della storia della Chiesa.

Anche oggi la forza rivoluzionaria cristiana è una divina capacità seminale, più che una serie logica e ben costruita di fatti e di conquiste […]. La conclusione è chiara: abbiamo una tradizione, ma non tutto il passato è il nostro passato; abbiamo una tradizione, ma non tutta la tradizione che passa sotto il nome di cristiana è la nostra tradizione. Siamo la novità, anche se portiamo sulle spalle duemila anni di storia. Il Vangelo è la novità.

Rivoluzione cristiana, Edizioni Dehoniane, Bologna 1995.{mospagebreak}

Tu non uccidere

" La nonviolenza non va confusa con la non-resistenza. Nonviolenza è come dire: "no" alla violenza. E’ un rifiuto attivo del male, non un’accettazione passiva. La pigrizia, l’indifferenza, la neutralità non trovano posto nella nonviolenza, dato che alla violenza non dicono né si né no. La nonviolenza si manifesta nell’impegnarsi a fondo.

Ogni violento presume di essere coraggioso, ma la maggior parte dei violenti sono dei vili. Il nonviolento, invece, nel suo rifiuto a difendersi è sempre un coraggioso. Lo scaltro, che adula il tiranno per trarne profitto e protezione, o per tendergli una trappola, non rifiuta la violenza bensì gioca con essa al più furbo. La scaltrezza è violenza, doppiata di vigliaccheria ed imbottita di tradimento. La nonviolenza è al polo opposto della scaltrezza: è un atto di fiducia dell’uomo e di fede in Dio, è una testimonianza resa alla verità fino alla conversione del nemico.

Gesù ha annunciato con insistenza e precisione la regola della nonviolenza: "A chi ti percuote la guancia destra porgi la sinistra; a chi ti muoverà lite per toglierti la tunica lascia anche il mantello; se alcuno ti obbligherà a correre per un miglio seguilo per due" (Mt 5,40-41). (…)

La nonviolenza assume un valore umano inestimabile solo quando diventa resistenza al male sul piano spirituale. Lo Spirito di pace e di giustizia, lo spirito di verità e di giustizia sono un unico e medesimo spirito. (…) E allora la sua resistenza assume immediatamente questi aspetti incomprensibili:

- dichiarazione di condanna del male;

- opposizione al male, non agli uomini che lo commettono;

- disposizione a pagare, e non a far pagare la nostra condanna

e la nostra opposizione al male.

Spesso, più che al male, ci si oppone agli uomini che fanno il male, i quali sono degli infelici ancor prima di essere dei colpevoli. Ma chi è puro e veramente caritatevole nelle intenzioni e nei movimenti delle proprie azioni?

Il nonviolento rifiuta di portarsi sul piano del violento, costringendo piuttosto questi a salire sul suo e a combattere con la forza l’idea. La rotta del realismo politico incomincia quando il violento è obbligato a scoprirsi qual è, ed è allora che si butta massicciamente e da persecutore contro lo spirito. Tale comportamento fa cadere la maschera idealistica dell’egoismo, che è il vero movente di ogni violenza. Una volta caduta la maschera, la vittoria dello spirito albeggia, sia pure lontana.

La nonviolenza è la cosa più nuova e la più antica; la più tradizionale e la più sovversiva; la più santa e la più umile; la più sottile e difficile e la più semplice, la più dolce e la più esigente; la più audace e al più savia, la più profonda e la più ingenua. Concilia i contrari nel principio; e perciò riconcilia gli uomini nella pratica".

" La pace cristiana non è regolata dal ‘do ut des’: se tu sarai pacifico con me, io lo sarò con te. Il cristiano procede per altra strada e dietro altra logica: "Udiste che fu detto: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico". Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e manda la pioggia ai giusti e agli iniqui. Perché, se amate quelli che vi amano, qual merito ne avete?  Non fanno lo stesso i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate da più degli altri? Non usano lo stesso i gentili? Siate dunque perfetti com’è perfetto il vostro Padre celeste" (Mt 5,43-48).

Un cristiano deve fare la pace anche quando venissero meno "le ragioni di pace". Al pari della fede, della speranza e della carità, la pace è vera beatitudine quando non cè tornaconto né convenienza né interesse di pace, vale a dire quando incomincia a parere una follia davanti al buon senso della gente "ragionevole".

La contabilità cristiana conosce la sola partita del dare: se vi aggiungiamo lavere, non ci dobbiamo sorprendere se rivedremo sul tappeto le ragioni del lupo, il quale, essendo a monte del fiume, trovava che lagnello gli intorbidiva le acque.Se gli altri odiano, non è una ragione perché odiamo anche noi. Si vince il male con il bene; la malattia con la salute; si oppone allostilità la carità: questo è il comandamento di Dio. Gli altri sono comandamenti di uomini, e uomini senza Dio, anche se fanno salamelecchi al prete.

Quando ci si giustifica delle ingiurie nostre col fatto delle ingiurie altrui, decadiamo dal cristianesimo: rendiamo nulla lincarnazione con la passione e la resurrezione di cristo. Ad amare i soli amici erano buoni anche i pagani.

La pace comincia in noi in me e da me, da te, da ciascuno come al guerra. Ma come si può arrivare alla pace se si seguita a coltivare, quasi orto per ortaggi, questa aspirazione manichea dellumanità e della spiritualità; se si seguita ad alimentare una polemica fatta di apriorismi e ingiurie, deformazioni e repulse; se si aumenta ogni giorno più la disparità economica tra chi spedisce lingotti doro allestero e chi vive nelle baracche e intristisce nella disoccupazione; se si insiste a vedere nel fratello insignito di un diverso distintivo politico un cane da abbattere, un rivale da sopprimere, un nemico da odiare?

Quanti cristiani, per assicurarsi un diritto allodio, si tramutano in farisei che non vedono fratelli, ma pubblicani, ma samaritani, ma pagani. Come se Gesù non fosse mai venuto e non fosse morto e risorto!

(Tu non uccidere, 1955){mospagebreak}

Commento a "Tu non uccidere"

Pubblichiamo un pensiero di Monsignor Loris Capovilla, segretario di Papa Giovanni XXIII, sul libro di don Primo Mazzolari "Tu non uccidere".

Non c’è pace senza disarmo. Non c’è disarmo se non tacciono i cannoni, se non si smontano, oltre alle rampe missilistiche, anche gli spiriti. La pace non si regge sull’equilibrio degli armamenti, ma solo sulla vicendevole fiducia, sul disarmo dei cuori (cfr. Giovanni XXIII, Pacem in Terris, n. 113).

