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Mons. Munzihirwa

Il Romero dell' Africa

Mons. Munzihirwa:
il Romero del Congo

“Sia crocifisso!

Questo grido, moltiplicato dalla cieca passione della folla

-strana liturgia della morte –

risuona lungo la storia, risuona lungo il secolo che finisce:

ceneri di Auschwitz e ghiaccio del Gulag,

acqua e sangue delle risaie dell’Asia,

dei laghi dell’Africa, paradisi massacrati.”

(Giovanni Paolo II)


INDICE:

 
  • Chi era Mons. Munzihirwa? ...
     
  • Alcune lettere nel suo ultimo mese di vita ...
     
  • Il suo ultimo messaggio ...
     
  • 29 ottobre 1996 ...
     
  • Un pò di Storia ...
     
  • Vocabolario: Hutu -Tutsi. Di chi si parla? ...
     
  • Intervista a P. Murhula, per capire ...
     
  • La Chiesa davanti alla sfida della violenza e dell'ipocrisia ...
     
  • Un appello dei religiosi congolesi ...
     
  • Ne parla Nigrizia ...
     
  • Ne parla anche Peacelink ...
     
  • Il grido del martire ...
     
  • Parola ai volontari ...
     
  • Parola a un rifugiato in Congo dei giorni nostri ...



        

      DIECI ANNI FA IL MARTIRIO DI MONS. MUNZIHIRWA

      Il 29 Ottobre 1996 per Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu (Repubblica Democratica del Congo), si è compiuto il martirio per l'Africa, attraverso le mani di un gruppo di militari rwandesi. Tre sono stati gli elementi che hanno contraddistinto la sua esistenza: la profezia, lettura della situazione senza compromessi con il potere; la fraternità, vettore di un amore indistinto, senza pregiudizi; il martirio, volontà di rimanere a fianco delle vittime della guerra fino alle estreme conseguenze.

      "Non c'è che un prezzo da pagare per la libertà - diceva - il prezzo del sangue".

      La Chiesa grida ancora una volte forte che nessuna logica vale più della persona umana. E' per aver detto forte questa verità che Mons. Munzihirwa è stato ucciso. Al crepuscolo della sua vita, questo vescovo è "diventato popolo" e la sua voce ha smesso di formulare parole per tramutarsi in grido, il grido della gente.

      E' ormai diventato coscienza e giudizio per ogni uomo e per ogni istituzione. Mons. Munzihirwa rimane un sicuro seme di speranza per la sua terra e la sua gente. Un giorno più o meno lontano, quando sulla terra del Kivu si saranno dissipate le tenebre del Calvario, quel popolo generoso e tanto amato potrà risorgere rigenerato dal suo esempio e dal suo sacrificio.

      Mzee Christophe Munzihirwa Mwene Ngabo

      BREVE BIOGRAFIA:      

      Nacque a Lukumbo, vicino a Walungu (Kivu, Congo) nel 1926 ed è morto settanta anni più tardi, nel 1996, assassinato. All’inizio degli anni ‘60 era già parroco della cattedrale di Bukavu e aveva una carriera sacerdotale brillante dinanzi a lui. Erano gli anni dell’indipendenza del Congo. Ma mons. Munzihirwa si considerava sempre un pellegrino, in cammino, alla ricerca costante di Cristo e del suo Regno. Nel 1963 chiede di far parte della Compagnia di Gesù. Quando nel 1967 Jean Scram, era a Bukavu seminando morte, Munzihirwa compiva i suoi studi di scienze sociali e economia in Belgio all’università di Lovanio. Nel 1969 fu richiamato in Congo e, fin da allora, è stato l’uomo delle situazioni difficili. Nel 1971, mentre era cappellano dell’Università di Kinshasa e formatore, avendo Mobutu obbligato gli universitari e i seminaristi a prestare il servizio militare per due anni, Munzihirwa insistette per farsi iscrivere anche lui e fu ammesso come sergente. Dal 1980 al 1986 fu provinciale dei gesuiti nell’Africa centrale (Rwanda, Congo e Burundi) e pubblicò molti articoli sulla rivista “Zaire Africa” (ora “Congo Africa”).



      Bukavu: La piazzetta insanguinata, oggi.

      In queste pubblicazioni Munzihirwa mostrava la sua costante preoccupazione: aiutare l’uomo e la donna nel loro contesto a migliorarsi, a rispondere alla loro dignità inalienabile che Dio ha messo in ogni persona. Il 9 novembre 1986 fu nominato vescovo e inviato a Kasongo come coadiutore di mons. Pirigisha Timothée. Dall’inizio degli anni ’90 fu amministratore apostolico di Bukavu pur restando a Kasongo fino al giugno del 1994, quando divenne
      arcivescovo di Bukavu. Il 29 ottobre 1996 fu assassinato.

      Per saperne di più leggi anche "le radici" e "Chi era...?"

                        Il mattino del 29 ottobre 1996 era cominciato, come i giorni precedenti, con una serie di bombardamenti sulla città di Bukavu da parte del Rwanda. Eravamo abituati a quella musica che durava alcune ore e poi smetteva. Durante una pausa, mons. Munzihirwa era passato a Muhumba, nella casa dei saveriani; lo faceva regolarmente in quei giorni per chiedere una scatola di latte in polvere per qualche povero o solo per vederci. Quel giorno mi aveva ricordato anche che nel pomeriggio si teneva, come tutti i martedì, l’incontro in vescovado per l’esame della situazione che si viveva nella città. Erano invitati i membri di tutte le confessioni religiose e alcune personalità della città. Nella tarda mattinata la situazione cominciò a precipitare. Alcuni militari vennero a Muhumba e mi sequestrarono la Toyota per andare a... difendere la città. In realtà era solo per rubare e fuggire. Da Murhesa (a 20 chilometri da Bukavu) arrivarono notizie che le suore trappiste erano state attaccate dagli hutu ruandesi e chiedevano aiuto. Nel pomeriggio si era di nuovo messo a piovere e poi erano ricominciati i bombardamenti. Quel giorno, con tutti questi avvenimenti, dimenticai di andare alla riunione al vescovado, e questo ,forse, mi salvò la vita.

      La sera, un abbé del vescovado mi telefonò per avere notizie del vescovo. Mi disse che si era tenuta la riunione e che, dopo aver aspettato la fine dei bombardamenti, tutti erano tornati a casa, mentre il vescovo forse era andato dai gesuiti. Ho chiamato i gesuiti: il vescovo non era a casa loro e pensavano fosse rimasto al vescovado. Forse era a casa di qualcuno dei tanti amici a causa dei bombardamenti. Quella notte si sentiva sparare da tutte le parti.

      Al mattino ci rendemmo conto che c’era stata I’occupazione da parte delle Forze armate tutsi ruandesi e la città era già in mano loro. Le strade erano piene di cadaveri, soprattutto civili, donne e bambini. Infatti la sera precedente i soldati sparavano su chiunque passasse, facevano saltare le auto e poi uccidevano con un colpo di pistola alla testa tutti gli occupanti. 

      Fu p. Agostini, missionario saveriano, a informarmi che mons. Munzihirwa era morto. Il suo cadavere si trovava assieme a tanti altri nella piazzetta di Nyawera: i militari avevano ucciso tutti quelli che passavano di là, a piedi o in auto. Anch’io avrei dovuto passarvi assieme al vescovo. Solo alcuni di quelli che lo seguivano, abbandonando le auto e correndo tra le pallottole, si erano fortunosamente dileguati nelle viuzze mettendo in salvo la vita. P. Agostini si occupò di recuperare il cadavere prima che i militari lo facessero sparire come era loro abitudine. Con alcuni studenti lo lavò e sistemò dentro una cassa, fatta con i banchi della cappella, per portarlo subito dopo alla cattedrale. Il giorno successivo si svolsero i funerali con una ventina di persone. Era morto un uomo di grande statura morale, testimone della verità, simbolo della resistenza pacifica di un popolo che dice NO alla guerra. 

      P. Sebastiano Amato


      "Ci sono cose che non si vedono bene se non con occhi che hanno pianto" ripeteva spesso mons. Munzihirwa. Sono parole che esprimono bene il modo con cui ha vissuto il dramma della popolazione dei Grandi Laghi, con una com-passione e partecipazione totale: i suoi giudizi avevano perciò l’occhio penetrante di chi soffre e il coraggio di chi ama davvero. Per questo il messaggio della sua vita e della sua morte ci interpella con forza e con autorità.


      CHI ERA MONS. MUNZIHIRWA?

      "Era un uomo povero. Incontrandolo, è questa la prima cosa che colpiva. Per lui l’essere vescovo non è stato in alcun modo un mezzo per arricchire se stesso e la propria famiglia. È stato un servizio. Aveva due sole camicie, uguali, e due pantaloni, che lavava lui stesso e metteva ad asciugare. Iniziare con un’osservazione del genere potrebbe sembrare fuori posto, ma ha un grande valore perché si lega bene alle sue denunce… Tutto quello che mons. Munzihirwa ha fatto, l’ha fatto solo per i rifugiati, mai per interessi personali. Questa povertà si coniugava bene con la libertà di spirito di cui godeva, per cui non ha avuto paura di parlare perché non aveva niente da perdere.

      Legato al primo aspetto, si può mettere quest’altro: il culto della verità. Mons. Munzihirwa ha sempre detto forte le sue convinzioni, contro tutte le ipocrisie. Ha tempestato di lettere i responsabili di organismi internazionali e ha sempre detto quello che pensava, quello che vedeva stando sul posto. La sua prosa è scarna, non una parola di troppo: "Cristiani, anche se non possiamo impedire le violenze, dobbiamo sempre disapprovarle: bisogna saper dire No, un no assoluto. Anche se non arriviamo a sciogliere i nodi gordiani dell’ipocrisia, dobbiamo sempre denunciarli: bisogna saper dire No, un no altrettanto assoluto".
      La terza qualità che vorrei ricordare è la coerenza. Il non cercare niente per sé, il fatto di dover difendere solo le sue due camicie e nient’altro, oltre alla verità, ha fatto sì che fosse al suo posto al momento giusto. A certi appuntamenti con il martirio si arriva solo dopo un’abitudine alla coerenza. Altrimenti ci sono tante vie d’uscita, tante scuse per essere sempre altrove… magari per un bene superiore! Quando abbiamo incominciato a ricevere le ultime lettere che scriveva al suo popolo e alla radio vaticana, ci siamo detti: sta firmando la sua condanna a morte. Una persona mi ha riferito che, pochi giorni prima che fosse ucciso, gli aveva suggerito di mettersi in luogo più sicuro. Aveva rifiutato. D’altra parte, nel vuoto di potere che si era creato a Bukavu, mons. Munzihirwa era diventato un punto di riferimento anche per la società civile. Uno dei suoi ultimi appelli porta la sua firma come moderatore del Movimento per la difesa dei Kivu" (p. Rino Benzoni).

      LA PARTECIPAZIONE AL DRAMMA DEI PROFUGHI RWANDESI

      Racconta p. Giovanni Querzani: "Non dimenticherò mai la visita inattesa e incoraggiante che mi fece a Goma quando, alla fine di luglio ’94, in piena emergenza umanitaria, me lo vidi arrivare tra le tende del campo di accoglienza che avevamo organizzato nel cortile davanti a casa nostra per i malati e abbandonati che trovavamo in tutti gli angoli della città. Erano in gran parte vedove, bambini, anziani. Guardava in silenzio il dramma di quella gente. Lo accompagnai a casa: rimase ancora in silenzio per un certo tempo, mentre intuivo che aveva il cuore attanagliato da pena e compassione profonde. Poi lasciò uscire queste parole, che non ho più dimenticato: sono i palestinesi dell’Africa!".

      Fin dall’inizio dell’arrivo dei profughi si è sentito pastore di tutti e fratello di tutti. Nell’omelia della Messa celebrata Bukavu il 24 luglio per i rifugiati e per invocare la pace, aveva esortato: "Accogliamo tutti i rifugiati, senza discriminazione. Ringraziamo i nostri compatrioti che, nonostante la loro povertà, accolgono i rifugiati nelle loro famiglie. Cerchiamo di vivere insieme, da veri cristiani, zairesi e rwandesi, questi avvenimenti che interpellano la nostra carità e la nostra crescita evangelica".

      Nello stesso tempo, amareggiato dai numerosi abusi commessi a danno dei profughi soprattutto da militari e amministratori zairesi, non aveva esitato a fustigarli con parole di fuoco: "La coscienza cristiana si rivolta e condanna coloro che cercano di arricchirsi approfittando della miseria e disgrazia altrui. Coloro che hanno rubato o acquistato a prezzi fraudolenti cose rubate, devono restituirle se vogliono ridivenire fratelli di Gesù".
      Durante i due anni della presenza dei profughi (’94 – ’96) non ha cessato un solo istante di difendere i loro diritti più fondamentali: "Dall’arrivo massiccio dei profughi rwandesi a Bukavu, il 18 luglio, l’azione dell’ Alto Commissariato per i rifugiati è caratterizzata da un’inefficienza evidente, dovuta forse anche alla cattiva volontà di alcuni suoi agenti… Apprendiamo che le organizzazioni internazionali e le potenze occidentali vogliono rimpatriare con la forza i rifugiati o almeno vogliono forzare l’Alto Commissariato a non assisterli per obbligarli a rientrare nel loro Paese. A nome di tutta la comunità cattolica di Bukavu e delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, denunciamo questo atto, che è un crimine contro l’umanità, se non si aiuta prima a stabilire in Rwanda una pace vera e la sicurezza per tutti i rifugiati che accetteranno di rientrare. È un dato di fatto che il Rwanda è distrutto da due estremismi antagonisti: perciò domandiamo alle grandi potenze di rendere possibile un incontro tra tutti i rwandesi, perché possano trovare una soluzione negoziata e equilibrata" (Lettera a Boutros Ghali, 3 agosto ’94).

      LA DENUNCIA PER LA DIFESA DELLE VITTIME HUTU

      La constatazione delle inadempienze e, ancora più, della cinica strategia che si delineava nel comportamento delle "Grandi potenze" nel confronto dei profughi hutu e di tutta la situazione dell’area dei Grandi Laghi, ha portato mons. Munzihirwa ad una denuncia sempre più lucida e ad una difesa sempre più appassionata delle vittime senza voce. Scrive nel messaggio dell’8 settempre ’94: "Arriva la stagione delle piogge e molti rifugiati non hanno né tende né coperte… ma in Rwanda non c’è per nulla un clima che possa facilitare il ritorno: ci sono esecuzioni clandestine e sommarie tra la popolazione hutu che tenta di rientrare. È il regno dell’arbitrio militare".

