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Tre lettere di Diego Cassinelli dall'Uganda

Lettere di Gigo dall'Uganda

 

In questa pagina sono presenti tre lettere di Diego Cassinelli dall'Uganda:

 

 

 



PRIMA LETTERA

 

 

Mi sento un po’ perso, l’Africa ha questo potere. Il potere di far sentire piccoli piccoli.

Sarà forse per via della grandezza del suo cielo, e per l’estensione della sua terra rossa.

Che cosa puoi fare davanti a tanta libertà di sguardo e di respiro? Penso che l’Africa sia proprio una terra, che prima di ogni altra cosa, sia terra da respirare. L’odore è acre e dolce allo stesso momento.

Odore che respinge e attira. Odore di legna arsa dalle donne per preparare il cibo, odore di nafta e petrolio delle macchine e dei camion che corrono per le strade alzando nubi di tempesta. E’ l’odore a volte irruente a volte gentile del mercato che, al solo sguardo, sembra riassumere una filosofia ancestrale che da senso a tutto quell’ordine imperfetto o a quel disordine perfetto. E’ l’odore della gente che lavora, che cammina, che aspetta paziente, che celebra, che vive. E’ l’odore dei bambini che giocano, delle donne che sorridono, dei mercanti che attendono. E’ l’odore del tempo che ha una sua dimensione indomabile e imprevedibile. Qui tutto ha un suo odore; la pioggia, il sole la terra, la sera, il mattino, le stelle, il silenzio e a me non resta che respirare a pieni polmoni questo odore frizzante che è l’unico vero colore dell’Africa mai dipinto.

Mi trovo a Gulu, nel nord dell’Uganda. “La perla d’Africa”, ecco com’è chiamata questa terra.

E’ una terra bellissima, ricca di vegetazione. Fertile, questo è l’aggettivo giusto per descriverla. L’Africa è donna fertile, è mamma per eccellenza, è dispensatrice di vita in abbondanza.

Una vita che troppo spesso è calpestata, disprezzata, imbruttita da logiche di potere che vengono da lontano, tanto da non vederne il principio.

Cosa dirvi? Qui, dopo più di 20 anni di conflitto e violazione di diritti umani, si comincia a respirare un clima di positività, ma in punta di piedi. La gente è diffidente, non ha il coraggio di gridare con tutta la voce che la guerra è finita. I trattati di pace non sono stati firmati, e qualcuno dice che, probabilmente, non lo saranno mai.

Questo popolo però, lentamente sta alzando la testa, si sta riprendendo poco a poco la libertà di abitare e di esistere la propria terra. Io comunque mi sento a disagio nel condurre la mia ricerca, devo dirvi la verità e sapete perché? Qui ci sono circa di 300 organizzazioni, tra quelle internazionali, locali, non governative, donor ecc. Sono tantissime! Tutti hanno progetti da portare avanti, tutti cercano soluzioni, sembrano avere l’abito e l’ambito giusto per “salvare” questo popolo.

Ma cosa fanno tutti qui? Perché cosi tanti?

Io non faccio altro che aumentare di una singola unità questa già abbondante lista.

Mamma mia! Alcune persone con cui ho parlato sono molto critiche a riguardo. Dicono che tutta questa costellazione di organizzazioni ha creato solo dipendenza, per via della loro politica assistenzialistica.

La gente, soprattutto quella dei campi IDP, è diventata “Lazy”, pigra.

E’ abituata ad alzare le mani e non le maniche, ad alzare le braccia e non la testa.

La politica governativa vigente è quella di incoraggiare la gente dei campi a tornare nei propri villaggi d’origine. Sapete come fa per invogliarli? Dona ad ogni famiglia un paio di lamierine per costruirsi il tetto della capanna! Bello no?! Praticamente, dopo più di 20 anni di assenza dalla loro terra immersa per decine di chilometri nel bush, nella boscaglia, il governo regala due pezzettini di “ondulus” come supporto e incoraggiamento.

..mmm, che gola che mi fa! E chi non accetterebbe di andare a vivere in mezzo a una boscaglia senza possibilità di cure mediche, senza strade, senza scuole, senz’acqua e senza servizi di nessun tipo ma con due lamierine da portare per chilometri sulla testa? Solo un pazzo non accetterebbe!

Potrei raccontarvi ancora un po’ di aneddoti di questo tipo ma preferisco raccontarvi i volti che ho incontrato. Mi riferisco specialmente all’incontro con una ragazza sul bus che dalla capitale Kampala mi ha portato in poco più di sei ore qui a Gulu.

E’ l’episodio delle due banane.