Oggi, a più di cento anni dalla nascita di don Primo Mazzolari, innanzi alla sua tomba di testimone e costruttore di «pace con giustizia», nell’amore, risento nel profondo dell’animo l’interrogativo di Hans Fallada: « Kleiner Mann, was nun? » (« E adesso, pover’uomo? »). I protagonisti dell’idillio sognato da Fallada trovano la forza liberatrice da umilianti condizionamenti e dall’emarginazione nell’amore semplice e purificatore. È ciò cui aspirano gli onesti di tutto il mondo, i poveri e gli emarginati: riconoscimento della propria dignità, rispetto dei diritti inalienabili della persona, solidarietà universale.

È passato poco tempo dal giorno in cui, nelle terre in cui si consumava il dramma del Medio Oriente, le luci della ribalta si sono spente. La guerra ha vinto. La pace ferita attende il taumaturgo che la rimetta in piedi.

Ha detto, quel giorno, l’arcivescovo di Ravenna, mons. Tonini: «Sono felice che tutto finisca finalmente, non solo perché cesserà il massacro di vite umane, ma perché la si smetterà anche con questa estasi dell’arrivano i nostri ». Egli vorrebbe che la fantasia della gente fosse ripulita da tutte le visioni guerresche, vorrebbe che ne rimanesse una sola: «Quel soldato iracheno prigioniero, inginocchiato e impaurito sotto la minaccia del mitra, visto in televisione, perché quella immagine suscita fratellanza e partecipazione

Noi abbiamo appreso dal messaggio cristiano come camminare, dove andare, cosa portare con noi. Cristo ci ha autorizzati ad operare esclusivamente con la forza della Parola e dell’Amore.

Preoccupati di non soffiare ora sul fuoco di un più esteso conflitto che ci terrorizza: Nord-Sud, e, Dio non voglia: Mondo cristiano-Mondo musulmano, abbandonati idoli ed illusioni, menzogne e compromessi, denunciati interessi inconfessabili, siamo persuasi che solo dinanzi ai testimoni, come i papi di questo secolo, come i Gandhi, i La Pira, i Mazzolari, i Martin Luther King, « la morte ha paura » (David Turoldo), la guerra ha paura, la prepotenza ha paura.

Nelle giornate più dure della crisi e della guerra nel Golfo, taluni hanno riesumato il complimento « utili idioti», talaltri avrebbero voluto relegarci in sagrestia e proibirci addirittura di citare Newman, il maestro della «libertà di coscienza».

«Nostro Signore non ci proibì di difenderci, ma ci proibì certi modi di difesa. Inutile dire che ci proibì tutti i mezzi peccaminosi. Ci proibì di restituire schiaffo per schiaffa Avete sentito dire: Occhio per occhio, dente per dente; ma io vi dico di non resistere al male.

Così ai servi di Cristo è proibito difendersi con la violenza».

Commentava Mazzolari: «Non si rinuncia a resistere, si sceglie un altro modo di resistere, che può parere estremamente folle, qualora si dimentichi, o non si tenga abbastanza conto, dell’orrendo costo della guerra, la quale non garantisce neppure la difesa di ciò che vogliamo con essa difendere» (Tu non uccidere, 1955).

In quelle lunghe settimane di passione, eco fedele e sollecita della voce del Papa, L’Osservatore romano, come già nelle buie ore degli anni quaranta, si è dissociato « dal coro di consensi bellici » (20 gennaio 1991), ha compiuto un’eccellente catechesi, ha spronato all’audacia dell’amore, ha protestato contro « la cultura bellica, germe di morte», ha scongiurato i responsabili delle nazioni ad intraprendere « la via del negoziato, certo più difficile della via delle anni».

A suo tempo, in vista della pace sociale e tra le nazioni, Mazzolari conchiudeva il suo lucido carme Tu non uccidere con appassionato appello alla ragione e alla fede

«Di fronte alla criminale resistenza di molti benpensanti, non è facile persuadere la povera gente che la giustizia possa arrivare senza violenza. Se vogliamo ristabilire la fiducia degli oppressi e dei diseredati nella pace cristiana, dobbiamo, prima che sia troppo tardi, dimostrare che non è necessario far saltare con la dinamite la corteccia degli egoismi, i quali impediscono ai poveri di vivere e di far valere democraticamente i loro diritti. La pace non sarà mai sicura e tranquilla fino a quando i poveri, per fare un passo in difesa del loro pane e della loro dignità, saranno lasciati nella diabolica tentazione di dover rigare di sangue la loro strada. Senza giustizia non c’è pace. Frutto della giustizia è la pace: "Opus justitiae pax».

Lo riaffermava Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio. L’ha ripetuto l’8 febbraio scorso Giovanni Paolo II: « La società ritroverà la pace, tanto auspicata, solo se si eliminano le cause del disagio e dell’ingiustizia».

Suona l’ora dell’obiezione di coscienza, individuata come servizio e profezia. Essa invita i cristiani più sensibili alle urgenze evangeliche e gli scienziati ad entrare nell’area del dialogo e delle trattative. Tutti gli onesti sono spaventati innanzi ai progressi compiuti dalla microelettronica piegata alle esigenze e alle pretese della guerra. Torna attuale il severo monito di Giovanni Paolo II agli scienziati:

«Verità, libertà, giustizia, amore (cfr. Pacem in terris) siano i fondamentali capisaldi della vostra generosa scelta di una scienza che edifica la pace. Questi quattro valori, capisaldi della scienza e della civile convivenza, devono essere alla base di quell’universale appello di scienziati, uomini di cultura, cittadini del mondo, che la Pontificia Accademia delle Scienze, con la mia piena e convinta approvazione, vuole lanciare al mondo per la riconciliazione dei popoli, per il successo dell’unica guerra che deve essere combattuta, quella contro la fame, la malattia, la morte di milioni di esseri umani che potrebbero essere salvati... Assumetevi anche voi le vostre responsabilità, consapevolmente» (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI-2, 1983).