      Due settimane dopo, in una lettera al rappresentante di Misereor: "Il problema essenziale è il ritorno rapido dei profughi in Rwanda. Essi non aspettano che questo, ma nella dignità e nella giustizia. Rifiutano la condizione di soggezione che esisteva in Rwanda decenni fa. Vogliono rientrare, ma hanno paura dell’arbitrio militare. I militari, essendo la sola autorità in funzione, si prendono il diritto di uccidere, e di fatto uccidono. Oltre la loro presenza, non esiste alcuna istituzione civile o giudiziaria che possa prendere la difesa della popolazione. C’è ragione di credere che la situazione della popolazione hutu in Rwanda sia quella dei Palestinesi, costretti a subire per lunghi anni la legge dei più forte".
      Il 16 gennaio del ’95, nel tentativo di spingere le chiese dell’Europa a esercitare una pressione morale e politica per la soluzione dei problema dei rifugiati, scrive loro: "La stragrande maggioranza dei profughi vorrebbe rientrare, ma non può: non ci sono le condizioni per il ritorno. Hanno paura di essere imprigionati su semplice accusa per fatti non provati, o di venire ammazzati se pretendono di riprendere possesso dei loro beni. Secondo testimoni obiettivi che vivono in Rwanda, i massacri continuano e si intensificano. Si calcola siano assassinate 5-10 mila persone al mese in Rwanda".
      Il 15 maggio ’95, dopo l’orribile carneficina perpetrata dall’Armata patriottica rwandese (Apr) sulla massa degli sfollati del campo di Kibeho (Rwanda), scrive di nuovo a Boutros Ghali: "Nelle condizioni attuali, i rifugiati che desiderano ritornare in Rwanda considerano il loro ritorno impossibile… Gli atti di genocidio perpetrati in Rwanda dall’ala dura del potere, e in modo particolare la carneficina di Kibeho, hanno mostrato il vero volto del potere di Kigali, e c’è da temere un ulteriore indurimento degli estremisti al potere: la loro volontà di eliminare al massimo la popolazione hutu…".

      CONTRO LA DISINFORMAZIONE DEI MASS MEDIA INTERNAZIONALI

      Anche nella già citata lettera a Carter del 30 gennaio ’96 ritorna sull’argomento: "I profughi si sentono disprezzati, e lo sono di fatto da parte di molti media, loro che nella grande maggioranza sono solo vittime degli estremisti, e non colpevoli".

      Il 28 aprile ’95 lancia un appello a una delegazione di organizzazioni del mondo cattolico europeo: "Sappiamo che i media occidentali diffondono sul dramma rwandese un’informazione partigiana che discredita i profughi. Cosa potete fare, sui vostri giornali, per far passare un’informazione obiettiva , che non snaturi la tragedia rwandese?".

      Nella difesa appassionata dei diritti dei profughi rwandesi, mons. Munzihirwa ha spesso denunciato le responsabilità di tanti media occidentali che, influenzati abilmente dal potere di Kigali, hanno costantemente mostrato la loro simpatia nel confronti del nuovo regime, sostenendo l’opera di "criminalizzazione globale" dell’etnia hutu e diffondendo un’informazione partigiana e molte volte menzognera. Già nel settembre del ’94 denunciava: "Certi ambienti europei sembrano essere influenzati e manipolati per condannare in blocco gli hutu. Allo stesso modo i media magnificano la disciplina quasi angelica dell’armata del Fronte patriottico rwandese (Fpr)! È ora che i veri promotori della democrazia facciano sentire il loro punto di vista sulla reale situazione dell’arbitrario che vige attualmente in Rwanda e che fa tremare i rifugiati".


      CONTRO LE IPOCRISIE DEL POTERE

      Come si vede, mons. Munzihirwa non si lascia illudere dallo sforzo umanitario messo in opera, ma si preoccupa per la mancanza di un reale impegno politico internazionale, bloccato da forze oscure. Insiste sulla cecità e malafede. Afferma nel messaggio dell’8 settembre ’94: "I modi di agire delle Nazioni Unite sono sconcertanti, quando permettono a degli avventurieri di prendere le armi, occupare il paese (Rwanda) e, una volta al potere, di sottomettere la popolazione nazionale. È il regno del’arbitrio e del terrore!" Qui il vescovo si riferisce di nuovo all’invasione armata del Rwanda a partire dall’ottobre ’90, fatto del tutto trascurato dall’opinione mondiale (cf. Missione Oggi, dossier giugno-luglio ’94). Invita con forza ad aprire gli occhi su quanto in realtà sta avvenendo: un nuovo, non meno grave, genocidio: "Prima siamo stati scioccati dal genocidio dei tutsi, ma oggi il mondo sembra tacere sul genocidio degli hutu. Sembra che si sia d’accordo che una minoranza armata, per mantenersi al potere, stermini una maggioranza non armata. Che logica!" (28 aprile ’95).

      "In Burundi e Rwanda le guerre fratricide non accennano a calmarsi. Gli ambienti internazionali hanno dato l’impressione di "stare a vedere" lo scatenamento delle forze di morte. Ci chiediamo se non c’era un preciso progetto, nascosto da qualche parte in oscure stanze. In Burundi, dall’ottobre ’93, non si sa ancora chi è stato il cervello dell’assassinio del presidente Ndadaye ; dei militari hanno eseguito il piano, ma chi l’ha pensato? chi ha dato gli ordini, chi ha confuso le piste delle inchieste e per quali interessi? Dappertutto si piangono morti; più del 25% della popolazione è spostata o rifugiata e vive nella paura e nella miseria.

      LA DENUNCIA DELL’AGGRESSIONE RWANDESE AL KIVU

      Gli appelli di mons. Munzihirwa sono inascoltati. Anzi, gli Stati Uniti procedono in senso opposto: ottengono dal Consiglio di sicurezza dell’Onu che venga tolgo l’embargo delle armi al Rwanda, così il regime di Kigali può ulteriormente consolidare la sua forza militare. "Senza che nessuno potesse allora immaginarlo – notava p. Querzani nell’ottore ’97 – iniziava la fase di preparazione dell’ultimo atto programmato della tragedia che si sta svolgendo nello Zaire: quello che prevedeva anche la conquista del Kivu e la destabilizzazione del colosso zairese". Mons. Munzihirwa aveva intuito già da un anno la minaccia di nuovi conflitti armati che pesava sulla popolazione zairese e l’aveva scritto al segretario generale dell’Onu, Boutros Ghali, il 15 maggio ’95:
      "Mentre le grandi potenze sembrano avallare lo statu quo e accordarsi sul fatto che lo Zaire debba integrare questi profughi, sul posto noi constatiamo i segni premonitori di possibili conflitti armati e di destabilizzazione di tutta la regione".

      L’intuizione diverrà drammatica realtà agli inizi dell’ottobre ’96. In un vibrante messaggio del 13 ottobre, che porta il titolo significativo Il Sud Kivu oggi è aggredito dal Rwanda, mons. Munzihirwa denuncia: "Forse che i dirigenti di Kigali non hanno mire espansionistiche? e non sono in questo sostenuti da alcuni paesi della regione (Uganda e Burundi) e da alcune potenze occidentali? In effetti, queste potenze si servirebbero della posizione geografica del Rwanda e della minoranza che governa questo piccolo paese per assicurarsi il controllo sull’avvenire politico, economico, strategico di quel gigante che è lo Zaire, e forse anche di altri paesi della regione dei Grandi Laghi… Facciamo appello alla responsabilità delle nazioni amanti della giustizia e dei diritti dei popoli, affinché operino per la pace e la stabilità di questa regione, risparmiando ai suoi abitanti il disastro che li minaccia".
      P. Querzani ricostruisce la drammaticità degli ultimi giorni di mons. Munzihirwa: "Il tentativo da parte dei più impegnati esponenti della società civile di Bukavu, incoraggiati dall’arcivescovo, per salvaguardare la popolazione di Bukavu dal panico e organizzare un movimento di auto difesa, veniva giorno per giorno vanificato dalla presenza irresponsabile dei militari zairesi, ai quali l’arcivescovo si sforzava invano di rivolgere appelli alla ragionevolezza e al senso di dignità umana. Al coraggioso pastore, morso dall’amarezza ma sostenuto da una fede pacata e incrollabile, non restava che la forza della parola che proclama la verità davanti al mondo e la forza della testimonianza".


      Nel messaggio del 22 ottobre denuncia apertamente: "Questa guerra, che i mass media chiamano dei Banyamulenge, è in realtà un’invasione che ha preso avvio dall’Uganda. L’armata degli invasori è composta da soldati ugandesi, rwandesi e burundesi e da altri mercenari, di gran lunga più equipaggiati dell’esercito zairese. Come è già avvenuto per l’invasione del Rwanda (a partire dall’ottobre ‘90 ndr), la popolazione si rende conto che questa invasione è stata largamente e minuziosamente preparata per occupare una parte dello Zaire".
      Nel messaggio del 26 ottobre insiste: "Constatiamo che il Rwanda e il Burundi aggrediscono lo Zaire, dopo che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha tolto l’embargo sulle armi destinate al Rwanda. Noi che apparteniamo alle diverse etnie che hanno sempre coabitato in pace e armonia nel Kivu, ci troviamo ora minacciati da una guerra che ci è imposta da stranieri, che hanno armato dei mercenari di ogni tipo per assicurarsi l’egemonia sulla nostra regione".
      La situazione precipita. Il pastore avverte imminente la burrasca finale. Il 28 ottobre rivolge un ultimo, brevissimo appello di fede e di speranza alla sua gente: "In questi giorni cosa possiamo ancora fare? Restiamo saldi nella fedeAbbiamo fiducia che Dio non ci abbandonerà e che da qualche parte sorgerà per noi un piccolo bagliore di speranza. Dio non ci abbandonerà se noi ci impegniamo a rispettare la vita dei nostri vicini, a qualsiasi etnia essi appartengano".
      Il giorno seguente verso l’imbrunire, gli verrà tolta la forza della parola profetica. Sarà assassinato là, sulla piazza della sua amata città.
      Facciamo notare che i drammatici messaggi di ottobre di mons. Munzihirwa erano stati da noi puntualmente trasmessi ai principali quotidiani italiani. Solo Avvenire ne aveva dato risonanza, con un articolo di Beppe del Colle in prima pagina. Negli altri giornali nessuna traccia, se non "dopo" la sua morte.

      LE RADICI

      L’ultimo appello del vescovo alla sua gente ci introduce nelle profondità a cui attingevano l’impegno e il coraggio di mons. Munzihirwa. È necessario tentare di esplicitarle, queste profondità, per cogliere lo spessore e il vero significato della sua testimonianza.
      Quando personalmente conobbi mons. Munzihirwa, era da pochi mesi vescovo di Kasongo. A prima vista, nulla in lui sembrava far trasparire le qualità che sarebbero poi emerse nella tragica realtà degli anni seguenti. La sua grande preoccupazione era la "formazione spirituale dei suoi futuri preti": nel seminario regionale, diceva, tutto mira solo ai loro studi, nessuno si preoccupa di aiutarli nel loro cammino personale di discepoli di Cristo. Chiedeva perciò un saveriano per poter avviare, nella sua diocesi, un anno specificamente rivolto a questa formazione, un po’ come avviene nell’anno di "noviziato" per i religiosi.
      Inoltre, vari sacerdoti locali, durante il periodo del ministero del suo predecessore, avevano lasciato la diocesi di Kasongo. Sua grande cura era di andare a cercarli uno per uno, ascoltarli e cercare di reinserirli in diocesi, oltretutto con forti carenze di personale. Chiedeva ai saveriani di una parrocchia della sua diocesi di accogliere uno di questi sacerdoti che si accingevano a rientrare, per un aiuto al suo inserimento spirituale-pastorale. La vita concreta in una piccola comunità pastorale gli sembrava il modo migliore per accogliere fraternamente e ridare fiducia a chi per tanti anni era rimasto separato dalla sua diocesi.
      Sono due piccoli fatti, ma indicativi delle vere radici di mons. Munzihirwa. Ci dicono che la sua successiva testimonianza non è stata un frutto improvviso, ma espressione logica di tutto un cammino di sequela di Cristo e di cura appassionata delle persone a lui affidate. Ci mostrano che dietro di lui non c’era semplicemente una "ideologia" o un "progetto" politico, ma la ricerca di un’ubbidienza al suo Signore, che lo apriva continuamente alla conversione, cioè al dono e all’accettazione di una progressiva conformazione a lui. Penso sia questa la radice profonda dell’impegno di mons. Munzihirwa. È la fedeltà alla sequela che, nella situazione drammatica in cui si è venuto a trovare, gli ha richiesto la sua testimonianza, una testimonianza fino al dono della vita, come il suo Signore. Il martirio poteva anche non esserci, la vita lui l’aveva già donata prima, nella sua sequela radicale di Cristo, che lo muoveva fino al dono di sé per i fratelli.
      Ancora nel documento del 3 agosto ’94, possiamo trovare esplicitate alcune linee di fondo del suo spirito: "Cristiani, anche se non possiamo impedire la violenza, dobbiamo sempre disapprovarla: bisogna saper dire No, un No assoluto. Altrimenti la zizzania si confonde con il buon grano. Il buon grano esiste, in quantità e qualità sorprendenti. Ne abbiamo le prove dalle recenti affermazioni dei numerosi tutsi venuti a cercare rifugio al Kivu, dicendo che dovevano la loro salvezza a dei coraggiosi hutu, testimoni del rispetto della vita, del rispetto della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo; confermano i segni di speranza percepiti tanto in Rwanda quanto in Burundi… Potremmo citare esempi analoghi di tutsi che proteggono degli hutu, di una mamma tutsi che ha preso sotto la sua protezione una ventina di scolari in fuga dal massacro.
      Il buon grano è Cristo, presente in mezzo alla zizzania anche nei momenti più scuri delle tragedie umane. Un atteggiamento controcorrente di tolleranza, uno sguardo sensibile alle forze dell’amore permettono di aprire la strada al disarmo e di ricostruire su delle basi veramente solide".
      Affiora netta la convinzione della testimonianza che il cristiano è chiamato a dare, anche dentro i conflitti e nelle tragedie umane più disperate: non esistono momenti in cui il Vangelo possa essere messo tra parentesi. Solo così la vita del cristiano diventa un pezzo di vita già nuova e, quindi, segno di speranza. Nella logica del dono della conformità a Cristo, il perdono è la massima espressione della condivisione della follia della pace: "In questi giorni in cui si continuano a scavare fosse comuni, in cui la miseria e la malattia si trascinano per migliaia di chilometri su strade, sentieri, campi, noi siamo particolarmente interpellati dal grido di Cristo sulla croce ‘Padre, perdona loro’. Questa misericordia di Dio che interrompe gli ingranaggi della vendetta dà fastidio ai militanti di tutte le sponde: ma in realtà, è lei sola che può spezzare definitivamente il cerchio infernale delle vendette. Il Signore nostro Dio ha perdonato e ci invita a perdonare. Soltanto questo eroico perdono è nella logica della salvezza".
      La ricerca della pace coinvolge tutta la nostra responsabilità. Come credenti abbiamo alcuni punti fermi, ma non delle ricette precostituite: le vie della pace e della riconciliazione vanno perseguite in una faticosa ricerca comune, aiutando il sano ad emergere e prendere radici. Mons. Munzihirwa, che era stato chiesto come moderatore delle forze della società civile di Bukavu, in questo sforzo è stato una guida.