La pace, l’accoglienza e l’alleanza con lo straniero, qui passa da due banane.

Il viaggio è durato tantissimo anche perché a ogni villaggio incontrato il bus si fermava e veniva assalito da venditori che proponevano di tutto, da frutta, spiedini di non so cosa, bibite, platani arrostiti ecc. Quattro sedili davanti a me c’era una ragazza molto bella, con delle lunghe treccine raccolte da un pezzo di stoffa colorato. Ogni tanto si girava e abbozzava un timido sorriso.

Erano i primi segni di accoglienza al “Muzungu” (uomo bianco), allo straniero. A un certo punto la ragazza, allungò un braccio verso di me. In mano aveva un pezzo di cassava che aveva comprato dal finestrino del bus, in una delle tante soste. All’inizio non sapevo se il suo gesto fosse rivolto a me o a qualcuno vicino a me. Il bus era pienissimo e c’era anche gente in piedi, quindi potevo anche non essere il destinatario. Poi, allungai timidamente la mano e lei si aprì in un sorriso bianco come poche altre cose al mondo.

Presi la cassava e la mangiai ringraziando più volte.

Dopo altre due soste, la ragazza si girò nuovamente verso di me, ma io stavo guardando altrove, così fui avvertito dalla signora che mi sedeva accanto. Senza parlare la signora mi toccò con due dita il gomito e indicò la ragazza con l’indice semichiuso. Questa volta aveva in mano due banane. Io mi sentivo imbarazzato, ma mi alzai ugualmente e facendomi un po’ di spazio tra la ressa, le presi ringraziando la ragazza per le sue premure.

Dopo averle contemplate, meravigliato le mangiai.

La signora accanto a me, con voce sottile mi disse:

“Sai cosa vuol dire questo?”

Io risposi un po’ stupito: “beh…n..no”.

“E’ un segno di pace. Nella nostra cultura (Acholi) è segno di alleanza con l’ospite.

Quando viene un ospite a casa a visitarti, come prima cosa, usciamo nel cortile, tagliamo delle banane e le offriamo all’ospite. Con questo gesto la ragazza ti ha fatto capire che tu si sei benvenuto in questa terra”.

E noi in Italia cosa facciamo? Sarà il caso di cominciare a coltivare delle piante di banana?

Ecco il primo spiazzante benvenuto che questa terra mi ha riservato.

Ora basta, è buio, e la notte africana non manca di generosità. Insieme al canto di animali che posso solo affidare alla mia immaginazione per vederne la forma, si accendono miliardi di stelle e tra questa moltitudine brilla anche la croce del sud.

Buona notte

Afojo Matek Diego

 





SECONDA LETTERA

 

 

Afojo ba lutuwa!


Questa è la frase che uso per salutare la gente che conosco,

e così saluto anche il gruppo che sta nascendo, in una piccola capanna di Kirombe,

a qualche chilometro da Gulu town.

Qui la gente usa solo “afojo ba”, ma a me, piace aggiungere; “lutuwa”, che significa:

“my people”. In italiano non suona bene, ma in inglese già è meglio. “Hi my people”.

La gente resta meravigliata quando lo dico.

Primo, perché pochi bianchi s’interessano della lingua acholi.

Secondo, per il mio accento. Sembra che io abbia un accento particolarmente acholi,

simile all’originale.

Terzo, perché dico a loro che sono la mia gente.

Molti ridono di gusto e stringendomi la mano ripetono più volte: “lutuwa, lutuwa, lutuwa”.


Vi voglio raccontare come le cose cambiano, e come non sia possibile pensare di arrivare in una terra straniera con progetti già fatti. Almeno, non è possibile per me.

Non è possibile idealizzare dai banchi dell’università. Qui si incontrano, volti, storie, persone, e le persone non sono idee.

Qui, il mio entusiasmo di carta deve fare i conti con una realtà di carne.

Dopo un primo momento di smarrimento, dopo aver visto saltare tutte le mie idee e le mie certezze, ecco un fiore imprevisto. Prima di partire, dissi che la serendipità, sarebbe stata il tratto caratteristico, la stella polare, o meglio, la croce del sud, il punto cardinale al quale orientare la mia esperienza africana…ed ecco mantenuta l’unica promessa che mi era permesso di pensare!

La mia storia si è incrociata per un attimo, per una combinazione di eventi, con la storia di Geoffrey, un ex bambino soldato, rapito dai ribelli della LRA (Lord Resintance Army) nel 1995.

Quel giorno Geoffrey mi parlò per più tre ore della sua vita con i ribelli.

Una storia di violenze, di crudeltà, di assurdità, a cui però non è consentito di far scrivere l’ultima parola alla sofferenza.