Ancora un ricorda Ho letto, nei «giorni del Golfo», ritrasmessa da un’antenna non sospetta di arrendevolezze al Vaticano, un’intervista concessa da Massimo Cacciari a Marco Sappini: « Ha ragione il Papa e solo il Papa - diceva Cacciari -. Io sento che l’appello di Wojtyla parla alla mia coscienza e alla mia intelligenza. Mi interroga e mi sfida di più. Rimanda tutti alla comprensione dell’altro alla costruzione di una cultura davvero ecumenica » (L’Unità, 27 febbraio 1991, p. 8).

La «fontana del villaggio» (Giovanni XXIII), postosi decisamente a servizio delle nazioni, ha dato acqua refrigerante lungo tutto il corso di questo secolo XX. A questa sorgente vogliamo dissetarci. Vogliamo rinunciare all’arroganza ed agli egoismi per entrare nell’area della settima beatitudine, pur consapevoli di non essere sovente costruttori di pace, perché non siamo in pace né con Dio, né con noi stessi, né col nostro prossimo.

Senza la riconsiderazione e la confessione delle colpe, dei silenzi, delle connivenze di ieri, il deserto non tornerà a fiorire, l’Onu non sarà mai la casa di tutti: «La via della pace richiede un cammino meno glorioso, ma sostanzialmente più eroico ed efficace del cammino tracciato dalla via della guerra » (LOsservatore romano, 25/26 febbraio 1991).

Andiamo, dunque, a rileggere assieme, nelle pagine che seguono, la « lezione » di Mazzolari:
« Se la colpa di un mondo senza pace è di tutti, e dei cristiani in modo particolare, l’opera della pace non può essere che un’opera comune, nella quale i cristiani devono avere un compito precipuo, come precipua è la loro responsabilità. Ogni sforzo verso la pace ha una sua validità: chiunque vi si provi dev’essere guardato con fiducia e benevolenza. Il politico può far delle cernite, porre delle pregiudiziali: il cristiano mai.

Il cristiano non può rifiutare che il male, per comporre cattolicamente ogni cosa buona».


†Loris FRANCESCO Capovilla{mospagebreak}

I lontani

Il titolo mi piace. Sa di nostalgia: di ponti, mantenuti almeno da una parte: di desideri taciuti: d’incontri o di ritorni auspicati, cercati, preparati nella preghiera nella carità del cuore e dell’intelligenza. Sa di esilio. E poiché siamo un po’ tutti esuli, poiché ogni giorno ognuno è in tentazione di perdere o di far perdere la Casa del tempo, introduzione a quella dell’eternità: per tale accorato timore, per tale fraterna sollecitudine, siamo vicini ai lontani, così vicini che essi sono un po’ noi, sono noi. Ci si salva salvando: si rimane nella chiesa se si ha il coraggio di uscirne per ricondurvi il prodigo; si è pastori a patto di ascoltare il lamento della pecora perduta e di lasciare le sicure per cercare, ritrovare, riportare, sulle spalle e sul cuore, proprio la perduta. 

Il problema dei lontani

Noto con piacere che ovunque si risveglia il problema dei lontani: che la sollecitudine di essi cresce dove è già desta, con tentativi di ricerca sulle maniere più convenienti per accostarli, interessarli, intrattenerli, ritrovarli. Non è giusto dire son pochi coloro che guardano oltre la staccionata – se si continua l’immagine evangelica - oltre gli spalti – se si pensa la chiesa come una città munita -. Mi sembra più giusto dire: è un po’ poco il far lamento, un po’ poco il deprecare: un po’ poco perfino la preghiera, se essa non è l’introduzione a quell’attività illuminata, che, aiutata dalla grazia, può colmare le distanze create, a volte, da un reciproco allontanarsi. Accade, purtroppo assai di frequente, che uno vada tanto lontano perché qualcun altro s’è spostato in senso opposto. Allora sembra anche più difficile attraversare questa terra di nessuno, la quale invece, è la terra più nostra, santificata dalle lacrime più ineffabili.  

Chi è "lontano"

"Lontano" non è soltanto colui che, andandosene, ha sbatacchiato l’uscio di casa, e non s’è neppure voltato indietro, rotto i ponti e negato recisamente, audacemente. Di costoro ce n’erano di più qualche anno fa, anche nei paesi. L’aria favoriva le rotture brusche, drammatiche. Il "transfuga" s’accampava di fronte alla chiesa e le moveva guerra. La "città dell’uomo" contro la "città di Dio". La "lontananza" a quei tempi una regione ben definita, "un paese". Adesso quasi non esiste più nello spazio; è l’assenza di Qualcuno, uno stato d’animo. Uno stato d’animo non è definibile né numerabile. Da una varietà senza numero d’impressioni e sentimenti, ne vien fuori, non sempre logicamente avvertita ma spiritualmente sofferta, questa conclusione: non sono più sicuro della mia fede. Oggi, la crisi religiosa ha perduto le sue forme classiche. Una volta, il travaglio interiore, pro o contro, si risolveva in tempo relativamente breve. Di rado si faceva cronico. Adesso è il permanere di uno stato d’incertezza e d’indifferenza, la quale è come un senso di qualche cosa di superato. Vano quindi il crucciarsi, sia per ritrovare come per combattere.

L’irreligiosità contemporanea è di tipo affatto diverso da quella che caratterizza la fine dell’ottocento e il primo decennio del nostro secolo. Quella, era una negazione recisa, ragionata, battagliera. Scegliere era un dovere comandato dall’intelligenza e dalla coscienza. Il dilemma oggi non esiste. C’è invece la scettica inconsistenza di chi sente di non aver più la fede di ieri, che sa di non avere ancora trovato, che dubita di trovare. Donde un certo rispetto per il passato che ha una scia di bontà, d’arte, di poesia. I "senza Dio" sono i continuatori di ieri. Ma quello – a mio avviso – nonostante l’organizzazione e la virulenza dei mezzi, è un movimento senza domani. L’animo dei nostri contemporanei ha una diversa inclinazione. Su di essa conviene porre l’occhio, la mente, il cuore.