      IL MARTIRIO DELLA CARITÀ

      Il martirio dei nostri tempi è "martirio della carità", secondo la felice espressione di Paolo VI. È sequela conseguente di Gesù, il quale ha dato la vita per i fratelli. Quasi dovunque questa carità assume le due forme della "difesa dei poveri" e del "rimanere a fianco delle vittime" dei vari oppressori di turno: abbiamo visto come anche in mons. Munzihirwa sono evidenti queste due forme. Una terza modalità è presente nella sua testimonianza di carità: il suo amore è indistinto, senza pregiudizi di sorta.
      Di ciascuna etnia in questione, tutsi e hutu, ripetutamente richiama il fatto che solo una parte si era resa colpevole; in ciascuna c’erano state persone che deploravano questa follia e che anzi avevano rischiato la propria vita per salvare persone dell’altro gruppo; come, anche, in ciascuna c’erano state enormi colpe di violenza e di vendetta. Per tutti erano necessari non solo il perdono e la misericordia ma anche una sincera conversione: un futuro di riconciliazione doveva camminare su questa strada. A pochi giorni dall’arrivo in massa dei rifugiati rwandesi, è questo l’impegno che indicava ai suoi cristiani di Bukavu:
      "A guardare gli avvenimenti con occhio obiettivo, ci si accorge che se da una parte e dall’altra c’è violenza e vendetta, ci sono delle masse innocenti e tranquille che non sono che vittime. Ci si accorge che vi sono da una parte e dall’altra, delle persone che deplorano questa follia e che fanno quello che possono per salvare delle vite umane, a rischio di passare per traditori, e a volte di subire la stessa sorte. In Germania, è stato necessario distinguere un tedesco da un nazista; in Libano, un musulmano da un islamico; in Rwanda, bisognerebbe distinguere un hutu da un membro delle milizie della morte e distinguere un tutsi da certi membri del Fpr che vogliono eliminare ogni opposizione".
      La direttiva ai suoi cristiani era chiara: "I discepoli di Cristo non possono dire di essere di Cristo se non hanno il coraggio di essere servitori di tutti e sentirsi solidali con tutti i poveri. Se vi sono dei rifugiati alla nostra porta, dobbiamo saper creare un clima di compassione dove sboccia l’aiuto reciproco perseverante: dobbiamo saper accogliere a casa nostra dei fratelli e delle sorelle, senza distinzione di razza o di classe sociale. Se dei movimenti di rientro verso i paesi d’origine di profilano, noi dobbiamo essere servitori del vicendevole aiuto, del dialogo, della misericordia e della riconciliazione, a tutti i livelli. Se un nuovo futuro di convivenza nazionale comincia a costruirsi, i discepoli di Cristo hanno il dovere di essere come il lievito nella pasta: non i militanti di parti intolleranti, ma portatori dello Spirito".
      P. Querzani conclude la sua testimonianza su mons. Munzihirwa con queste parole: "Grazie, mons. Christophe, vescovo, padre e fratello della tua gente, congolesi, rwandesi e burundesi, e di tutti noi". Era davvero questo il senso della sua vita.

      MEO ELIA ©MISSIONE OGGI

      Riportiamo alcune lettere dell’ottobre ’96, l’ultimo mese di vita di mons. Munzihirwa.

      PER LA RADIO VATICANA

      Negli ultimi tempi, il Rwanda ha moltiplicato gli attacchi armati contro l’Est dello Zaire, provocando numerose vittime civili nel Kivu.

      In un primo momento i bersagli sono stati i rifugiati. Richiamo i colpi con armi automatiche sul campo di Birava, nell’aprile del ’95, che hanno provocato 45 morti e oltre 100 feriti, in maggioranza donne e bambini. Richiamo, inoltre, le ripetute aggressioni di elementi dell’APR contro i campi profughi dell’isola di Idjwi e di Panzi, vicino a Bukavu.
      Mine anti-persona o anti-carro sono state continuamente messe sulle strade della regione di Bukavu e di Goma. Il frequente scoppio di queste mine provoca danni alle persone, anche tra la popolazione zairese del Sud e Nord Kivu.
      Ora gli attacchi del Rwanda contro il Sud Kivu si stanno intensificando. Il 22, 23 e 24 settembre, la città di Bukavu è stata violentemente attaccata con colpi di armi pesanti provenienti dal Rwanda, causando morti e danni materiali.
      I mezzi di trasporto dei commercianti che percorrono la strada montagnosa di Nkomo sono oggetto di colpi di arma da fuoco da parte dei militari rwandesi appostati nell’altro versante del fiume Ruzizi. Questo provoca l’interruzione dei trasporti tra la città di Bukavu e la zona di Uvira.
      L’isola di Idjwi e i pescatori dei lago Kivu sono ogni giorno tormentati dalle pattuglie dell’APR, che sparano su tutto ciò che si muove.
      Le zone di Uvira, Mwenga, Fizi, Walungu sono attualmente teatro di combattimenti tra le bande armate tutsi provenienti dal Rwanda e l’esercito zairese. Alcuni sostengono (ma deve essere verificato) che elementi ugandesi combattano a fianco degli aggressori formati in Rwanda.
      Le bande armate di questi sono composte da persone vissute in Zaire come rifugiati o come trapiantati, che oggi si fanno chiamare "banyamulenge", "zairesi di lingua rwandese". Recentemente hanno aiutato il Fronte patriottico rwandese a conquistare il potere in Rwanda con le armi.
      Oggi uccidono zairesi e distruggono numerose infrastrutture nelle regioni dei combattimenti. Abbiamo appena saputo che il 6 ottobre hanno massacrato due preti locali della parrocchia di Kidote in diocesi di Uvira, dopo avere saccheggiato la casa parrocchiale. Sembra che abbiano anche saccheggiato e distrutto l’ospedale rurale di Lemera.
      Le autorità zairesi avevano in precedenza comunicato l’uccisione di almeno 35 abitanti delle montagne di Uvira e un numero ancora più grande in quelle di Fizi.

      LE MIRE DEL GOVERNO RWANDESE

      Che cosa vuole Kigali con questi attacchi dal suo territorio contro lo Zaire e con l’invio di elementi del suo esercito a fare la guerra allo Zaire?

      1. Il governo di Kigali mira a bloccare per lungo tempo o forse anche per sempre il rimpatrio dei rifugiati?

      Tutt’oggi c’è ancora più di un milione di rifugiati rwandesi in territorio zairese. Come abbiamo spesso mostrato, questi rifugiati sono indesiderati dal governo di Kigali. Difatti, ogni volta che c’è in ballo il loro ritorno, Kigali pone un segno contrario: arresti, espropriazioni, assassinii, siluramenti e tutta una politica di esclusione nei confronti dell’etnia maggioritaria.

      Tutto questo non impedisce ai dirigenti di Kigali, grazie dell’audience di cui beneficiano presso certi media e organismi internazionali, di fare i loro discorsi menzogneri. Dichiarano di essere disposti ad accogliere tutti i rifugiati senza condizioni. Accusano i paesi che hanno accolto i rifugiati, in particolare lo Zaire, di frenare il loro ritorno in Rwanda, trattano tutti i rifugiati come colpevoli di genocidio… Questo non incoraggia certo i rifugiati a ritornare il Rwanda. Lo Zaire vuole che ad ogni costo i rifugiati rientrino a casa loro. Kigali conta di realizzare il suo scopo: opporre i rifugiati e i loro ospiti, fatto che provocherà scontri mortali, con grande gioia delle autorità rwandesi.

      2. Kigali teme di un’eventuale guerra interna in Rwanda?

      In questi giorni sono avvenute infiltrazioni di soldati dell’ex esercito governativo rwandese (Far) e si accusa lo Zaire di sostenere queste iniziative. Come si può evitare che questo si verifichi, se il governo di Kigali persiste nel suo rifiuto di ogni dialogo con i rifugiati?

      3. I dirigenti di Kigali hanno mire espansionistiche?

      Non sono in questo sostenuti da certi paesi della regione e da alcune potenze occidentali? In effetti, queste potenze, che dichiarano di volere incoraggiare la democrazia, si servirebbero della posizione geografica del Rwanda e della minoranza che governa questo piccolo paese per assicurarsi il controllo sul futuro politico, economico, strategico del gigante che è lo Zaire e forse anche di altri paesi della regione dei Grandi Laghi.

      Questo atteggiamento del Rwanda e dei suoi alleati è estremamente pericoloso:

      - provocherà tremendi danni umani nella nostra sotto-regione e lo stesso Rwanda non ne sarà esente;
      - non servirà che a isolare il Rwanda, attirandogli l’odio delle altre etnie della regione;
      - questo progetto espansionistico non ha a sua volta delle tendenze genocide?

      Facciamo appello alla responsabilità delle nazioni amanti della giustizia e dei diritti dei popoli, affinché operino per la pace e la stabilità di questa regione, risparmiando ai suoi abitanti il disastro che li minaccia.
      Termino ricordando che la guerra è sempre qualcosa di odioso. Quanti amano questa regione, lavorino per costruirvi strutture di giustizia, di riconciliazione, di perdono e di pace.

      Mgr. C. Munzihirwa
      Bukavu, 8 ottobre ‘96

      ALLA CHIESA DI BUKAVU

      (Questa lettera di invito all’unità è stata letta nelle chiese di tutta la diocesi di Bukavu il 13 ottobre ’96).

      Un solo dito non può schiacciare i pidocchi. Una sola mano non può suonare bene il tamburo.

      Cari fratelli, stiamo uniti e cerchiamo insieme come salvare il nostro paese.

      1. La storia della nostra città ci mostra che è sempre stata l’unione a farci salvare Bukavu. Abbiamo visto i problemi sorti dall’arrivo dei soldati che parlano rwandese e di quelli che invece di difenderci si sono messi a rubare e depredare gli abitanti di Bukavu.

      2. Ci congratuliamo con voi per la vostra unione e perché avete cercato di impedire i saccheggi e le violenze. Ci congratuliamo pure con i soldati che hanno assicurato l’ordine e la calma nella nostra città, impedendo ai soldati fuggiaschi di angariare la gente. Stupisce vederli assalire l’ospedale dove sono stati curati i loro compagni feriti. Chi sono questi soldati? Pare siano dei giovani sbandati che hanno abbandonato la scuola e poi sono stati arruolati nell’esercito. Invece di difendere la patria sono preoccupati di rubare e di procurarsi un bottino che sperano portare nei loro luoghi di origine…

      3. Chiedo ai giovani di Bukavu di non vagabondare senza fare nulla. Chiedo pure loro di non continuare ad accusare il prossimo perché sia maltrattato dalla polizia segreta. Piuttosti si preoccupino di stare uniti per scacciare i ladri che, armati, assaltano la gente. C’è serio pericolo di guerra:

      - non sapete che da quattro mesi l’Uganda, il Rwanda e il Burundi stanno radunando quasi 7000 militari con l’intenzione di venire a distruggere i campi dei profughi da Uvira fino a Goma?

      - non sapete che in questi giorni nella valle della Ruzizi ci sono dei blindati pronti ad assalire la popolazione dello Zaire, anche se momentaneamente sono diretti verso l’aeroporto di Bujumbura per ingannare la gente?

      - non sapete che il governo del Burundi sta istruendo alla guerra tutti i giovani che terminano la scuola superiore?

      - non sapete che vari uomini sono passati qui nel ‘busch’ ieri l’altro, provenienti dall’Itombwe?

      Noi, cosa facciamo per impedire questi attacchi?

      Vegliamo e rendiamoci conto dell’intenzione di massacro, per scongiurarlo con la nostra preghiera e la nostra concordia. Non ci capiti mai di fare violenza contro persone innocenti. Evitiamo discriminazioni e ogni progetto che mira ad uccidere dei fratelli, anche se di un’altra etnia. Ogni persona dev’essere considerata innocente finché non è dimostrata chiaramente la sua colpevolezza…

      Mgr. C. Munzihirwa
      Bukavu, 13 ottobre ‘96
      (Traduzione dalla lingua swahili).
      MEO ELIA

      tratto da www.saveriani.bs.it/missioneoggi/

      * Leggi anche alcuni passi di lettere di Mons. Munzihirwa

      “Speriamo che il Signore non ci abbandoni e che da qualche parte nel mondo possa venire una fiammella di speranza”.
      (Ultimo messaggio dell’arcivescovo di Bukavu Christophe Munzihirwa, lanciato il 28 ottobre 1996 a chiunque fosse in ascolto. L’indomani fu ucciso).

      "Il Profeta fa da sentinella: vede l'ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio" (Ezechiele 3, 16-18)


              L’altro titolo con cui lui stesso amava chiamarsi era zamu, sentinella, custode del popolo e della città. Vincent Masudi, bibliotecario del collegio Alfajiri, puntualizza: “Zamu è colui che fa la guardia alla casa, soprattutto di notte. Zamu analala macho wazi, una sentinella, quindi, dagli occhi aperti. Munzihirwa era la sentinella del suo gregge per tenere lontano predoni e nemici di ogni sorta con la sua voce potente di pastore e di padre”. Era anche custode della tradizione e dei valori autentici della cultura africana. Molti lo hanno paragonato a Oscar Romero, vescovo e martire di San Salvador. Infatti, quando Munzihirwa era vescovo di Kasongo, una diocesi a 300 km a est di Bukavu negli anni ’90, e Mobutu aveva ordinato il saccheggio della città perché credeva vi si fossero rifugiati alcuni soldati ribelli, gridava: “Qui davanti a me vedo soldati, vedo il colonnello. Basta angariare la gente. Vi chiedo, vi ordino: basta! Fermatevi!” Il comandante voleva arrestarlo e lui: “Sono pronto, arrestatemi”. Altri vescovi presenti, tuttavia, intervennero e i soldati lo lasciarono libero. Dopo il genocidio del Rwanda nel 1994, mons. Munzihiwa divenne un autentico difensore dei rifugiati hutu, che a migliaia avevano inondato la sua diocesi. Era convinto che pochi avessero commesso atrocità contro i tutsi e la maggior parte fossero vittime innocenti. Qui la sua voce era veramente evangelica, domandando riconciliazione al di là di ogni elemento etnico. “In questi giorni in cui continuiamo a scavare fosse comuni, dove la miseria e la malattia sono presenti per migliaia di chilometri, sulle strade, lungo i sentieri e nei campi, siamo particolarmente messi in crisi dal grido di Cristo sulla croce: ‘Padre, perdona loro’. La misericordia di Dio, che spezza la catena della vendetta, chiama tutti, di qualunque fazione, a cambiare. È la sola cosa che può definitivamente spezzare la spirale infernale della vendetta”. Il suo martirio non fu una sorpresa, almeno per lui. In una meditazione di Pasqua aveva scritto: “Nonostante l’angoscia e la sofferenza, il cristiano che è perseguitato a causa della giustizia trova pace in un completo e profondo atto di fede in Dio, seguendo la propria vocazione che può portare alla morte”. P. Bordignon riferisce di un altro evento: “Una settimana esatta prima di essere assassinato, dopo una dichiarazione sullo stato reale della regione e sul tradimento delle autorità congolesi aveva detto: ‘Oggi mi sono giocato la vita: ho sottoscritto la mia condanna a morte’. Ha dato la sua vita per la gente. Poteva non uscire e rimanere nell’arcivescovado quando i bombardamenti erano diminuiti di intensità. Ha preferito correre il rischio e andare lui stesso incontro al martirio per poter salvare le centinaia di migliaia di persone che correvano come lui il rischio di morire nella violenza cieca che dominava il cuore di tanti. E lì, sugli spalti della sua città che amava, ha sparso il suo sangue”. Mons. Munzihirwa, benché avesse un dottorato in sociologia, non ha scritto molte lettere o documenti pastorali, ma la sua vita e la sua testimonianza di cristiano e africano formano una rara combinazione che incoraggia e dà fiducia a tanti in quel di Bukavu. A lui guardano sia la società civile sia le comunità cristiane in tutto il Congo. Si spera un futuro di pace e di serenità.