Dopo quell’incontro, sono andato più volte a trovare Geoffrey. Abita a Kirombe, un villaggio poco distante dalla sede dell’ente a cui faccio riferimento. Tutto nasce in una capanna color argilla, senza luce, senz’acqua e lontana anni luce dal “già pensato”.

Sotto un grande albero di mango, qualcosa di fragile sta prendendo vita.

Da due persone, si è passati a sette in poco tempo. Il gruppo è formato da cinque ragazzi e una ragazza (moglie di Geoffrey), accomunati dalla stessa esperienza, cioè, quella di essere stati rapiti dai ribelli della LRA e costretti a diventare bambini soldato.

Il settimo sono io, che tento goffamente di condividere con loro un briciolo di speranza.

Sono più di cento le persone che vivono questa situazione e Geoffrey è in grado di contattarle tutte. Abbiamo questa fortuna. Geoffrey era un leader nel bush, e non mi è difficile immaginarlo. Ha delle doti da trascinatore, da guida, e poi è il più anziano di tutti, o “musè”, come dicono qua. Ha 26 anni, ma sembra ne abbia molti di più.

Il problema è complesso. Questi ragazzi hanno fatto la guerra.

Sono vite abituate alla guerra e a lottare per sopravvivere, a uccidere per non morire.

Oggi queste vite lottano per esistere, per dimostrare alla propria gente, e a se stessi, che sono ancora capaci di amare nonostante tutto.

La guerra per loro non è finita. Ogni notte combattono con i fantasmi di attacchi e aggressioni, di mutilazioni, di massacri che sono stati costretti a commettere.

E quando il sole sorge, una nuova guerra è lì, pronta ad aspettarli fuori dalla porta di latta della loro capanna di fango e paglia. E’ la lotta contro la discriminazione, la segregazione, l’esclusione sociale.

I loro racconti sono talmente crudi da farmi venire la nausea. Mi manca l’aria!

Vorrei lavarmi per togliere da dosso tutte quelle brutture ma…non serve.

Quella violenza mi si attacca dentro, come la polvere rossa di queste strade si appiccica alla pelle, ai vestiti, tra i denti. Vi parlavo di odore…beh, questa violenza è talmente densa da poterne sentire l’odore.

E’ da questa polvere che partiamo.

Insieme abbiamo deciso di accettare una sfida che parte dal basso di questa terra rossa.

Umanamente parlando, qui, non c’è nulla di più basso. Non potevo immaginare nulla di così essenziale; ci sono solo brandelli di speranza, e da qui si parte.

Un unico punto di partenza che ha dei nomi che vi voglio dire:

Richard, Charles, Dennis, Daniel, Geoffrey, Nighty e Diego…ecco tutto quello che abbiamo.

Sì, è vero, può sembrare poco se si guarda con frettolosa superficialità, ma se solo si rallentano i ritmi, ci si accorge del bello che c’è e che può emergere.

Quando si è abituati a vedere vite sfigurate si ha bisogno di ricercare la bellezza.

Sono occhi che devono essere riabilitati al bello.

Penso ci siano 2 motivi che ci impediscono di cogliere la bellezza; uno è la distrazione, e questo è un aspetto che riguarda me in prima persona. L’altro è la proibizione, che riguarda queste sei vite. Proibizione perché qualcuno ha vietato a loro di poter immergersi nel bello che spetta di diritto ad ogni esistenza.

A Kirombe ho incontrato poi un gruppo appena nato (1° giugno 2008) voluto dal DCO, un organo governativo a livello locale, che si è reso conto dell’enormità di problemi che i “returnees” (i ritornati dal bush) devono affrontare. Ho partecipato ad un meeting formalissimo, in cui sono stato introdotto a livello ufficiale. Il cheirman del DCO mi ha invitato a collaborare con loro, a lavorare insieme, “mano nella mano” come ha detto lui.

Ha detto che erano felici della mia presenza perché ero il primo bianco, tra tutte le promesse delle Ngo’s, che si era degnato di presenziare ad un incontro. Lusinghe di circostanza, ma con un fondo di verità, ovvero, le promesse non mantenute di alcune organizzazioni.

La sede del meeting è la solita: sotto un grande albero di mango, con un diversivo; un cielo che minacciava la fine mondo.

Il gruppo si chiama: LAYIBI DIVISION WAR AFFECTED YOUTH GROUP, formato, sulla carta da quaranta persone, ma nella realtà sono ventotto.