 Non cataloghiamo i lontani

C’è la tendenza di catalogare anche le crisi religiose e di fissarne il tipo, a seconda del prevalere di questo o di quell’elemento. Si hanno così degli allontanamenti, ove l’elemento affettivo o morale sovrabbonda: altri, ove appare dominante il raziocinio: in altri i motivi colturali, scientifici o sociali. Talora è l’esempio di qualche personalità, il clima storico. In qualcuno, l’allontanarsi è un fatto di piena e sofferta consapevolezza: per molti, di passività e di stanchezza. Ogni epoca poi, dà un colore suo proprio alla crisi religiosa, la quale, pur rimanendo individuale, assume delle caratteristiche generali, che incorniciano il singolo dramma e gli danno uno sfondo comune. Molti studiosi si fermano a quest’ultimo, come bersaglio, meno imbarazzante e di più facile rilievo; poiché il generalizzare è un comodo mezzo per scordare la patetica suggestione che dà una sofferenza spirituale se guardata fuori dall’astratto. Le dissertazioni sui mali di un’epoca non fecero progredire la medicina, mentre le esperienze personali, pur impedendo al momento di far scienza, aiutarono assai la cura e la redenzione degli spiriti malati.

 Dell’animo di colui che va lontano

Un conto son le cause della lontananza, un conto l’animo di colui che va lontano. Le cause vi son legate, ma non fanno l’animo, cioè quella particolare disposizione interiore che è il vero movente. Uno si muove dal di dentro, sia che torni, sia che si allontani. Io credo che ben pochi sanno d’andar lontano. Come c’è un’anima di verità in ogni essere, così c’è un’anima di buona fede in ogni errante. Ci si sbaglia o nei riguardi dell’oggetto o nei modi di raggiungerlo: ma l’intenzione può anche essere retta. Ognuno crede di avere meglio e di più. Nessuno si avvia fuori di casa con la certezza di fare una perdita. "Mercator pessimus" , come Giuda, ma con l’illusione e il desiderio di fare un guadagno. Il peccato originale, come insegna la chiesa, non ci guasta del tutto: c’è un punto immacolato in ognuno, anche se difeso dall’ignoranza. – Padre perdona loro perché non sanno … Se uno fa, sapendo proprio quello che si fa, pecca contro la luce. Ma i più sono degli erranti, cioè gente che va fuori strada credendo di non sbagliare. – Ma l’abbiamo avvertito, fatto ragionare … - Sta bene. Ma proprio quello che per noi è motivo di persuasione, in lui non ha presa. Forse le mie stesse ragioni gli creano maggiori dubbi. Quale mistero!

Duplice lavoro: duplice metodo

Come vi sono due compiti distinti nel nostro apostolato moderno, così vi sono due metodi distinti: il metodo di perseveranza e quello di penetrazione o di ricristianizzazione. Il primo si compie nell’ambito della vita parrocchiale e si serve, nella sua molteplice attività, dei sussidi ormai tradizionali: uffici divini, pratica sacramentale, catechismi, ritiri, predicazione, oratori, congregazioni, pie associazioni, collegi, scuole, librerie, stampa cattolica, buon teatro, buon cinema, ecc. E’ un apostolato eminentemente conservatore, non però abbandonato alla routine,

poiché anche per conservare bisogna adattarsi di continuo alla vita, che muta vertiginosamente e crea condizioni nuove agli stessi credenti. Il metodo di penetrazione o di riconquista deve avere qualche cosa di diverso: una sua anima, più slanciata, e un’andatura più indipendente , più agile, più audace. Sarebbe un errore il credere che il metodo di conservazione possa, con lievi ritocchi, supplire il metodo di riconquista. La prova è nell’insuccesso continuo dei nostri sforzi. Vi sono anime e ambienti che le nostre tradizionali di attività cattolica non scalfiscono neppure. La maggior parte dei nostri giornali, riviste, libri, predicazioni non arrivano fuori della clientela specificatamente cattolica, né riescono influenzare il movimento generale delle idee, né interessano il pubblico lontano. Il mondo – non importa se cammina male – ha imparato a camminare senza di noi e, quel che è peggio, ci ha tagliato o ci sta tagliando fuori dalla sua orbita e quasi accantonando., secondo l’acerba e veristica frase di Peter Wust, in un "ghetto cattolico". Quasi nessuno s’accorge di noi come cristiani. Pochi sanno che al mondo c’è una maniera cristiana di guardare la vita, l’uomo, il lavoro, il denaro, le patrie. Parecchi dei nostri, o finiscono per accettare i metodi se non gli schemi ideali degli altri, oppure si esauriscono nel riprovare e condannare. "L’avventura del mondo diventa tragica perché mancano anime cristianamente avventurose. All’avanguardia non ci sono più i segni del Cristo: almeno non si scorgono. Pare che sia stato sciolto il corpo dei pionieri, mentre una santa arditezza, dovrebbe formare lo sfondo dell’apostolato moderno". C’è una terra di missione, che incomincia appena fuori delle nostre chiese, divenute talvolta brevi isole sperdute nella piena inondante di una civiltà non più segnata in fronte dal nome di Cristo. La nuova cristianità non potrà sorgere senza la perdita di qualche posizione tranquilla o creduta tale. Lo stesso sforzo di difesa è destinato all’insuccesso se non è sorretto dallo sforzo di penetrazione. L’incredulità scavalca ogni riparo e ci porterà via coloro stessi che non avremo lanciato alla conquista del mondo moderno. Ci si difende assalendo. La missione, più che il segno della vita, è la vita stessa della religione: e l’ite della messa fa eco all’"andate e predicate a tutti" del Cristo.

"La victoire n’appartiendra qu’a un commandement avide d’avventures audaces et de

Mi permetto di aggiungere che, così intesa, la fedeltà alla verità è già una devozione a qualcuno, dato che il ritorno è sempre un innamoramento. Tanto più che il ritorno non è segnato da un traguardo unico. La parabola dei talenti porta dei guadagni quantitativamente diversi ma egualmente lodevoli e rimunerativi. Non ritorna soltanto colui che entra in casa e vi si asside alla maniera dei figlioli che non ne sono mai usciti. Mi pare si possa credere all’inesauribile maniera di convertirsi. V’è chi entra come s. Paolo e s. Agostino: v’è chi rimane sulla soglia come Péguy e Rivière, gente du parvis …, prospiciens a longe, come dice l’inarrivabile motivo dell’avvento.