      Con l’indipendenza politica dei Paesi colonizzati, la maggioranza dei missionari e delle missionarie capì l’errore di aver involontariamente servito i paesi colonizzatori ed ebbe il coraggio di porsi dalla parte delle vittime. Non pochi di loro aderirono alle lotte d’indipendenza e aiutarono i Paesi del Terzo mondo non solo a conquistarla, ma anche a munirsi di legislazioni adeguate ai tempi nuovi.



      Nicola Colasuonno

      BALCANI D'AFRICA
      Interviste per "capire"


      INTERVISTA A P. TOUSSAINT KAFARIRE MURHULA
      A CURA DI FAMMY MIKINDO

      Quale eredità spirituale ha lasciato mons. Munzihirwa alla Chiesa e alla città di Bukavu? 

      Credo che Munzihirwa avesse uno sguardo profetico sulla storia e sulla situazione della nostra regione. Aveva una visione che andava al di là delle frontiere. Già nel 1994, aveva conosciuto la tragedia del genocidio del Rwanda, col flusso delle migliaia di profughi nell’est del Congo, e, come uomo di Dio e della Chiesa, avvertiva la gente su un pericolo molto più vasto: l’onda di violenza che rischiava di decimare il popolo nella regione di Grandi Laghi. Infatti la tragedia del genocidio nascondeva un rischio molto grave: il tribalismo e le sue derive. Aveva anche chiesto alle comunità che, pur restando accoglienti verso i profughi, fossero vigilanti, difendendo i valori morali e cristiani, “che occorreva promuovere e salvaguardare a tutti i costi”. Così non ha esitato a scrivere a tutti i grandi del mondo, alle Nazioni Unite, al presidente della Francia, all’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, per spiegare che il genocidio, i profughi esigevano una soluzione molto più ragionata e più umana.
      La voce di Munzihirwa, che era tutta dalla parte del Vangelo, della verità che libera dai timori, aveva disturbato molti politici nella regione. Credo che faccia parte della sorte dei martiri, ma era anche il frutto del suo impegno sociale e politico come uomo di Chiesa, come religioso. Ritengo che Munzihirwa ci lasci un’eredità importante: quella di denunciare le menzogne politiche, gli interessi dei capi che strumentalizzano la persona umana; l’uomo o la donna restano il valore fondamentale per il quale Cristo stesso è morto e ciascuno di noi deve potersi impegnare.

      Alcuni hanno chiamato mons. Munzihirwa “la sentinella”. Ma sentinella di che cosa, di chi?

      È una similitudine ricca di significato. La sentinella è un custode notturno. Munzihirwa è stato il custode dei valori, della tradizione africana.Nella sua saggezza aveva saputo mettere insieme passato e presente della nostra società.

       Quale è il vostro punto di vista su una sua eventuale canonizzazione?

      Sappiamo che questo richiede sempre molto tempo nella Chiesa. Ma non è impossibile e penso che il procedimento sarebbe dovuto già iniziare. Un santo è un modello nella Chiesa, cioè qualcuno che è dato alla comunità dei credenti come un esempio da seguire nella vita di fede e nella crescita umana. La canonizzazione di mons. Munzihirwa sarebbe un segno forte espresso dalla comunità ecclesiale, non soltanto nell’arcidiocesi di Bukavu, ma nella intera Chiesa del Congo. L’Africa ha conosciuto molti martiri, soprattutto per il loro impegno. Penso che la testimonianza di mons. Munzihirwa, i suoi scritti ed il suo lavoro gli diano quell’aureola di un esempio reale in un momento in cui in Africa cerchiamo modelli di responsabilità. Mons. Christophe Munzihirwa resta una voce molto autorevole per la Chiesa e per tutta la società congolese e africana. È un uomo che, nonostante le sue debolezze, si è lasciato raggiungere dalla grazia di Dio, per compiere le sue molteplici opere in piena responsabilità.

      La gente che lo ha conosciuto parla di Munzihirwa come di uomo realmente rigoroso. Come spiegate quest’atteggiamento? 

      Viviamo in un momento in cui il lassismo o la perdita del senso morale è molto accentuato. Ciascuno pensa di fare ciò che vuole senza rendere conto a nessuno. Sembra che non ci siano più riferimenti. Ma in mons. Munzihirwa, c’era un grande senso di responsabilità, un senso della comunità; solo all’interno di una vita condivisa il destino individuale assume tutta la sua portata. Il valore della vita individuale è visto soltanto all’interno di un destino comune, di una storia vissuta insieme, di una comunità condivisa. Forse in questo senso mons. Munzihirwa doveva essere rigoroso. In primo luogo rigoroso con sé stesso. Coloro che lo conoscevano sanno che non era un uomo di grande pompa. Non esibiva la sua posizione di arcivescovo o prelato; era molto discreto, indossava vestiti comuni, poveri, e a volte gli stessi vestiti, tutti i giorni. Questo stile di vita voleva che diventasse un esempio e una sfida per noi. Guardando la società congolese di oggi c’è da chiedersi dove siano finiti quegli uomini di valori. Mons. Munzihirwa resta per noi questo modello, la voce che non sono riusciti a fare tacere, ma che continua a parlare anche in silenzio nella nostra coscienza, nella nostra notte di valori e ci mostra un cammino da seguire, il cammino della liberazione, della verità e dell’amore fraterno che Cristo è venuto ad annunciarci.

      Intervista e biografia tratte da: "Missione Oggi" di Ottobre 2006;


      Un' altra interessantissima intervista è quella di Damaso Maniscalco a padre Minani Bihuzo da "Narcomafie" n. 12, Dicembre 1996; vecchia di alcuni anni ma quanto mai attuale e preziosa per comprendere cosa sta succedendo a tutt'oggi nell'Africa Centrale. Qui si parla ancora di Zaire (oggi esistono sulle sue ceneri due Stati, Repubblica Democratica del Congo - terra invasa ancora oggi dagli stati confinanti - e Repubblica del Congo-Brazzaville), ma il succo, purtroppo, non cambia. Per chi vuole intendere …


      Lo hanno ucciso a bastonate il 29 ottobre scorso (1996, ndr), il suo amico monsignor Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu. Assassinato barbaramente "da ignoti" il giorno stesso dell'invasione dello Zaire. Si erano conosciuti ai tempi del seminario, avevano lavorato spesso insieme. L'ultima volta nel '94, come mediatori nel corso delle negoziazioni relative alla ricerca di una pace possibile in Ruanda e Burundi. Oggi Minani è borsista a Palermo al centro "Arrupe" di Padre Sorge e da lì, fra le altre cose, gestisce i rapporti delle Associazioni della società civile del Kivu con l'Unione Europea e gli altri organismi internazionali. Il padre gesuita Rigobert Minani Bihuzo, zairese, massimo esperto di geopolitica della regione dei Grandi Laghi nonché amico fraterno di Monsignor Munzihirwa svela a Narcomafie i retroscena che nessuno ha mai raccontato della morte dell'Arcivescovo di Bukavu e dei conflitti che dilaniano l'Africa Centrale.


      Padre Minani, quali sono le ragioni storiche ed etniche dell'attuale conflitto nella regione del Grandi Laghi?

      Per comprendere fino in fondo bisogna fare un passo indietro e ritornare al periodo dei movimenti di indipendenza nazionale. In Ruanda la popolazione Hutu è stata per molti secoli dominata dall'etnia Tutsi che i missionari e i colonizzatori avevano scelto come interlocutore privilegiato anche per meglio controllare l'altra etnia prevalente nella regione, quella degli Hutu. Gli Hutu hanno cominciato a ribellarsi e a chiedere una maggiore democrazia nello stesso periodo in cui missionari e colonizzatori si sono resi conto di doversi sbarazzare dei Tutsi che reclamavano libere elezioni e l'indipendenza. Da un certo momento in poi, allora, gli occidentali promuovono la leadership Hutu. Nel 1959 gli Hutu fanno quella che loro stessi hanno definito "la rivoluzione sociale". Prendono il potere dopo una tornata elettorale che li vede vincitori fondamentalmente perché molto più numerosi dei Tutsi, scatenano la caccia ai dignitari di corte (il Ruanda fino ad allora era un regno) ed esiliano i Tutsi più influenti. Queste vicende segnano in Ruanda l'inizio della tragedia perché i rifugiati torneranno in patria solo dopo trent'anni, nel 1990. Il governo Hutu del Ruanda in questo periodo realizza di fatto un governo etnico, non permette il rientro dei Tutsi perché teme sussulti monarchici e anche perché le terre dei rifugiati Tutsi sono ormai occupate da Hutu fin dal 1959. I Tutsi esiliati si raggruppano per organizzare il rientro in Ruanda. Ce la faranno solamente nel '90.

      L'arcivescovo di Bukavu aveva di recente denunciato la possibilità di un conflitto fomentato da interessi stranieri.

      Lei crede che sia stata questa la causa di una così brutale esecuzione?

      Sì. E per capirlo bisogna sapere chi era l'Arcivescovo di Bukavu. Si era formato in Ruanda e conosceva molto bene l'ambiente ruandese. Era tra le poche persone che all'Est parlano la lingua del luogo, perché ha vissuto a lungo nella provincia orientale dell'Africa Centrale. Aveva una visione globale dei problemi della regione dei Grandi Laghi. Da tempo monsignor Munzihirwa si era reso conto che le potenze occidentali anziché favorire la riconciliazione e un'equilibrata redistribuzione del potere tra i due popoli, giocano ad appoggiare di volta in volta i diversi gruppi etnici a seconda delle esigenze del momento e ha denunciato questa politica che mira unicamente al controllo dell'Africa Centrale. Si è così ritrovato ad avere numerosi nemici tra i Tutsi che ritenevano la sua attività a favore della conciliazione e della pace una minaccia. Gli Hutu invece non gli perdonavano la denuncia, forte e chiara, del genocidio del 1994 e di chi l'aveva materialmente eseguito. Ha avuto conflitti e dissapori con gli americani che hanno più volte mandato il loro ambasciatore per trovare punti di accordo. Monsignor Munzihirwa era l'unico a criticare l'ambasciatore americano. Si era collocato di fatto al centro dei conflitti ed era probabile che un giorno o l'altro avrebbe pagato con il martirio il suo appello per la pace, quella vera.

      Il Sud-Kivu nell'ultimo quinquennio è stato il motore della rinascita della società civile zairese, lo testimoniano le numerose associazioni di base che hanno fatto da interlocutori alle Organizzazioni non governative di cooperazione allo sviluppo. Da qui è cresciuta la rivolta anti-Mobutu e da qui sono partite le iniziative di negoziazione in Ruanda e Burundi, anche alla luce delle conseguenze sullo Zaire. […]

      Chi ha cominciato? All'inizio tutti dicevano che era colpa dei ribelli Tutsi presenti nella zona degli scontri e nel Kivu. Ma qual è la realtà dei fatti?

      I giornalisti hanno scelto di parlare di ribelli Tutsi, chi è più informato parla di Banyamulenge. I Banayamulenge sono in maggior parte ruandesi di origine Tutsi che a cavallo tra il 1800 e il 1900 sono scappati alla morsa del regime particolarmente crudele di un re Tutsi e hanno chiesto asilo alla tribù dei Bavira e a quella dei Bafulero che vivevano presso la collina di Mulenge dalla quale i rifugiati hanno poi preso il nome. Quindi l'etnia Banyamulenge non esiste nello Zaire. Si tratta di Tutsi che hanno preso un nome diverso per testimoniare il fatto che sono stati accolti dalla popolazione di Mulenge. Il gruppo di Banyamulenge è molto piccolo, ma a seguito dei conflitti in Ruanda altri Tutsi si sono aggiunti a quelli che vivevano sulla collina di Mulenge e nell'altipiano di Itombwe. Il problema è sorto quando tutti gli altri Tutsi arrivati nel corso delle ondate successive hanno reclamato la nazionalità zairese. Ciò ha innervosito non solo la popolazione locale che li aveva accolti ma anche le autorità locali anche perché di fatto questi rifugiati hanno sempre proclamato di essere ruandesi pur esigendo la nazionalità zairese. Ciò fa capire come "la guerra dei Banyamulenge" sia solo un pretesto, loro non hanno né la forza né la capacita di promuovere una guerra nello Zaire.

      Quali le cause degli scontri, allora?

      Il conflitto in corso altro non è che il secondo episodio di ciò che è iniziato nel 1994. Quando in Ruanda si scatena la guerra e si consuma il genocidio i rifugiati ruandesi attraversano la frontiera ed entrano nello Zaire. I gruppi ribelli Tutsi, protagonisti della lotta armata già dal 1990, prendono poi il potere in Ruanda e chiedono di processare i responsabili del genocidio compiuto dagli Hutu, ma allo stesso tempo dichiarano d'ufficio responsabili tutti gli Hutu e ne arrestano gli intellettuali. Dal luglio 1994 il governo ruandese chiede alla comunità internazionale di aiutarlo nella ricerca dei responsabili del genocidio rifugiati nello Zaire. La comunità internazionale non l'ha aiutato e il governo zairese non aveva né ha i mezzi per controllare il milione di profughi e i 40.000 militari ruandesi sul suo territorio. Nello stesso periodo si intensifica il conflitto etnico nel Burundi. Dopo l'assassinio da parte dei Tutsi del presidente N'Dadayé nell'ottobre 1993, gli Hutu hanno cominciato la guerriglia e in un certo numero si sono rifugiati in Zaire. I Tutsi, sia in Ruanda sia in Burundi, non hanno mai fatto mistero di voler restare permanentemente al potere, ma poiché la loro popolazione è inferiore sul piano numerico a quella Hutu devono fare in modo di garantirsi la sicurezza. Questo è il loro principale problema: proteggere i propri confini dalle incursioni degli Hutu rifugiati nello Zaire. Certo il Ruanda non poteva attaccare lo Zaire senza una ragione. Ha quindi preso come pretesto i problemi di nazionalità all'interno della popolazione Banyamulenge e ha utilizzato i giovani Banyamulenge arruolatisi nel Fpr (Fronte Patriottico Ruandese) che sono stati prima istruiti e poi sostenuti da militari ruandesi, burundesi e ugandesi nell'invasione della regione orientale dello Zaire. I Banyamulenge sono solo un pretesto, tirarli in mezzo è cosa molto ipocrita: quello che succede oggi è il tentativo di Ruanda e Burundi di risolvere i propri problemi di sicurezza attraverso il disordine nello Zaire. Poiché finché ci sarà caos e guerra nell'Est del paese, non ci saranno più incursioni oltre i loro confini. Questa è la chiave di lettura dell'attuale conflitto. E' chiaro comunque che la questione Banyamulenge dovrà essere in futuro risolta, ma non è certo il casus belli, tanto più che sono in molti a riconoscere che è l'esercito ruandese ad aver invaso lo Zaire. […]


      Chi finanzia questa guerra? Chi invia le armi?