Capite adesso perché i meeting durano tre ore…ci vuole un quarto d’ora solo per dire il nome del gruppo. Hanno attività che faticano a prender ritmo, come i lavori con l’alluminio, la carpenteria, il lavoro di tessitura ecc. Al di la di tutto, penso sia una bella opportunità, per me, per noi, una sfida da cogliere. Finito l’incontro, lanciai una proposta a tutti quegli occhi che mi guardavano severi e attenti. Presi la parola e si fece un silenzio imbarazzante, quasi dovessi proclamare il discorso di fine anno a reti unificate.

Mi guardai attorno con un mezzo sorriso e dissi:

“Quando facciamo un partitone a calcio?”

In due secondi il clima si trasformò radicalmente. Ci fu un vero e proprio boato, stile gol di Grosso nella semifinale dei mondiali del 2006 contro la Germania.

Gente che saltava, che rideva, che lanciava urla di gioia. Ecco come gli ex ribelli della LRA si erano trasformati in bambini festosi.

Per un secondo si è respirata tutta la bellezza dell’infanzia, quella che non hanno potuto vivere. Anche qui, niente basi pre-programmate, niente grandi discorsi.

Partiamo da un sorriso.

Domenica 3 Agosto, ore 16:00 al campo del Layibi Distrisct, ci sarà il grande match.

Vi abbraccio tutti

Afojo ba lutuwa

Diego


 


 

TERZA LETTERA

 

 

 

Solo un momento prima di lasciare Gulu.

Ho dato l’ultimo sguardo a questa città cosi “africana”, e sento di provare già nostalgia.

Lascio una citta’ che penso d’aver vissuto e non solo sfiorato. La verità è che, puoi essere in Africa senza vivere l’Africa.

Non sono molti, ma se vuoi, puoi frequentare locali per bianchi, con feste per bianchi e cibo per bianchi, dove puoi avere anche l’illusione che, alla fine, essere in Europa o essere in Africa , non cambia poi tanto.

C’è una sorta di città bianca virtuale in cui si rifugiano i clandestine dell’incontro.

C’è un occidente fantasma dietro un’Africa di carne.

Ho visto dei bianchi durante la mia permanenza qui a Gulu, ma so perfettamente che sono molti di piu’. Dovo sono tutti? Sono impegnati ad evitare l’incontro, a scrollarsi da dosso il peso della diffrenza e del salto culturale. È la gente che non saluta, gente che porta troppo occidente con sè, senza lasciare spazio per altro e per l’altro.

Il rischio è quello di scivolare in questo mondo parallelo, in cui si entra solo con un passaporto infalsificabile: la pelle bianca.

La decisione dello stile di vita dell’esperienza, sta però a monte.

Si decide prima di partire da che parte stare.

Si tratta poi, di essere fedele alla scelta fatta.

Nel mio piccolo, ho cercato di essere fedele alla mia scelta di stare con la gente, con qualche eccezione per una birra ogni tanto.

La mia esperianza di tirocinio, lo dico qualche minuto prima di lasciare questa città,

è stata soprattutto vissuta nei villaggi, tra le capanne e il fango.

La stagione delle piogge regala degli sfoghi della natura, durante i quali si può scorgerne una potenza che ci sorpassa. Dietro di sè però, lascia strade impercorribili di fango rosso scivoloso come neve, ma qui le catene non bastano. È un fango che resta addosso,

ti colora la pelle e i vestiti. Li riconosci subito i bianchi che stanno con la gente.

Non dagli occhi, non dai vestiti, non dallo zaino, ma dai piedi.

I loro sandali sono inguardabili, ma carichi di strada fatta.

Le loro ungnie sono rosse e sporche e, non di rado, sono piedi feriti. Certo, sono piedi, che non possono essere paragonati a quelli degli africani, callosi, neri, e pieni di cicatrici. Sono piedi piatti, abituati al contatto con la terra, il fango, l’acqua, le pietre e le spine. Sono piedi che camminano liberi da restrizioni e senza protezioni.

I loro, sono piedi esperti. Camminano nudi per sentieri che,

solo i loro occhi possono vedere. Sono prospettive misteriose all’occidentale.

Pur nelle enormi differenze, questi piedi sono il simbolo dell’incontro.

Piedi bianchi, fragili e insicuri, e piedi neri, esperti e temprati.

Piedi che hanno camminato perche’ gli occhi potessero incontrarsi.

Sono piedi al servizio. Lavoro davvero faticoso e sporco il loro, ma assolutamente indispensablile.

Ora torno, con i mie sandali sporchi ancora addosso,

e con gli stessi piedi, mi aguro sempre di compiere passi d’incontro…

ovunque io vada.

…e anche a voi va questo augurio.


Diego

 


di: Luca Manganelli

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