Anche il profugo, che non osa o non può varcare la soglia di casa, ma che vi sospira col cuore lungo i sentieri dell’esilio, è uno che torna. Chi, per una sola volta, ha raccolto sul cuore del fratello lontano l’intraducibile pianto dello sforzo che non riesce a sopprimere le distanze, e che cammina senza giungere la dove è, segnato dall’uomo, il punto dell’incontro festoso, quegli sa che Qualcuno ha camminato davanti, consacrando sul cuore crocifisso l’alleluia del Regno dei Cieli. {mospagebreak}

Nostro fratello Giuda

L'intervento riportato qui sotto è stato registrato a Bozzolo il Giovedì Santo del 1958.
E' tratto da
www.ildialogo.org

Miei cari fratelli, è proprio una scena d’agonia e di cenacolo. Fuori c’è tanto buio e piove. Nella nostra Chiesa, che è diventata il Cenacolo, non piove, non c’è buio, ma c’è una solitudine di cuori di cui forse il Signore porta il peso. C’è un nome, che torna tanto nella preghiera della Messa che sto celebrando in commemorazione del Cenacolo del Signore, un nome che fa’ spavento, il nome di Giuda, il Traditore.
Un gruppo di vostri bambini rappresenta gli Apostoli; sono dodici. Quelli sono tutti innocenti, tutti buoni, non hanno ancora imparato a tradire e Dio voglia che non soltanto loro, ma che tutti i nostri figlioli non imparino a tradire il Signore. Chi tradisce il Signore, tradisce la propria anima, tradisce i fratelli, la propria coscienza, il proprio dovere e diventa un infelice.
Io mi dimentico per un momento del Signore o meglio il Signore è presente nel riflesso del dolore di questo tradimento, che deve aver dato al cuore del Signore una sofferenza sconfinata.
Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. E’ uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: "Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!"
Amico! Questa parola che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro.
Vi ho domandato: come mai un apostolo del Signore è finito come traditore? Conoscete voi, o miei cari fratelli, il mistero del male? Sapete dirmi come noi siamo diventati cattivi? Ricordatevi che nessuno di noi in un certo momento non ha scoperto dentro di sé il male. L’abbiamo visto crescere il male, non sappiamo neanche perché ci siamo abbandonati al male, perché siamo diventati dei bestemmiatori, dei negatori. Non sappiamo neanche perché abbiamo voltato le spalle a Cristo e alla Chiesa. Ad un certo momento ecco, è venuto fuori il male, di dove è venuto fuori? Chi ce l’ha insegnato? Chi ci ha corrotto? Chi ci ha tolto l’innocenza? Chi ci ha tolto la fede? Chi ci ha tolto la capacità di credere nel bene, di amare il bene, di accettare il dovere, di affrontare la vita come una missione. Vedete, Giuda, fratello nostro! Fratello in questa comune miseria e in questa sorpresa!
Qualcheduno però, deve avere aiutato Giuda a diventare il Traditore. C’è una parola nel Vangelo, che non spiega il mistero del male di Giuda, ma che ce lo mette davanti in un modo impressionante: "Satana lo ha occupato". Ha preso possesso di lui, qualcheduno deve avervelo introdotto. Quanta gente ha il mestiere di Satana: distruggere l’opera di Dio, desolare le coscienze, spargere il dubbio, insinuare l’incredulità, togliere la fiducia in Dio, cancellare il Dio dai cuori di tante creature. Questa è l’opera del male, è l’opera di Satana. Ha agito in Giuda e può agire anche dentro di noi se non stiamo attenti. Per questo il Signore aveva detto ai suoi Apostoli là nell’ orto degli ulivi, quando se li era chiamati vicini: "State svegli e pregate per non entrare in tentazione".
E la tentazione è incominciata col denaro. Le mani che contano il denaro. Che cosa mi date? Che io ve lo metto nelle mani? E gli contarono trenta denari. Ma glieli hanno contati dopo che il Cristo era già stato arrestato e portato davanti al tribunale. Vedete il baratto! L’amico, il maestro, colui che l’aveva scelto, che ne aveva fatto un Apostolo, colui che ci ha fatto un figliolo di Dio; che ci ha dato la dignità, la libertà, la grandezza dei figli di Dio. Ecco! Baratto! Trenta denari! Il piccolo guadagno. Vale poco una coscienza, o miei cari fratelli, trenta denari. E qualche volta anche ci vendiamo per meno di trenta denari. Ecco i nostri guadagni, per cui voi sentite catalogare Giuda come un pessimo affarista.
C’è qualcheduno che crede di aver fatto un affare vendendo Cristo, rinnegando Cristo, mettendosi dalla parte dei nemici. Crede di aver guadagnato il posto, un po’ di lavoro, una certa stima, una certa considerazione, tra certi amici i quali godono di poter portare via il meglio che c’è nell’anima e nella coscienza di qualche loro compagno. Ecco vedete il guadagno? Trenta denari! Che cosa diventano questi trenta denari?
Ad un certo momento voi vedete un uomo, Giuda, siamo nella giornata di domani, quando il Cristo sta per essere condannato a morte. Forse Lui non aveva immaginato che il suo tradimento arrivasse tanto lontano. Quando ha sentito il crucifigge, quando l’ha visto percosso a morte nell’atrio di Pilato, il traditore trova un gesto, un grande gesto. Va’ dov’erano ancora radunati i capi del popolo, quelli che l’avevano comperato, quella da cui si era lasciato comperare. Ha in mano la borsa, prende i trenta denari, glieli butta, prendete, è il prezzo del sangue del Giusto. Una rivelazione di fede, aveva misurato la gravità del suo misfatto. Non contavano più questi denari. Aveva fatto tanti calcoli, su questi denari. Il denaro. Trenta denari. Che cosa importa della coscienza, che cosa importa essere cristiani? Che cosa ci importa di Dio? Dio non lo si vede, Dio non ci da’ da mangiare, Dio non ci fa’ divertire, Dio non da’ la ragione della nostra vita. I trenta denari. E non abbiamo la forza di tenerli nelle mani. E se ne vanno. Perché dove la coscienza non è tranquilla anche il denaro diventa un tormento.
C’è un gesto, un gesto che denota una grandezza umana. Glieli butta là. Credete voi che quella gente capisca qualche cosa? Li raccoglie e dice: "Poiché hanno del sangue, li mettiamo in disparte. Compereremo un po’ di terra e ne faremo un cimitero per i forestieri che muoiono durante la Pasqua e le altre feste grandi del nostro popolo".
Così la scena si cambia, domani sera qui, quando si scoprirà la croce, voi vedrete che ci sono due patiboli, c’è la croce di cristo; c’è un albero, dove il traditore si è impiccato. Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui.
Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda. Provate a confrontare queste due fini. Voi mi direte: "Muore l’uno e muore l’altro". Io però vorrei domandarvi qual è la morte che voi eleggete, sulla croce come il Cristo, nella speranza del Cristo, o impiccati, disperati, senza niente davanti.
Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia.
E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro. E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi AMICO.
 La Pasqua è questa parola detta ad un povero Giuda come me, detta a dei poveri Giuda come voi. Questa è la gioia: che Cristo ci ama, che Cristo ci perdona, che Cristo non vuole che noi ci disperiamo. Anche quando noi ci rivolteremo tutti i momenti contro di Lui, anche quando lo bestemmieremo, anche quando rifiuteremo il Sacerdote all’ultimo momento della nostra vita, ricordatevi che per Lui noi saremo sempre gli amici.{mospagebreak}