      Qui entriamo nella questione più importante, già denunciata da Monsignor Munzihirwa. Lui diceva che molte nazioni vogliono servirsi della regione dei Grandi Laghi come mercato per il traffico di armi. Per gli osservatori delle vicende della nostra regione, in effetti la situazione è sempre più chiara. In realtà gli obiettivi di questa guerra sono tre: il primo è quello di smantellare i campi profughi e questa è una tesi difesa da molti esperti americani. La U.S.C. Refugees ha pubblicato un documento nel quale si chiede di smantellare i campi, il direttore di Usaid (Agenzia Americana di Cooperazione allo Sviluppo) di recente a Ginevra ha abbracciato la medesima tesi, così come Warren Christopher. Quindi gli americani spingono per lo smantellamento dei campi. Il secondo obiettivo è quello di poter uccidere il maggior numero di Hutu possibile, poiché in caso di probabili elezioni democratiche i Tutsi rappresentano solo il 10% del corpo elettorale e quindi maggiore sarà il numero dei morti maggiore saranno le possibilità di vittoria nelle "future" elezioni generali. Con ciò si capisce il motivo dei bombardamenti dei campi: lo scopo non era far fuggire i profughi, ma ucciderli. E ora li stanno spingendo verso l'interno dello Zaire, in piena foresta equatoriale, dove le condizioni climatiche sono impossibili, proprio per generare quella che si può definire "una catastrofe umanitaria" perché muoiano a migliaia. Un terzo obiettivo - che va al di là del quadro geopolitico locale - è quello di creare il cosiddetto impero Ima o regno dei vulcani. Da un po' di tempo si parla di Hutuland e Tutsiland. È opinione di alcuni osservatori che i Tutsi vogliano realizzare il loro regno facendo saltare le attuali frontiere. E a partire da questo si capiscono le affermazioni del presidente del Ruanda, il quale ha dichiarato che una parte dello Zaire apparteneva al regno ruandese. Esiste un progetto di impero dei vulcani di cui molti testi parlano.

      Ma a chi e a che cosa servirebbe questo impero lma, questo potere forte nella regione dei Grandi Laghi ?

      È in questo progetto che gli interessi stranieri entrano in gioco. Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, il mondo americano non ha più nulla da temere dal mondo sovietico. Per gli Stati Uniti il terrorismo diventa allora il nemico numero uno, e di riflesso il mondo arabo. Da qui si comprende il comportamento tenuto con la Libia, l'lrak e il Sudan. Per gli americani uno dei santuari del terrorismo è il Sudan. Da diversi anni ormai forniscono le armi a John Garang il capo dei ribelli che lottano contro il potere islamico di Karthoum. Ma lui non è abbastanza forte per contrastare il governo di Khartoum appoggiato da Irak, Iran, Libia. Serve una base di retroguardia per fare un giorno una guerra diretta contro il Sudan. In Uganda ci sono molti esperti militari americani, ma l'Uganda è un paese troppo piccolo. Per parte sua, lo Zaire è fuori dal progetto ed è per questo che diventa fondamentale l'appoggio del Ruanda e del Burundi: per costruire uno Stato più grande che abbia una forza d'urto sufficiente per fare prima o poi la guerra nella zona meridionale del Sudan e destabilizzare quello che gli americani definiscono "il santuario dei terroristi". Qui la faccenda però si complica poiché le armi utilizzate nel conflitto sono in parte dono del governo americano, in parte del Sudafrica (ma negoziate dagli americani per il governo ruandese) e in parte di Israele. Tutti e tre i paesi sono alleati degli americani. Le armi dunque provengono da chi ha interessi più vasti rispetto a quelli locali. Ne consegue che di fronte ai primi, gli interessi dei paesi africani passano in secondo piano. Nasce da qui la scissione tra mondo anglofono e mondo francofono che si è evidenziata da quando sono cominciate le negoziazioni.
      Dall'inizio del conflitto Parigi e Washington si accusano a vicenda - con un accanimento notevole - di ingerenza negli affari interni degli Stati africani.

      […] La Francia è alleata di Mobutu (l'ex presidente dello Zaire, ora RDC) non certo per affinità ideali, ma perché Mobutu può negoziare il passaggio dell'esercito sudanese per attaccare i ribelli del sud (John Garang) a partire dal territorio zairese. […]


      E gli americani?

      Gli americani sono schierati con il mondo ebraico e cercano di mantenere un controllo su "fronte", mentre i francesi cercano di controbilanciare la supremazia americana schierandosi o sostenendo le posizioni del mondo arabo e dell'Irak. Questo è di fatto il nodo della "guerra diplomatica" tra Stati Uniti e Francia visto attraverso il monocolo del mondo arabo e ebraico. Ed è quello che succede, per altri versi, nella regione dei Grandi Laghi, dove si sono fatti sempre più forti i legami di Uganda, Ruanda e Burundi con il mondo anglofono e dove la Francia per non perdere la sua supremazia appoggia lo Zaire in una lotta contro il mondo anglofono. A questi interessi strategici delle potenze occidentali si assommano quelli di carattere economico. Oggi la lingua è uno strumento molto importante per il business. Se Ruanda e Burundi verranno conquistati alla causa americana si formerà un corridoio anglofono che partendo dal Sudafrica raggiungerà l'Egitto, passando per Zimbabwe, Malawi, Zambia, Tanzania, Kenya, Burundi, Ruanda, Uganda, Somalia, Etiopia, Eritrea ed Egitto. Un corridoio linguistico forte che potrebbe controbilanciare il corridoio francofono dell'Africa Occidentale. Una guerra di lingua fatta sulla pelle dei popoli africani. A questo si aggiunga la questione strettamente economica delle riserve di materie prime. Lo Zaire è uno scrigno ricco di materie prime che saranno strategiche nel nuovo millennio. La prima bomba atomica fu costruita con l'uranio proveniente dallo Zaire e da quella data sono state chiuse le miniere. Le riserve di rame, diamanti e oro sono molto consistenti così come quelle di gas naturale. Lo Zaire possiede inoltre il 40% della foresta pluviale africana, la seconda per estensione dopo quella amazzonica, risorsa strategica per il prossimo millennio e nell'immediato per le numerose multinazionali della chimica farmaceutica. Anche per questo il controllo dello Zaire diventa un obiettivo importante della contesa tra Stati Uniti e Francia. Una guerra combattuta con mezze parole e che ha come fine il blocco dell'iniziativa dell'altro. Tutto questo di fatto impedisce lo svilupparsi di un processo di pace nei territori del conflitto. GIi interessi che contano sono quelli non dichiarati e i capi di Stato africani della zona si fanno manipolare per il vantaggio altrui. Questa è la nostra sciagura: non abbiamo capi di Stato che abbiano a cuore l'interesse del loro popolo piuttosto che quello dei nostri protettori. È il caso di Mobutu sostenuto dalla Francia a dispetto di tutto e di tutti perché può manipolarlo come vuole, o di Kagame (l'attuale presidente ruandese, ndr), vicino alle posizioni americane, ma è anche il caso del Burundi dove non emerge una leadership e dove i militari fruiscono della protezione totale del governo ugandese.


      A suo parere le Nazioni Unite e le Organizzazioni di cooperazione internazionale hanno impostato una politica corretta sui rifugiati?

      I problemi dell'Onu sono tipici di tutte le organizzazioni complesse. Qui gli Stati Uniti riescono spesso a imporre il loro punto di vista. Le decisioni delle Nazioni Unite vengono prese dal Consiglio di Sicurezza nel quale i vari paesi membri hanno interessi divergenti e spesso contraddittori. Per questioni di interesse strategico come quelle che riguardano l'Africa Centrale non ci si può attendere grandi cose dalle Nazioni Unite. La situazione attuale è chiara: oltre un milione e mezzo di persone (dei quali oltre il 60% sono donne e bambini) vengono bombardate dall'esercito ruandese e le Nazioni Unite non hanno espresso condanne. Così come è evidente che dietro gli scontri nello Zaire ci sono Uganda, Ruanda e Burundi coalizzati per attaccare il paese su sette diversi fronti lungo oltre 300 km di frontiera, mentre le Nazioni Unite continuano a parlare di ribelli perché non vogliono vedere le cose per quello che sono. E per i rifugiati si pone lo stesso problema. Non si potrà mai risolvere la questione se la logica è quella di sacrificare un gruppo a favore dell'altro. L'unica prospettiva valida è quella di un progressivo processo di democrazia accettabile per tutti. In effetti la questione cardine della regione dei Grandi Laghi è quella di una redistribuzione del potere in cui le varie etnie si garantiscano a vicenda. Ed è importante che la comunità internazionale entri in questa logica, poiché ogni qualvolta si dà torto o ragione a un gruppo a seconda che perda o vinca si innesca una spirale di violenza che non finirà mai. Il nodo della questione è tutto qui. Poiché il cosiddetto "problema umanitario" non è né umanitario né etnico, come si cerca di far credere, ma una questione di divisione del potere in cui si segue una logica di esclusione dell'altro o peggio, si commettono dei genocidi per eliminare l'altro, per non dover dividere il potere. La questione va affrontata delineando un progetto di società che tenga conto di tutte le componenti della popolazione, ma oggi capita il contrario e ogni gruppo che si succede al potere impone un progetto di società con cui si chiede all' "altro" di sparire, di dissimularsi o di disperdersi. Il risultato è il Ruanda in cui dopo trent'anni di regime Hutu i Tutsi si sono rivoltati. Così oggi sono gli Hutu a essere cacciati, ma in un prossimo futuro i figli e i nipoti dei rifugiati si rivolteranno a loro volta (anche perché più numerosi dei Tutsi). L' Onu ha finora giocato il gioco del vincitore: l'Fpr nel 1990 era "la" guerriglia divenuta poi nel 1994 il governo legittimo, mentre il governo precedente è diventato all'improvviso ribelle e genocida. Ciò non toglie che nel prossimo futuro possa tornare e ripetere gli stessi comportamenti, per il semplice motivo che nessuno vuole affrontare la questione per quella che è ed aiutare le comunità a uscire da questa spirale.[…]
      Alcuni osservatori politici propongono la creazione di stati etnici sul modello della
      ex-Jugoslavia
      . Che ne pensa?

      Queste soluzioni vengono proposte dalle tribune delle grandi conferenze. L'ex-segretario di Stato americano Cohen, a cui è stato affidato il compito di occuparsi deIl'Africa, ha detto che occorre separare in due Stati distinti Hutu e Tutsi e ultimamente il presidente Bongo ha detto che questa potrebbe essere la soluzione finale. Ma la questione rimane la stessa: la separazione non risolve il problema poiché i contendenti cercherebbero di sopraffarsi a vicenda per ragioni di sicurezza. Si porrebbero molti problemi, primo fra tutti quello delle coppie miste, poiché i matrimoni interetnici sono molto numerosi. A tutt'oggi sia in Ruanda sia in Burundi non esistono aree a presenza monoetnica, poiché Hutu e Tutsi sono legati alla loro terra e la separazione dal luogo dove riposano i loro antenati creerebbe un cataclisma di proporzioni inimmaginabili con una guerra che decimerebbe i due gruppi e non solo. Le proposte di divisione etnica sono frutto di elucubrazioni da laboratorio e non tengono conto della realtà. La soluzione dei problemi della regione dei Grandi Laghi passa attraverso la promozione della democrazia e dello sviluppo di queste zone che sono tra le più povere dell'Africa, nonché attraverso la realizzazione di un progetto di sociètà accettabile per tutti che gestisca in modo equo le risorse e sostenga i giovani.

      La classe politica che ha governato i paesi coinvolti ha una grossa responsabilità in ciò che accade. Noi crediamo che se la negoziazione fosse condotta in prima persona dalla società civile si potrebbe arrivare a una soluzione, non certo rapida e circoscritta come la si vuole da molte parti, ma effettiva, poiché le popolazioni in conflitto hanno vissuto e vivono malgrado tutto insieme. La prova di questo è stata l'accoglienza che alcune famiglie Hutu hanno fornito nel '94 a Bukavu ai bambini Tutsi scampati ai massacri. Ciò ha creato una rete di solidarietà. Tutto diventa difficile quando di mezzo ci sono i "politici" che si contendono il potere. Una prova di quanto detto è che il presidente del Ruanda è Hutu così come diversi alti dirigenti del paese e lo stesso in Burundi, ma guarda caso la questione etnica scompare quando sopravviene l'interesse di divisione del potere. Cosicché il presidente ruandese Hutu appoggia i bombardamenti dei rifugiati Hutu poiché è in gioco il suo potere personale. È quindi chiaro che non si può circoscrivere la questione all'aspetto puramente "etnico" perché sarebbe caricaturale e soprattutto perché è molto più complessa.


      Quale può e deve essere il ruolo dell'Europa in un eventuale processo di pace?

      L'Europa può aiutare la regione dei Grandi Laghi solo se intende promuovere il dialogo tra le parti e non, come è successo fino a oggi la difesa settaria e localistica di ogni singolo gruppo coinvolto, favorendo così la polarizzazione del conflitto. È importante che l'Europa offra il luogo del dialogo sull'avvenire di questa regione. Non è ancora troppo tardi. In secondo luogo è importante che l'Europa, che si erge a paladino della difesa dei diritti umani, giudichi i governi della regione proprio da quel punto di vista: il rispetto o meno dei diritti dell'uomo. E io credo che questo sia un punto chiaro e circoscritto sul quale non si possa tergiversare. L'Europa non deve appoggiare i governi che violano sistematicamente i diritti dell'uomo attraverso l'assassinio e i massacri, cosi come non deve appoggiare i governi che rifiutano ogni apertura alla vita democratica e che vogliono una "democrazia" fatta a misura dei loro interessi. Questi sono principi base dell'umanità per il rispetto dei quali l'Occidente deve battersi. L'Europa deve sostenere lo sviluppo dei paesi dell'Africa Centrale, poiché la crisi è esplosa in un momento di grande dissesto economico della regione. Quando i giovani vengono privati del loro avvenire, quando tutti sprofondano nella miseria, è molto facile affermare che la sofferenza è 'l'altro" che l'ha portata. Si potrebbe allora promuovere la progressiva realizzazione di un'economia endogena al fine di garantire a tutta la popolazione, e non solo a un gruppo ristretto, il giusto sviluppo. L'Europa ha l'opportunità di intervenire in maniera significativa almeno in tre settori: nello sviluppo economico, in quello democratico e in quello civile.[…]


      Fonte: www.sanfrumenzio.org 



      Le Nazioni vogliono servirsi dell'Africa dei Laghi?

      La Chiesa davanti la sfida della violenza e dell'ipocrisia
      Importante riflessione di Mons. Christophe Munzihirwa Mwene Ngabo, Arcivescovo di Bukavu brutalmente assassinato a Bukavu nella notte tra il 29 e il 30 ottobre 1996.

      Invito a prendere posizione di fronte alla violenza e all'ipocrisia. Per quale scopo si distrugge il Ruanda? Non è per ricercare il potere assoluto a scapito del popolo che ne è vittima? I rifugiati sollevano un clamore che nessuno potrà ignorare.

      La violazione dei diritti dell'uomo fa sì che il nostro continente è diventato il continente dei rifugiati. Su circa 15 milioni di profughi calcolati nel mondo, oltre 6 milioni si trovano in Africa.

      Delle guerre particolarmente atroci si svolgono in Sudan. Sono rare le voci che si alzano per denunciare le tragedie, e nessuna azione si mette in atto per impedire il genocidio delle tribù cristiane ed animiste del Sud, dove l'Islam del Nord vuole imporre la sua egemonia totalitaria. Dal 1960 vi sono dei rifugiati nello Zaire, in Uganda e in Etiopia. Siamo così informati sul fermo proposito della Libia e dell'Arabia Saudita di far penetrare l'Islam in tutta l'Africa dell'Est e del Centro. Il finanziamento delle armi ha principalmente lo scopo di destabilizzare il paese per raggiungere questo fine.