Cristianesimo e comunismo

La condanna dottrinale crea l'antitesi fra il Cristianesimo e il comunismo: ma nessun comunista intelligente e retto s'illuse mai che la sua concezione materialista della vita e della storia, sia pure con l'intenzione di far meno infelice l'uomo, potesse essere sopportata dalla Chiesa. Ma la condanna - e lo ricordino i massimalisti e gli zeloti - non va più in là, conglobando, come pare che molti facciano, nello stesso giudizio di riprovazione, la sete di giustizia che muove il comunismo e il suo lodevole sforzo verso un riordinamento sociale.

L'urto si profila quando dei cristiani, invece di leggere la condanna come una regola di orientamento a un'azione sociale veramente cristiana, si riparano dietro le encicliche e i messaggi, per disimpegnarsi e per continuare a sparare contro il "nemico" invece di superarlo, costruendo sulla roccia invece che sulla sabbia. L'edificare sulla sabbia è un infelice mestiere: ma io credo che tra coloro che disponendo della roccia non scavano fondamenta né alzano un muro, paghi di magnificare la saldezza del loro terreno, e coloro che in qualche maniera s'adoperano a costruire sia pure su terreno friabile, siano preferibili questi ultimi. Sono almeno uomini di buona volontà, che non seppelliscono il talento. La verità, che si compiace di contemplarsi, è come la fede senza opere, cosa morta: e anche i poveri finiranno per preferire un errore che si adopera in loro favore a una verità che non s'accorge di essi.

Impegni cristiani, istanze comuniste [1945], ora in Il coraggio del confronto e del dialogo, Edizioni Dehoniane, Bologna 1979{mospagebreak}

 
Siamo tutti prodighi

Ma ditemi un po' che strade dobbiamo fare, e attraverso quali lezioni od esperienze bisogna passare per arrivare a comprendere che bisogna ritornare a casa nostra? Seguite la storia del "prodigo" come ce la racconta la parabola, e come ho cercato, nelle domeniche precedenti, di presentarla. È venuta la povertà, è venuta la miseria, è venuta l'indigenza, è venuto l'abbandono, è venuta la fame… Son tutte delle disgrazie, siamo completamente d'accordo! Il Signore non ce le ha mandate; siamo noi che ce le siamo procurate. Eppure, vedete, il Signore in questi guai fabbricati da noi ha messo, che cosa? la possibilità del nostro ricupero, del capire qualche cosa.

Se noi dovessimo vedere certe sventure della nostra vita in questa luce di carità del Signore, come le considereremmo con altri occhi, e come saremmo più pronti a riconoscere la mano del Signore che, attraverso strade che non sono molto desiderabili, ci ricompone, ci riconduce sulla strada buona: ci riconduce prima di tutto dentro di noi stessi, e poi ci porta a ritrovare il bisogno di Lui. Del resto, per quanto la nostra esperienza possa essere scarsa in proposito - e mi riferisco soprattutto ai giovani -, ognuno di noi ha avuto occasione di benedire certe disgrazie, certe cose che non sono andate bene, certi disastri anche materiali, che ci sono capitati.

Abbiamo potuto vedere fino in fondo alle nostre illusioni. Ci siamo disincantati. Non ci fu bisogno che qualcheduno ci facesse la predica: ce la facciamo da noi stessi, la predica. E la vita che ci. fa la predica! È l'esperienza che ci fa la predica.

Discorsi, Edizioni Dehoniane, Bologna 1978{mospagebreak}

Noi ci impegniamo...

Noi ci impegniamo…
Ci impegniamo noi, e non gli altri;
unicamente noi, e non gli altri;
né chi sta in alto, né chi sta in basso;
né chi crede, né chi non crede.
Ci impegniamo,
senza pretendere che gli altri si impegnino,
con noi o per conto loro,
con noi o in altro modo.
Ci impegniamo
senza giudicare chi non s’impegna,
senza accusare chi non s’impegna,
senza condannare chi non s’impegna,
senza cercare perché non s’impegna.

Il mondo si muove se noi ci muoviamo,
si muta se noi mutiamo,
si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura.
La primavera incomincia con il primo fiore,
la notte con la prima stella,
il fiume con la prima goccia d’acqua
l’amore col primo pegno.
Ci impegniamo
perché noi crediamo nell’amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basta
a impegnarci perpetuamente.{mospagebreak}

Le tentazioni del cristiano

Domenica prima di Quaresima (San Matteo, c. IV, v. 1 –11)

Leggo senza preoccupazioni esegetiche. La realtà misteriosa non la farò diventare parabola, a costo di farmi sanguinare il cuore in una confessione di povertà che mi aiuterà a divenire misericordioso.

… Voluit per omnia fratribus simulari ut misericordos fieret.

Il cristiano è un uomo tentato, il solo uomo ove la tentazione prende aspetti abissali.

Quei di fuori immaginano la nostra vita tranquilla e sicura, come di gente arrivata, che, tuttalpiù, si dà pensiero e prova compassione dei perduti, per i quali prega e tiene pulpito, come un armatore il suo scafo. L’errore purtroppo è frequentissimo ed indispone talmente i lontani che essi si credono superiori nella loro avventura; la considerano più lanciata della nostra, non essendo disposti ad ormeggiarsi nel primo porto per non rinunciare a cercare. Io confesserò umilmente le mie tentazioni perché troppi hanno paura di svalutare la propria fede, confessandosi. La tentazione di un credente è forse meno tragica, ma non meno patetica e lancinante.

Il cristianesimo è l’inquietudine più grande, la più intensa. Esso inquieta l’esistenza comune nel suo fondamento. Dove deve nascere un cristiano, vi deve essere un’inquietudine: ove un cristiano è nato, c’è dell’inquietudine. San Paolo parla del gemito di ogni creatura. Dunque, io sono uno che sta male, non perché credo, ma nella mia stessa qualità di credente, poiché, credendo, non aderisco all’evidenza, ma al mistero. Anche se San Tommaso afferma che l’atto di fede si differenzia da tutti gli altri atti del pensiero per questa specie di "cogitazione", che fa che lo spirito non sia in riposo nella fede. L’avventura cristiana continua in chi crede. Non c’è bisogno di rinunciare ad entrare in porto perché la ricerca continui. La Fede non è un approdo, ma un sicuro orientamento di Grazia

verso l’approdo. La traversata continua e travagliosamente. Chi non ha la grazia di credere è tentato dall’incertezza e dal timore del niente, di nessuno. Chi ha la grazia di credere è travagliato dalla luce stessa che gli fu comunicata. Il mio ideale, che non è fatto su misura, ma che mi supera infinitamente, è il mio tormento. La Parola di Dio l’ho dentro di me, non la posso più rifiutare e adattare ai miei gusti, imborghesirla. Nel lontano la ricerca è un istinto naturale; nel credente è istinto e grazia. C’è poi il confronto continuo fra ciò che mi splende nella visione e nel desiderio e ciò che riesco a fissare. Penso in eternità e avanzo lentamente nel tempo. Ho ricevuto tanto e di tanto devo rispondere: anche davanti agli uomini. Sono creato testimonio davanti agli uomini. Dipende da me se Cristo sarà accolto o giudicato nella mia luce o nella mia tenebra. Sono di fazione fazione per Lui fino all’ultimo respiro. Non sarò smobilitato che morendo. Chi non ha una fede non è impegnato: è sempre più "onesto" di chi ha un ideale evangelico. Io che credo e predico il Vangelo, sono giudicato secondo il Vangelo. Molti uomini non mi condannano neanche: ma io non posso non condannarmi. La mia fede mi crea giudice implacabile di me stesso. Io dico – perché credo -: ciò che abbandono è "cosa fallace, gioia momentanea, bene che passa". Ma anch’io passo; anch’io sono un’onda. E non voler che neanche un attimo mi attardi ad accarezzare, lungo la sponda, il filo d’erba che si sporge, la fronda del salice che si piega!!…

Qualcuno dice: - Non si può invidiare ciò che non è. Maniere di dire che son vere, ma troppo usate e abusate, troppo concettuali. La scelta tra la realtà che tiene e la realtà che non tiene, ma che è sotto i miei occhi palpitante, appetibile, invitante, non è facile. I confronti si fanno col cuore sanguinante e le labbra arse. Almeno la Presenza fosse continua, sicura, tangibile! Invece, la mia tentazione è accordata su questo motivo tragico: un Dio che resta presente allontanandosi. Solo una memoria: "Ciò che ho visto, sentito, toccato". Qualche schiarita, un lampo, un mattino di Pentecoste; poi più niente, neanche una voce; silenzio e oscurità. A volte non è più soltanto un allontanarsi ed un rimanere, ma un’assenza, una fede desolata. E si deve vivere lo stesso, parlare lo stesso, testimoniare lo stesso. Qualcuno c’è, ci deve essere nella tua desolazione, ma tu non sai più se ti appartiene, se lavora per te, se…Non sai neanche se alla fine della tentazione manderà i suoi angeli per consolarti.{mospagebreak}

Alcuni pensieri di don Primo

  • "Questi giovani, i vostri figlioli, che sanno ancora così poco della vita, non sanno che cosa vuol dire disperazione. Voi invece l'avete conosciuta lassù e l'avete ritrovata, molti, adesso. La disperazione non è il buttarsi nel fiume, l'appendersi a un albero, bruciarsi le cervella. Sono atti insani, gli episodi patologici e non mai abbastanza deprecati della disperazione. La disperazione è prima di tutto nel nostro sapere il perché della propria vita, specialmente quando la vita è sacrificio. Disperazione è tirarsi il collo e non riuscire a portare a casa quanto basta per sfamare i propri figlioli; disperazione è aver voglia di lavorare e non trovarne; disperazione è l'aver messo assieme, frusto a frusto, un campo, una casa, e vederseli portar via senza averla mangiata fuori; disperazione è il non poter quasi credere a un domani: al lavoro come sorgente di benessere, all'onestà come il più bel titolo di nobiltà per l'uomo."

  • "Cattolico non vuol dire che uno rinunci a pensare con la propria testa là dove l’uso della testa è un dovere dell’uomo, rispettato e consigliato dalla religione […]. Chi ha paura che la religione possa essere minacciata dal disaccordo dei credenti negli affari temporali, deve avere della Fede e della Chiesa un’idea ben meschina".

  • "Cosa vuol dire credere nel bene? Vuol dire che domani mattina tornerà la luce e tornerà il sole. Non sono i tiranni che fanno la storia, non sono le dittature che fanno la storia […] Sono gli offerti, sono questo calvario che non ha nome: Cristo che si offre. E c’è un solo simbolo: la croce. Anche quando non si sa neanche cosa vuol dire la croce, perché tutti coloro che offrono la propria vita non sono, o miei cari fratelli, che delle immagini viventi del Cristo, l’Agnello".

  • "La fede non è un approdo, ma un sicuro orientamento di grazia verso l’approdo. La traversata continua e faticosamente. Chi non ha la grazia di credere è tentato dall’incertezza e dal timore del niente. Chi ha la grazia di credere è travagliato dalla luce stessa che gli fu comunicata".{mospagebreak}