      L'Angola è in guerra etnica di carattere ideologico da quasi vent'anni: quanti morti, quanti storpi, quanto impoverimento, per colpa dell'ambizione di un Jonas Savimbi, sostenuto da coloro che, forse, desiderano lo spopolamento di questo paese per servirsi senza concorrenza della ricchezza del suolo, del sottosuolo, e anche del mare! Alcuni profughi di questo paese sono nello Zaire e nello Zambia sin dall'inizio di questa guerra senza fine.

      Nello Zaire, il risucchio politico e il crollo dell'economia sono stati accompagnati da un razzismo criminale dello Shaba verso i Kasaien. Chi aveva interesse a questa proliferazione della miseria e dei movimenti di popolazione errante? Il paese non ha fatto niente! Le nazioni non se ne sono preoccupate!

      Noi siamo particolarmente colpiti per quello che succede sulle colline vicine al nostro paese, lo Zaire. In Burundi, poi in Ruanda, delle guerre fraticida non accennano a calmarsi; le conseguenze sono incalcolabili. Avevamo creduto ad una burrasca, ma in Ruanda la violenza è diventata una tempesta di lunga durata che la saggezza nazionale non ha potuto fermare. Gli ambienti internazionali hanno dato l'impressione di "contemplare" lo scatenamento delle forze di morte. E adesso ci si chiede, non a torto, se non esisteva un fermo progetto, dissimulato, da qualche parte in oscure stanze.

      In Burundi, dall'ottobre del '93, malgrado alcune pallide inchieste, non si sa ancora chi è stato il cervello dell'assassinio del Presidente Ndadaye; sono dei militari che hanno eseguito un piano, ma chi ha pensato questo piano, chi ha dato gli ordini, chi ha sovvenzionato l'azione, chi ha confuso le piste delle inchieste e per quali interessi? Contemporaneamente c'è stato un piano parallelo al primo che ha provocato dei massacri pazzeschi, chi ha preparato il piano? Com'è possibile che sia stato eseguito con tanta crudeltà su una così larga scala? Per quali interessi? Quale ipocrisia! Dappertutto si piangono morti; più del 25% della popolazione si è "spostata" o "rifugiata", vivendo nella paura e nella miseria; e le violenze non sono terminate; i piani d'azione neppure.

      In Rwanda la guerra è iniziata quattro anni fa (con l’invasione delle forze tutsi, a partire dalle frontiere dell’Uganda, ndr) con appoggi stranieri. Ma c’era un altro piano pronto: l’assassinio del presidente Habyarimana, sul quale non è stata fatta verità, poi le uccisioni infinite, condotte da militari e gruppi paramilitari, seguite da vendette terribili. Da ambedue le parti non si cerca la democrazia… si cerca il potere assoluto, per conservare o per acquisire dei privilegi, qualunque sia il prezzo che il popolo dovrà pagare. La forza d’interposizione dell’Onu a Kigali non è stata capace di realizzare la missione di pace senza schierarsi. L'operazione Turquoise della Francia aveva mostrato le sue carte partigiane sin dall’inizio… Le nazioni si impietosiscono sulle masse di vittime disperse: c’è molta buona volontà e l’impegno degli aiuti umanitari, ma chi fa qualcosa per il domani? Chi svela i disegni segreti di cervelli ben protetti, che continuano a sostenere l’eliminazione dei poveri? Ribadiamo la necessità di una forza internazionale per fare rispettare i diritti di tutti, perché i dadi sono truccati, tanto in Burundi quanto in Rwanda…".

      Quando i paesi occidentali hanno iniziato ad accordare aiuti economici al nuovo regime di Kigali, nella lettera alle chiese del Belgio e della Francia mons. Munzihirwa nota con indignazione: "Non è accettabile che dei paesi occidentali portino un sostegno senza condizioni al regime di Kigali, che esclude dal diritto alla parola e scoraggia il ritorno nel paese di oltre un terzo della sua popolazione".

      Nella lettera del 30 gennaio ’96 all’ex presidente J. Carter, insiste:

      "Gli Stati Uniti offrono un notevole aiuto finanziario e militare a Kigali. Come si può giustificare questo aiuto a un regime politico che pratica una gestione totalitaria del potere, è in fragrante violazione degli accordi di Arusha, impone il terrore e pianifica i massacri? L’aiuto non dovrebbe essere condizionato all’apertura di negoziati politici in Rwanda e al diritto al ritorno dei profughi nella dignità e nella sicurezza?".

      L'ipocrisia spadroneggia! Dappertutto si piangono morti; la maggior parte della popolazione si è "spostata" o "rifugiata"; una piccola minoranza cerca di ricostruire una struttura nazionale in una parte del paese. Per quale scopo si distrugge un lavoro di trent'anni? Dei paesi lontani credono di difendere i diritti della maggioranza, altri paesi vogliono difendere i diritti della minoranza; ognuno pretende di far sorgere una giusta democrazia; ma da ambedue le parti non si cerca la democrazia; una democrazia di tipo occidentale d'altronde non avrebbe senso nel contesto socio-culturale dell'Africa centrale; si cerca il potere assoluto per conservare o per acquisire dei "privilegi" qualunque sia il prezzo che il popolo dovrà pagare, qualunque siano i rischi di un ritorno di fiamma in futuro. Perchè?

      Cristiani, anche se noi non possiamo impedire la violenza, dobbiamo sempre disapprovarla: bisogna saper dire NO, un no assoluto, profondamente turbato, o il loglio si mescola al buon grano. Il buon grano esiste, in grande quantità e di qualità sorprendente. Ne abbiamo le prove dalle recenti affermazioni dei numerosi Tutsi venuti a cercare rifugio al Kivu, dicendo che dovevano la loro salvezza a degli audaci Hutu, testimoni del rispetto della vita, del rispetto dell'uomo, del rispetto della fratellanza di tutti gli esseri umani di fronte a Gesù Cristo: confermano le testimonianze raccolte in un dossier pubblicato a Bukavu nel luglio 1994 da Philippe de Dorlodot; confermano i "segni di speranza" che sono stati percepiti, tanto in Ruanda quanto in Burundi, da quasi sei mesi; e potremmo citare degli esempi analoghi di Tutsi che proteggono degli Hutu, di una certa mamma tutsi che aveva preso sotto la sua protezione una ventina di scolari in fuga dal massacro che si perpetrava nella loro scuola. Il buon grano, è il Cristo che vive oggi in mezzo al loglio nei momenti più scuri delle tragedie umane. Un atteggiamento di retrocessione e di tolleranza, uno sguardo sensibile alle forze dell'amore deve normalmente permettere di aprire la strada al disarmo, e di ricostruire su delle basi veramente solide. Un saggio ha detto: "Vi sono delle cose che non si vedono bene che con occhi che hanno pianto", ma che, prendendo le loro distanze rispetto alle passioni umane, sperano in Colui che è il Cammino, la Verità e la Vita.

      In questi giorni in cui si continuano a scavare fosse comuni, in cui la miseria e la malattia si trascinano per migliaia di chilometri su strade, piste, sentieri, rifugi, campi, noi siamo particolarmente interpellati dal grido di Cristo sulla croce: "Padre, perdona loro perchè non sanno cosa fanno!" In certi momenti, questa misericordia di Dio che interrompe gli ingranaggi della vendetta, sembrerebbe disturbare i militanti di tutte le sponde; ma dopotutto, è lei sola che può definitivamente spezzare il cerchio infernale delle vendette. Il Signore nostro Dio ha perdonato; Egli ci invita a perdonare. Soltanto questo eroico perdono è nella logica della salvezza. Augustin d'Hippone ha potuto dire ai suoi fratelli: "Voi vi dite figli di Dio. Se voi rifiutate di perdonare, perchè desiderare ancora la sua eredità? Questa non puï essere data che dal Figlio unico che è morto perdonando". Cristiani, noi dobbiamo, come Giovanni battista, essere gli araldi della "Buona Novella del Perdono", e ripetere, in verità e in atti: "Ecco l'Agnello di Dio, ecco Colui che leva i peccati del mondo".

      Forte di questa fede in Gesù Cristo, la Chiesa ha il dovere di essere la serva della giustizia e della pace; questo servizio è costitutivo della missione della Chiesa, soprattutto nella nostra Africa oggi.

      Una lunga pace negli spiriti sarà necessaria per la ricostruzione di un paese come il Ruanda; ma bisogna osare farla, là come altrove; essa è frutto di dialoghi e di riconciliazioni permanenti; essa richiede un lungo processo di negoziazioni condotte da uomini che siano coscienti degli interessi comuni a tutti i cittadini della loro nazione. Una nazione è prima di tutto un plebiscito di tutti i giorni "di voler vivere insieme", dimenticando le ombre del passato, adoperandosi per evitare la dittatura, sia della maggioranza, sia della minoranza. Quando non è difensiva, la guerra è sempre la devianza e la demenza di un individuo o di un gruppo che provoca la violenza per arrivare al potere, o per rimanervi. "Si crede di battersi per la patria, quando si è spinti dalle differenze. E' stato così già ai tempi della torre di Babele! Occorre che le armi tacciano; allora le orde erranti potranno avere il tempo di riprendersi e di domandarsi da dove è venuta la tempesta; allora delle persone integre percepiranno le loro convinzioni più profonde per il servizio del bene comune, per fare germogliare una "nuova democrazia", culturalmente inserita nella nostra realtà dell'Africa centrale. Che cessi la costrizione delle armi, che cessino le demagogie al livello dei nostri paesi e dei giochi d'influenze internazionali, che emergano dei governi che rispecchino delle scelte, il più coscienti e libere possibili, formulate dalle popolazioni ridivenute serene.

      La storia ha delle lezioni da darci. In certi momenti, il perdono e la riconciliazione sembrano impossibili; ma si giunge sempre a constatare che senza essi la vita rimarrà infernale. Tutte le nazioni hanno sentito un giorno o l'altro il bisogno imperativo di amnistia senza la quale avrebbero rinunciato al loro futuro. Senza riconciliazione non esisterebbe più nè Asia, nè questa Europa nella quale i vinti della guerra del 1940 si sono uniti ai vincitori di allora, per festeggiare la pace ritrovata, grazie agli uomini che, durante la conflagrazione della guerra, hanno superato l'avvenimento e elaborato già un piano d'intesa e di collaborazione per la costruzione di una pace più solida grazie all'intrecciarsi di interessi economici e di incontri culturali alla base: così essi hanno impedito che degli individui e delle minoranze al vertice continuassero a sacrificare il loro popolo per soddisfare la loro sete di potere politico.

      A guardare gli avvenimenti con un occhio più analitico e più obbiettivo ci si accorge che se, da una parte e dall'altra dei gruppi in conflitto, c'è violenza e vendetta, ci sono delle masse innocenti e tranquille che non sono che le vittime. E' a loro insaputa e contro la loro volontà che per le ambizioni di impadronirsi del potere o di mantenerlo hanno edificato dei piani e dei metodi nefasti per raggiungere i loro scopi: il potere voluto per se stesso a scapito del popolo.

      Ci si accorge anche che, nelle etnie in conflitto, vi sono da una parte e dall'altra, delle persone che deplorano questa follia, e che fanno quello che possono per salvare delle vite umane, a rischio di passare per traditori, e a volte di subire la stessa sorte di quelli che hanno aiutato, o cercato di aiutare a salvarsi. In Germania, è stato necessario distinguere un tedesco da un nazista; in Libano, un musulmano da un islamico; in Ruanda, bisognerebbe distinguere un Hutu da un membro delle milizie della morte o della guardia presidenziale che vuole mantenersi, attraverso un genocidio, al potere; distinguere un Tutsi da certi membri del FPR che vogliono impadronirsi del potere con la forza, ed eliminare ogni opposizione. Da tutti e due i lati si è ucciso "per il potere".

      I massacri perpetrati dalla guardia presidenziale per vendicare il Presidente hanno provocato l'indignazione di tutte le coscienze cristiane. Ma la rivincita non scherza. L'assassinio premeditato di tre Vescovi e di persone consacrate, avvolto nell'ipocrisia, non è che un segno della radio(?) del FPR? Delle persone provenienti dalle zone del Nord, particolarmente da Ruhengeri, sono state testimoni di massacri per vendetta da parte di militari del FPR che vorrebbero tuttavia presentarsi come un'armata di liberazione. Dei paesani in fuga nel Bugesera, vicino un ponte distrutto sul Nyabarongo, sono stati giustiziati con la mitraglietta. Di questo passo il Rwanda sarà un deserto di popolazione, anche se migliaia di anziani profughi convergono verso Kigali e le zone controllate dal FPR. Le centinaia di migliaia di Rwandesi che si trovano nei campi profughi in Tanzania, in Burundi, nel Sud e nel Nord-Kivu, sollevano un clamore che nessuno può e potrà ignorare.

      La forza di interposizione dell'ONU a Kigali non è riuscita a realizzare la sua missione di pace, senza schierarsi. L'operazione Turquoise della Francia aveva mostrato le sue carte partigiane sin dall'inizio; essa ha salvato delle vite umane; ma, accecata dalla sua ideologia di democrazia occidentale, non ha tenuto in considerazione tutti i parametri della situazione; non ha saputo dominare lo sbandamento di centinaia di migliaia di persone ridotte ad una miseria senza nome; essa non sà più come fare un passo avanti o indietro, senza nuovi sacrifici di vite umane. Le nazioni si impietosiscono sulle folli innumerevoli di vittime disperse in tutto il paese dei Grandi Laghi; c'è molta buona volontà; e la logistica degli aiuti umanitari rende omaggio al genio e alla generosità umana per i servizi d'urgenza. Ma chi deve intervenire "per domani"? Chi deve rivelare i disegni segreti di alcuni cervelli ben protetti che hanno suscitato e che continuano a sostenere il "laminatoio dei poveri"? Si dice che occorre l'intervento di una "forza" internazionale per fare rispettare i "diritti di tutti", perchè i dadi sono truccati, tanto in Burundi quanto in Rwanda, anche se le situazioni non possono essere confuse. Quali sono le leve del dialogo e della verità?

      I discepoli di Cristo non possono reclamarsi in verità di Cristo se non hanno l'onestà e il coraggio di essere i "servitori di tutti", e di sentirsi solidali a tutti i poveri. Noi siamo interpellati: l'amore si prova con degli atti. Se vi sono dei rifugiati alla nostra porta, dobbiamo sapere creare un clima di compassione dove sbocciano i fiori dell'aiuto reciproco perseverante: dobbiamo sapere accogliere a casa nostra dei fratelli e delle sorelle, senza distinzione di razza o di classe sociale, senza premeditate accuse e disprezzo. Se dei movimenti di rientro verso i paesi d'origine si profilano, noi dobbiamo essere i servitori del vicendevole aiuto, del dialogo, della misericordia e della riconciliazione, a tutti i livelli. Se un nuovo futuro di convivenza nazionale comincia a costruirsi, i discepoli di Cristo hanno il dovere di essere come il lievito nella pasta; non i militanti di parti intolleranti, ma i portatori dello Spirito. E' la comunità della Pentecoste, nella quale noi saremo sempre più ospitali, con Maria, alle forze dell'amore e della vita dello Spirito di Gesù, come a Gerusalemme, che sarà la semenza dei nuovi alberi nei paesi dei Grandi Laghi all'orizzonte dell'anno 2000.