Il testamento di don Primo

Oggi, 4 agosto 1954, undicesimo anniversario della morte dl mio padre, nel nome del Signore e sotto lo sguardo della Madonna, che non può non aver pietà di questo suo povero sacerdote che si prepara al distacco supremo, faccio testamento.
Non possiedo niente. La roba non mi ha fatto gola e tanto meno occupato.
Non ho risparmi, se non quel poco che potrà si e no bastare alle spese del funerali che desidero semplicissimi, secondo il mio gusto e l'abitudine della mia casa e della mia Chiesa.
Le poche suppellettili, che sono poi quelle dei miei vecchi, appartengono alla mia sorella Giuseppina, che le ha conservate usabili e ospitali con la sua instancabile operosità e intelligente economia.
Alle mie sorelle Colombina e Pierina, che avrebbero fatto altrettanto, se non avessero avuto diversa chiamata; ai miei nipoti Michele, Enrico, Gino, Mariuccia, Giuseppina, Graziella l'impegno di custodire e continuare, più che la memoria del fratello e dello zio sacerdote, la tradizione cristiana delle nostre case, cui mi sono sempre affidato e che nelle molte difficoltà fu per me una grazia naturale.
Non ho niente e sono contento di non aver niente da darvi. Lo scrivo anche per vostra compiacenza per quella certezza che abbiamo in comune, che dove il vincolo dell'affetto è soltanto spirituale, sfida il tempo e si ritrova con diritto di misericordia al cospetto di Dio.
Intorno al mio Altare come intorno alla mia casa e al mio lavoro non ci fu mai "suon di denaro": il poco che è passato nelle mie mani - avrebbe potuto essere molto se ci avessi fatto caso - è andato dove doveva andare. Se potessi avere un rammarico su questo punto, riguarderebbe i miei poveri e le opere della parrocchia che avrei potuto aiutare largamente: ma siccome ovunque ci sono poveri e tutti i poveri sono del Signore, sono certo che Egli avrà cura anche della mia sorella Giuseppina, che, dopo una vita spesa in un modo mirabile per me e per la Chiesa, è come un uccello su di un ramo.
Se non avessi una fiducia illimitata nella sua bella generosità; se non conoscessi le meravigliose risorse della sua intelligente operosità; se non sapessi l'affetto che le portano le mie sorelle e miei nipoti, non riuscirei a perdonarmi tanta imprevidenza.
Chiudo la mia giornata come credo di averla vissuta in piena comunione di fede e di obbedienza alla chiesa e in sincera e affettuosa devozione verso il Papa e il Vescovo.
So di averla amata e servita con fedeltà e disinteresse completo.
Richiamato e ammonito per atteggiamenti o opinioni non concernenti la dottrina, ottemperai con pronto ossequio. Se il mio franco parlare in problemi di libera discussione può aver dato scandalo; se la mia maniera di obbedire non è parsa abbastanza disciplinata, ne chiedo umilmente perdono, come chiedo perdono ai miei superiori di averli involontariamente contristati e li ringrazio d'aver riconosciuto in ogni circostanza la rettitudine delle intenzioni.
Nei tempi difficili in cui ebbi la ventura di vivere, un'appassionata ricerca sui metodi dell'apostolato è sempre una testimonianza d'amore, anche quando le esperienze non entrano nell'ordine prudenziale e pare non convengano agli interessi immediati della Chiesa. Sono malcontento di avere fatto involontariamente soffrire, non lo sono d'aver sofferto.
Sulle prime ne provai una punta d'amarezza: poi, nell'obbedienza trovai la pace, e ora mi pare di potere ancora una volta, prima di morire, baciare le mani che mi hanno duramente e salutarmente colpito.
Adesso vedo che ogni vicenda lieta o triste della mia travagliatissima esistenza, sta per trovare nella divina Misericordia la sua giustificazione anche temporale.
Dopo la Messa, il dono più grande: la Parrocchia. Un lavoro forse non congeniale alla mia indole e alle mie naturali attitudini e che divenne invece la vera ragione del mio ministero, la buona agonia e la ricompensa "magna nimis" di esso.
Non finirò mai di ringraziare il Signore e miei figliuoli di Cicognara e di Bozzolo, i quali certamente non sono tenuti ad avere sentimenti eguali verso il loro vecchio parroco.
Nel rivedere il mio stare con essi, benché mi conforti la certezza di averli sempre e tutti amati come e più della mia famiglia, sul punto di lasciarli mi vengono davanti i miei innumerevoli torti. Benché non abbia mai guardato con desiderio al di là della mia parrocchia, né stimato più onorevole altro ufficio, non tutta e non sempre è stata limpida e completa la mia donazione verso i miei parrocchiani.
Lo stesso amore mi ha reso a volte violento e straripante. Qualcuno può aver pensato che la predilezione dei poveri e dei lontani mi abbia angustiato nei riguardi degli altri: che certe decise prese di posizione in campi non strettamente pastorali mi abbiano chiusa la porta presso coloro che per qualsiasi motivo non sopportano interventi del genere. Nessuno però dei miei figlioli ha chiuso il cuore al suo parroco, che si è visto fatto segno di contraddittorie accuse, sol perché ci teneva a distinguere la salvezza dell'uomo e le sue istanze anche quelle umane, da ideologie che di volta in volta gli vengono imprestate da quei movimenti che spesso lo mobilitano controvoglia.
Ho inteso rimanere in ogni circostanza sacerdote e padre di tutti i miei parrocchiani: se non ci riuscii, non fu per mancanza di cuore, ma per le naturali difficoltà di farlo capire in tempi iracondi e faziosi.
Se non mi sono unicamente dedicato al lavoro parrocchiale, se ho lavorato anche fuori, il Signore sa che non sono uscito per cercare rinomanza, ma per esaurire una vocazione, che, pur trovando nella parrocchia la sua più buona fatica, non avrebbe potuto chiudersi in essa.
Del resto, le pene d'ogni genere che mi sono guadagnato scrivendo e parlando, valgano presso i miei figliuoli a farmi perdonare una trascuratezza che mai non esistette nell'intenzione e nell'animo del loro parroco.
Il tornare a Bozzolo fu sempre per me tornare a casa e il rimanervi una gioia così affettuosa e ilare che l'andarmene per sempre l'avverto già come il pedaggio più costoso.
Eppure, viene l'ora e, se non ho la forza di desiderarla, è tanta la stanchezza che il pensiero d'andare a riposare nella misericordia di Dio, mi fa quasi dimentico della sua giustizia, che verrà placata dalla preghiera di coloro che mi vogliono bene.
Di là sono atteso: c'è il Grande Padre Celeste e il mio piccolo padre contadino. La Madonna e la mia mamma. Gesü morto per me sul Calvario e Peppino morto per me sul Sabotino. I santi, i miei parenti, i miei soldati, i miei parrocchiani. I miei amici tanti e carissimi. Verso questa grande Casa dell'Eterno, che non conosce assenti, m'avvio confortato dal perdono di tutti, che torno a invocare ai piedi di quell'Altare che ho salito tante e tante volte con povertà sconfinata, sperando che nell'ultima Messa il Sacerdote Eterno, dopo avermi fatto posto sulla sua Croce, mi serri fra le sue braccia dicendo anche a me: "entra anche tu nella Pace del tuo Signore".





 
 

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