      Bukavu, 3 agosto 1994

      Christophe MUNZIHIRWA s.j.

      Archeveque de Bukavu, Zaire.

      http://ospiti.peacelink.it/

      Congo: un appello dal Paese martire

      Nel cuore dell'Africa si ripete la tragedia dei Grandi Laghi. La violenza ha contagiato il Congo preda degli interessi e della violenza incontrollata delle fazioni e delle milizie. Nel disinteresse (interessato) dei potenti del mondo. Un forte documento dei superiori religiosi cerca di scuotere dall'apatia perché il sacrificio dei congolesi e dei loro pastori non sia vano.

      Il Congo-Kinshasa è in stato di guerra dal settembre 1996. Una guerra innescata dal confronto tra il regime di Mobutu e le truppe di Burundi, Rwanda e Uganda, che formavano il nucleo dei ribelli guidati da Kabila.
      Le province di frontiera del Congo orientale sono quindi sotto occupazione da anni, un'occupazione brutale da parte delle differenti forze militari che ha come vittima soprattutto la popolazione locale, come testimoniano i massacri di interi villaggi (Makobola, Kasika, Mwenga).

      La Chiesa cattolica è tra i bersagli principali degli occupanti. Oltre alla sistematica distruzione degli edifici religiosi, alle aggressioni, ai pestaggi e al ferimento di preti e religiose, solo nel Kivu meridionale sono stati assassinati l'arcivescovo Christophe Munzihirwa, l'abate Claude Buhendwa, un altro abate e tre religiose durante la strage di Kasika e, più recentemente, l'abate Georges Kakuja.


      Il messaggio che pubblichiamo, elaborato da religiosi e religiose, e fatto proprio coraggiosamente dai Superiori maggiori del Kivu meridionale, è dunque un vero grido di disperazione. Esso echeggia quello della popolazione che vive e muore nell'indifferenza totale delle grandi potenze e la cui miseria non commuove l'opinione pubblica internazionale. Questo testo è la voce dei senza voce e vuole attirare l'attenzione su una guerra sporca, letale e volontariamente ignorata da tutti.
      Esso chiede un'azione urgente, perché la situazione peggiora continuamente. L'appello lanciato dall'arcivescovo di Bukavu la notte di Natale non ha bisogno di commento: "Noi ci impegniamo con coraggio, con spirito fermo e con una fede incrollabile a essere a fianco di tutti gli oppressi fino a spargere il nostro sangue, se necessario". Come il predecessore assassinato il 29 ottobre 1996, l'arcivescovo fa appello al coraggio dei fedeli: "Prendiamo coscienza della nostra situazione di asservimento. Accettiamo il rischio del cammino di liberazione sotto la guida dello Spirito". In un tale stato di schiavitù, la missione della Chiesa di Bukavu, concludeva mons. Kataliko, è di "resistere al male sotto ogni forma, denunciare tutto ciò che avvilisce la dignità della persona".


      Appello dei religiosi e religiose del sud Kivu ai confratelli e consorelle della Chiesa

      Dal 2 agosto 1998 la popolazione congolese è vittima d'una aggressione e d'una oppressione straniera di cui tutti sono a conoscenza. Nonostante l'evidenza dei fatti e la denuncia di crimini d'ogni genere, la volontà politica, diplomatica e finanziaria delle istituzioni internazionali è rallentata da fattori di difficile comprensione.
      Noi sollecitiamo il vostro intervento presso le istituzioni politiche, diplomatiche e finanziarie del vostro Paese affinché si attivino concretamente per cercare di risolvere la crisi che opprime le popolazioni del Congo e dell'Africa centrale. In particolare perché si impegnino all'applicazione senza ulteriori ritardi degli accordi di Lusaka (Zambia), firmati il 10 luglio e il 31 agosto 1999.


      I - Una sintesi degli avvenimenti

      Per meglio comprendere i conflitti in corso nell'Africa dei Grandi Laghi, è utile citare il problema etnico tra Tutsi e Hutu, collegato alla gestione del potere in Burundi e Rwanda. Dopo l'indipendenza, l'etnia Tutsi ha preso il potere in Burundi, e gli Hutu in Rwanda. Da allora l'una e l'altra etnia hanno subito sofferenze, esclusione e marginalizzazione da parte dell'etnia al potere. E i Paesi confinanti, tra cui il Congo, sono serviti da rifugio per i rwandesi e burundesi cacciati dalle loro terre.

      Contrariamente ad altri Paesi che hanno gestito la massa di profughi, il Congo - già al limite della disgregazione - è stato soverchiato da questi problemi. In altri tempi, in Uganda i Tutsi rifugiati avevano sostenuto Museveni nella sua presa di potere con le armi, e avevano beneficiato del suo sostegno per lanciare l'offensiva del 1990 e riprendere il potere in Rwanda. La situazione del momento fu sfruttata con abilità, al punto che persino la guerra contro il regime di Habiyarimana venne presentato all'opinione pubblica come una giusta guerra di liberazione, malgrado gli accordi d'Arusha dove tutti i rwandesi aveva firmato la fine delle ostilità.


      La guerra è invece proseguita e l'esasperazione del conflitto, la mancanza di dialogo hanno favorito l'orribile genocidio iniziato con l'assassinio del presidente Habiyarimana il 6 aprile 1994 da parte di responsabili non ancora accertati. Davanti al genocidio, i Tutsi si presentano generalmente come vittime e gli Hutu indiscriminatamente come massacratori. Il Congo, che è stato obbligato a ricevere rifugiati Hutu "per favorire la pace", è visto come protettore dei massacratori. E qui già appare la giustificazione ideologica dell'aggressione al nostro Paese da pare del Rwanda nel 1996.


      Dietro questa serie di pretesti, il regime di Kigali nutriva l'idea di ampliare il proprio territorio a scapito del Congo. Non potendo giustificare l'aggressione davanti all'opinione pubblica mondiale, il regime di Kigali ha condotto la guerra contro il Congo utilizzando i Banyamulenge, popolazione Tutsi d'origine rwandese, la cui nazionalità è un problema mai risolto. Da ciò il nome di "ribellione dei Banyamulenge" data alla guerra del 1996.
      E per legittimare il loro potere sul Congo, i registi della guerra crearono il "personaggio Kabila" e il suo partito, l'Afdl. Il 17 maggio '96 Kinshasa cade e Kabila si autoproclama presidente. Se da un lato la popolazione di frontiera di Rwanda e Burundi si mostra piuttosto ostile a questo nuove regime, al contrario gli abitanti di altre regioni accolgono favorevolmente l'arrivo di Kabila, come una liberazione dalla dittatura di Mobutu.
      Guerra di liberazione o guerra d'occupazione, dunque? I congolesi si sono ben presto resi conto che gli alleati di Kabila erano invasori, di cui essi stavano diventando ostaggio. Sotto la pressione dell'opinione pubblica nazionale, il nuovo presidente del Congo ha così dovuto cambiare atteggiamento e ha cercato di liberarsi di coloro che l'avevano portato al potere. Il 27 luglio 1998 dava ufficialmente il benservito ai suoi alleati rwandesi e ugandesi. La risposta non si è fatta attendere.
      Il 2 agosto 1998 ricominciava il ciclo delle violenze: i regimi di Kagame (Rwanda) e Museveni (Uganda) scatenavano un secondo conflitto, di nuovo chiamato "ribellione dei Banyamulenge" che presto si rivelò vittoriosa un po' in tutto il Paese. Dopo qualche settimana si assisteva alla nomina di un nuovo presidente, Wamba dia Wamba e di un nuovo movimento di governo, l'Rcd. Tutto già visto: una ripetizione in peggio della guerra rwandese in Congo, con una rinnovata distruzione degli Hutu e il protettorato del Rwanda sul Congo.


      II - I veri obiettivi della guerra


      1. La ribellione nella Repubblica democratica del Congo

      Per il popolo congolese la ribellione del 1998 è stata un'aggressione partita da Uganda, Rwanda e Burundi col sostegno di alcune potenze straniere. I congolesi che l'hanno sostenuta non sono, agli occhi della gente, che dei paraventi che nascondo a malapena questa aggressione. La popolazione congolese non s'identifica in questa guerra ingiustificabile, e nessun progetto che abbia origine da questa ribellione sarà mai fatto proprio dalla popolazione a meno che non sia il risultato di una concertazione a livello nazionale.

      2. La questione dei Banyamulenge

      In questo contesto la questione delle nazionalità, che dove risolversi solo col dialogo tra le diverse parti congolesi, non può giustificare una guerra contro la propria "patria". I Banyamulenge sono stati manipolati dai rwandesi per una guerra che non favoriva certo i loro interessi per quanto riguarda la loro nazionalità. Tuttavia, ormai ostaggi di una guerra da essi condotta, pongono un problema per la pacifica coabitazione. Ancora oggi giocano la carta proposta dai rwandesi, quella di una minoranza perseguitata di fronte alle 400 tribù di un Paese in cui non riescono a integrarsi. Questa mentalità di maggioranza opposta alla minoranza non è mai esistita in Congo come comportamento sociale significativo.


      3. La protezione unilaterale delle frontiere

      Un conflitto di frontiera, che secondo la legislazione internazionale dovrebbe ridursi a un'operazione limitata nel tempo e portata non oltre i 150 chilometri dal confine, si è trasformata in un'aggressione condotta a 2000 dalle basi di partenza, invocando il "diritto di inseguimento". Sacche di guerriglia mantenute attive dentro il territorio congolese per seminare il panico, danno loro il pretesto per continuare l'occupazione. Inoltre, si riconosce all'Uganda e al Rwanda il diritto di proteggere le proprie frontiere, diritto non riconosciuto al Congo.

      4. La guerra per "prevenire un altro genocidio"

      Chi ha vinto la guerra in Rwanda si è arrogato il diritto di usare il riconoscimento giuridico del genocidio e di servirsene per giustificare tutte le sue azioni attuali, compresa la guerra contro la Repubblica democratica del Congo (Rdc). Di conseguenza, tutti quelli che non la pensano come loro sono assimilati ai "massacratori".
      Attualmente il popolo congolese, per la sua ospitalità verso tutte la fazioni rwandesi, paga il prezzo di questa ideologia.

      5. Il doppio genocidio

      Nessuno può giustificare il genocidio che ha avuto luogo in Rwanda nel 1994. Così pure quel genocidio non può fare dimenticare il massacro dei profughi rwandesi sul territorio congolese iniziato dopo la guerra del 1996 (cfr. L'Osservatore Romano, n. 21, 25 maggio 1999: "Genocidio rwandese: ultimo atto").
      Malgrado tutti i documenti disponibili su questo argomento, l'opinione pubblica continua a considerare genocidio solo quello del 1994.


      6. Kabila presidente

      L'attuale (1999) presidente della Rdc, Laurent Désiré Kabila non è frutto della volontà del popolo, ma è stato imposto con la guerra che Rwanda, Uganda e Burundi hanno condotto contro il Congo. Quando ha voluto prendere le distanze dai suoi maestri, manifestando un certo nazionalismo, è stato trattato da dittatore e massacratore. E, di conseguenza, è stato oggetto della "ribellione" del 1998. Se oggi il popolo gli manifesta una certa simpatia non è per le sue doti personali ma per la funzione che incarna in una situazione d'invasione.

      7. Il ruolo del Burundi

      Il Burundi non è un firmatario degli accordi di Lusaka sulla sospensione delle ostilità in Rdc. Questo gli dà la possibilità di agire in Congo senza violare il cessate-il-fuoco. In realtà resta assai attivo nella guerra. Tuttavia i suoi dirigenti continuano a negare ogni presenza in Congo e la comunità internazionale, stranamente, accetta questa menzogna. Perché una tale ipocrisia che, contrariamente a quanto stabilito a Lusaka, consente a Rwanda e Uganda di utilizzare il Burundi per rafforzare le proprie posizioni nel sudest del Congo?

      8. L'integrità territoriale

      Il popolo congolese ha mostrato un profondo attaccamento all'unità, alla sovranità e all'integrità territoriale del nostro Paese. La guerra non ha fatto che rafforzare questo sentimento legittimo. I congolesi restano profondamente ostili a ogni progetto di divisione e balcanizzazione del Paese come vorrebbero gli aggressori e le loro milizie col pretesto di renderlo più facilmente governabile. Così il popolo congolese vede nel gemellaggio della provincia del Kivu meridionale con Kigali il primo passo verso un'annessione pura e semplice di questa provincia congolese al Rwanda. Un passo a cui il popolo s'oppone con convinzione.

      9. Il saccheggio del nostro Paese

      Se allo scoppio della guerra la sua motivazione ufficiale era quella di rovesciare la dittatura di Kabila al fine di promuovere il buon governo, la democrazia e la prosperità del popolo, in realtà si sta assistendo al saccheggio sistematico del Paese a beneficio dei Paesi aggressori, incoraggiati dall'inattività della comunità internazionale e dall'impunità di cui godono i loro capi. Essi amministrano i territori occupati come fossero colonie e impongono tasse agli agricoltori e agli operatori economici, togliendo i dazi alle importazioni di loro prodotti in Rpc. In questo modo stanno preparando la morte per asfissia di tutti i settori produttivi locali.

      10. Violazioni dei diritti umani.

      Nessun diritto è garantito nei territori occupati, nemmeno quello alla vita. Senza alcun controllo internazionale, gli aggressori massacrano liberamente la popolazione civile come rappresagli alle sconfitte militari.
      Questi massacri non sono mai stati condannati e i loro autori non sono mai stati puniti. Nelle città si assiste egualmente a numerose violazioni dei diritti umani: rapimenti, arresti arbitrari, stupri, estorsioni, omicidi. La libertà di stampa è limitata, come pure quella d'espressione, di riunione e di manifestazione. Limitate sono pure la libertà di circolazione dei beni e delle persone.


      11. Finanza internazionale

      Malgrado che Uganda e Rwanda abbiano ammesso il loro coinvolgimento nel conflitto in Rdc, le istituzioni finanziarie internazionali hanno rinnovato un prestito a lungo termine al primo Paese e finanziato il deficit di bilancio del secondo. Ciò dà l'impressione che questi due Paesi stiano conducendo una guerra giusta in Congo, mentre lo Zimbabwe, chiamato dal Congo in suo aiuto si è visto sospendere gli aiuti economici dalle stesse istituzioni.


      12. L'attacco alla Chiesa cattolica

      Nella dichiarazione del 1° maggio 1999 in occasione dell'arresto di mons. Augustin Misago, vescovo di Gikongoro in Rwanda, mons. Emmanuel Kataliko, arcivescovo di Bukavu deplorava l'attacco alla Chiesa cattolica in questi termini: "[...] quattro vescovi rwandesi e uno burundese sono stati assassinati, insieme a numerosi ecclesiastici. Il mio predecessore, mons. Cristophe Munzihirwa, molti preti, religiosi e religiose di Bukavu, Uvira e di Goma sono stati assassinati a sangue freddo. Noi abbiamo la sensazione che, al di là di fatti isolati attribuiti a l'uno o all'altro, a ragione o a torto, ci si trovi di fronte a una strategia che mira a distruggere tutto che è considerato sacro dalla gente. Una volta distrutto il nucleo attorno al quale si costruisce l'identità comunitaria dei congolesi sarebbe più facile sottomettere le popolazioni ormai inermi davanti a una ideologia o un sistema totalitario che vuole imporsi a ogni costo. In questo quadro la Chiesa cattolica, come il potere tradizionale, diventano bersaglio privilegiato di un regime che vorrebbe fare tabula rasa dei valori cristiani e tradizionali".


      13. Gli accordi di Lusaka

      L'accordo per il cessate-il-fuoco firmato a Lusaka è il frutto di negoziati interetinici a cui sono stati associate le fazioni contrarie a Kabila. Esso è stato sancito dalla comunità internazionale attraverso l'Onu, l'Organizzazione per l'unità africana (Oua), che si sono fatti garanti della sua applicazione. Infine è stato adottato dal Consiglio di sicurezza dell'Onu.
      Nonostante la fragilità dell'accordo (ad esempio non prevede alcuna sanzione per eventuali violazioni) esso rappresenta una base di speranza per la pace nel nostro Paese, dovrebbe essere attuato e le sue violazioni - finora numerose - dovrebbero essere denunciate e punite.


      Conclusione

      In questa guerra il popolo congolese ha sperimentato un'incredibile oppressione. Viene trattato dai suoi aggressori e dai loro alleati come un "buco nero" nel diritto internazionale. In tutte le iniziative ufficiali gli interessi dei congolesi sono marginali. La popolazione è ignorata, umiliata e - troppo spesso - violentata, impoverita e sacrificata sull'altare del "Rinascimento africano". Questo nuovo ordine dovrebbe invece essere fondato sul rispetto dei diritti umani, sul buon governo, sulla democrazia e sulla prosperità per il popolo. I congolesi vogliono solo la pace, ed è per contribuire alla costruzione di questa pace che noi sollecitiamo il vostro intervento. Ci rivolgiamo a voi per amplificare la nostra voce e premere su coloro che tirano le fila dei conflitti nella regione dei Grandi Laghi. La situazione che noi stiamo vivendo è un'ingiustizia palese, per la quale occorre muoversi.

      Il Giubileo dell'anno 2000 offre l'occasione di essere concretamente solidali col popolo congolese e contribuire a liberarlo dal giogo dell'oppressione, perché ciascuno si riappropri dei propri diritti, della propria terra e dei propri beni. In breve, perché ciascuno recuperi la dignità dell'uomo salvato dal Signore. Questa azione permetterà certamente di rendere giustizia alle popolazioni del Congo e di evitare la nuova catastrofe umanitaria che si profila all'orizzonte nella regione.
      I Superiori maggiori del sud Kivu

      Bukavu, 29 Ottobre 1999, terzo anniversario
      dell'assassinio di mons. C. Munzihirwa


      La profezia di Munzihirwa

      Il 29 ottobre , i cittadini congolesi hanno votato per il nuovo presidente. In attesa dei risultati, tra i protagonisti della transizione, il vescovo di Bukavu – assassinato il 29 ottobre 1996 – che si è battuto per la pace, i diritti umani, la democrazia. Così lo ricorda la Rete pace per il Congo

      Il 29 ottobre prossimo (2006), la chiesa d'Africa e della RD Congo in generale e l'arcidiocesi di Bukavu in particolare, celebrano il decimo anniversario dell'assassinio di Mons. Christophe Munzihirwa S.J. Saggio in mezzo ai saggi, giovane in mezzo ai giovane, povero in mezzo ai poveri, mons. Munzihirwa ha lasciato un segno nei suoi compatrioti con la potenza di una semplicità di vita e un distacco reale dai beni di questo mondo. Ha sofferto vedendo la miopia dei suoi compatrioti che non sapevano leggere e interpretare i segni dei tempi. Per due anni, cioè nel 1995-1996, quest’uomo, con numerose prese di posizione coraggiose, propose un cammino di pace per la regione dei Grandi Laghi. Attirò l’attenzione del mondo intero sulla tragedia in corso causata dallo sbarco disordinato dei rifugiati all’Est del Paese già sovrappopolato. Egli proponeva una soluzione degna e conforme al diritto internazionale. Egli ha condotto la sua battaglia in una coerenza assoluta con le sue convinzioni evangeliche. Era come un poeta: gli occhi qui, la testa e il pensiero altrove.

      Dieci anni dopo il suo assassinio, si è compreso finalmente che era un profeta.

      Di fronte ad una certa polarizzazione attuale sul campo politico, Mons. Munzihirwa ci ha tramandato un'eredità che vale la pena ricordare alla vigilia di queste elezioni del secondo turno: "Vedere tutte le etnie dell'area dei Grandi Laghi convivere come fratelli e sorelle ed arricchirsi vicendevolmente con le loro differenze mediante un dialogo costante…. bisogna gestire le diversità invece di distruggerle, per fondare una società basata essenzialmente su una competizione pacifica e costruttiva invece della competizione distruttiva e bellicosa".

      Egli affermava che sulle strade della democrazia, ritroviamo sempre i valori inalienabili della libertà e dell'uguaglianza. La libertà è un elemento fondamentale della natura umana. Confiscarla o negarla per un qualche interesse qualunque esso sia, è disumano. È un elemento atemporale ed incondizionato… "La vera democrazia consiste nell'andare verso una maggiore libertà e verso una maggiore uguaglianza mediante la libertà".

      Ancor più, la democrazia rappresentativa come organizzazione di uno Stato moderno, parte dal principio che la sovranità risiede nel popolo che possiede radicalmente tutti i poteri. Il popolo si dà egli stesso delle leggi e sceglie le sue autorità mediante un processo di voto e di elezioni. Così i detentori concreti dei diversi poteri li esercitano per una delegazione del popolo al quale devono rendere conto, poiché il potere sovrano non cessa di rimanere in lui… Un regime democratico è una scuola di pazienza e di ascolto reciproco"…

      Impotente davanti alla tragedia congolese, vedeva che la violazione dei diritti dell'uomo fa che il nostro continente sia diventato il continente dei profughi ". Ma malgrado l'angoscia e le sofferenze, il cristiano che è perseguitato a causa della giustizia trova la pace spirituale nel suo assenso profondo e totale a Dio, in accordo con la vocazione che lo condurrà forse alla morte, ma col desiderio e la speranza che i suoi nemici si convertiranno un giorno all'amore di tutti gli uomini"!

      Uomo di una grande esperienza, constatò che appena arrivati al potere, i capi africani si affrettano a sopprimere le leggi costituzionali che permettono la pluralità di opinioni, affermando che i loro compatrioti non sono stati preparati alla democrazia, che la pluralità dei partiti divide ed accentua le differenze etniche, che la lotta delle classi non esiste in Africa…. Lo stato partito impone una pace da cimitero, disorganizzando le forze vive della nazione, perpetuando una situazione di mano d'opera a buon mercato, affinché lo sfruttamento economico possa continuare indiscutibilmente. Il sistema così consolidato coniuga contemporaneamente e paradossalmente gli interessi dei capi autoctoni e quelli delle multinazionali ". Per questi dirigenti la pace è confusa spesso con un'unanimità o una tranquillità imposta con la forza, assicurando il mantenimento al potere di un piccolo gruppo di uomini a scapito dell' intera popolazione. In tali situazioni, è impossibile ai cittadini partecipare alla vita pubblica o rendere operante la forza della loro opinione collettiva e dunque tendono a disimpegnarsi e a disinteressarsi. (Lineamenta della II° Assemblea speciale per l'Africa, DC, 2365, 2006, p. 836. )

      Di fronte al pericolo di balkanizzazione del Paese durante le due guerre di aggressione ed anche durante il periodo della transizione, il pensiero di Monsignor Munzihirwa sulla Nazione ha aiutato certamente il popolo congolese a difendere l'unità del Paese e l'intangibilità delle sue frontiere. Secondo Munzihirwa, la nazione è, infatti, una comunità umana materialmente integrata, con un potere centrale stabile e permanente, con delle frontiere territoriali determinate e con una unità morale, mentale e culturale dei suoi abitanti che aderiscono consapevolmente allo Stato e alle sue leggi.

      Il 29 ottobre prossimo, tutti i congolesi maggiorenni in età si recheranno a votare per il secondo turno delle elezioni presidenziali e per le elezioni dei deputati provinciali – e sul ballottaggio vi invitiamo ad ascoltare l’intervista che FATMO ha realizzato al redattore di Nigrizia Raffaello Zordan -. Questi ultimi eleggeranno, a loro volta, il governatore ed il vice-governatore e designeranno i senatori a livello nazionale… Occorrono degli uomini all'altezza della loro missione dunque. Che il sovrano primario, il popolo, lo sappia: un solo voto può condurre il paese a buon porto o alla deriva. Per cui grande è la responsabilità della scelta dell'elettore. Occorre che il voto secondo la propria opinione, il solo che sia un'espressione libera, sostituisca il voto automatico, il voto etnico, il voto fanatico, il voto identitario.

      Monsignor Munzihirwa ci accompagnerà la domenica 29 ottobre, in cui finalmente il popolo sovrano si sceglierà lui stesso i suoi dirigenti e si avvererà la sua profezia. Diceva che questo paese ci appartiene e che non dobbiamo fuggirlo. Il 29 ottobre prossimo, il popolo se ne approprierà democraticamente. Ormai grazie al sistema dell'alternanza politica, il potere non si otterrà più con la forza, le guerre fratricide, le alleanze o i negoziati senza il mandato del popolo. Sì, "l'istituzione di una vera democrazia che assicura la sicurezza dei beni e delle persone è una condizione indispensabile per lo sviluppo dei paesi africani". (Lineamenta della IIª Assemblea speciale per l'Africa, DC, 2365, 2006, p. 836).

      Nel decimo anniversario dell’assassinio di mons. Christophe Munzihirwa, la popolazione di Bukavu, sua diocesi, della Rep. Dem. del Congo e di tutta l’Africa a diritto di conoscere l’autore e l’arma del crimine. Per la Provincia del Kivu, la Società Civile chiede a coloro che saranno eletti il 29 ottobre prossimo di rendere onore alla persona di mons. Munzihirwa. Che si allontanino da ogni disonestà e soprattutto che rinuncino a tutte le manipolazioni identitarie che seminano la morte fra i cittadini. Che organizzino funerali degni per le diverse migliaia di persone che giacciono fino ad oggi in fosse comuni, soprattutto all’est del Paese. Dieci anni dopo, risuona alto e forte il grido del card. Joseph Tomko, inviato speciale del Papa Giovanni Paolo II° in Burundi il 26 settembre 1996, per rendere omaggio a mons. Joachim Ruhuna (anch’egli assassinato, ndt): «Guai a coloro che pensano di stabilire il loro trono sulle tombe»”.

      Domenica, dopo il primo turno dello scorso 30 luglio, che ha visto un'affluenza elevatissima, a monitorare le elezioni e garantire credibilità a livello internazionale, nel paese saranno dispiegati un migliaio di osservatori internazionali, che vigileranno sul corretto svolgimento delle votazioni. Tra di loro, un gruppo di volontari italiani che ha risposto all'appello dell'associazione “Beati i costruttori di Pace ”.

      Si tratta dell'unico gruppo di osservatori internazionali partito dall'Italia, e l'unico formato da volontari che hanno autofinanziato il loro viaggio. Sono 35 persone, di età compresa tra i 24 e i 63 anni, provenienti da ogni parte d’Italia. E come per la prima tornata di voto il loro compito sarà quello di ‘vigilare’ affinché il voto si svolga nel migliore dei modi e soprattutto nel più corretto dei modi – Nigrizia.it aveva seguito la missione del 30 luglio scorso con vari articoli tra cui un’ intervista a don Albino Bizzotto presidente dei Beati Costruttori di Pace

      fonte:www.nigrizia.it


      Un uomo amante della verità

      Contro tutte le ipocrisie, Munzihirwa ha sempre parlato chiaro e forte. Ha tempestato di lettere i responsabili degli organismi internazionali: Butros Ghali, la signora Ogata, il presidente Mitterrand, il card. Daneels (Pax Christi), dicendo sempre quello che pensava, riferendo quello che vedeva stando sul posto. Non ha mai sprecato parole. Il suo parlare e il suo scrivere erano scarni, diretti:

      " Cristiani, anche se non riusciamo a impedire le violenze, dobbiamo comunque disapprovarle, sempre. Bisogna saper dire no, un no totale. Anche se non riusciamo a sciogliere i nodi gordiani dell'ipocrisia, dobbiamo comunque denunciarli, sempre. Bisogna saper dire no, un no altrettanto totale (Bukavu, 3 agosto 1994). "Sento che si vogliono rimpatriare di forza i rifugiati, o almeno che si forza l'UNHCR a non assisterli per obbligarli a rientrare. Un simile atto sarebbe un crimine contro l'umanità se non ci si impegna a stabilire la pace vera e la sicurezza ai rifugiati che accettano di rientrare. L'azione dell'Hcr è caratterizzata da un'inefficienza palese, dovuta alla disorganizzazione e, forse, alla cattiva volontà di alcuni suoi operatori" (al Segretario dell'Onu, 24 luglio 1994). Ha denunciato le macchinazioni delle potenze occidentali e le ambizioni dei capi di stato, in particolare di Uganda e Ruanda, sulla regione, il disinteresse per le persone. Purtroppo i fatti del 1996 e quelli attuali confermano la lucidità della sua analisi. La prima causa di quanto sta accadendo è la menzogna, dichiarava. Quanto ha detto e scritto non deve perdersi, servirà per capire e scrivere la storia del paese e della regione.

      Fino alla fine

      Il non cercare nulla per sé, il fatto di avere solo due camicie da difendere, oltre alla verità, ha fatto sì che mons. Christophe Munzihirwa si trovasse al suo posto il momento giusto. A certi appuntamenti con il martirio, non importa se religioso o laico, ci si arriva solo dopo un lungo esercizio e un'abitudine alla coerenza. Esistono tante vie d'uscita, tante scuse per essere sempre altrove, magari per un bene superiore, se uno vuole. Commentando con amici e confratelli le ultime lettere scritte al suo popolo e alla Radio Vaticana ci siamo detti: Christophe sta firmando la sua condanna a morte. Una persona mi ha riferito che alcuni giorni prima della sua uccisione l'aveva consigliato a rifugiarsi in un luogo più sicuro. Ha rifiutato. Nel vuoto di potere, creatosi a Bukavu, Munzihirwa era diventato un riferimento anche per la società civile, oltre che per la chiesa. Uno dei suoi ultimi appelli reca, infatti, la firma: Christophe Munzihirwa, moderatore del Movimento per la difesa del Kivu.

      La vita e la morte di mons. Munzihirwa realizzano in pieno il concetto di missione: l'amore per la gente, il culto della verità, nel Dio dell'amore e della verità, fino alla morte.

      ALCUNI BRANI DI LETTERE DEL VESCOVO CHRISTOPHE MUNZIHIRWA 

      • Sappiamo che i media occidentali diffondono sul dramma rwandese un'informazione partigiana e che discredita i rifugiati (28 aprile 1995). Nelle etnie in conflitto, ci sono da entrambe le parti persone che deplorano questa follia, che fanno quello che possono per salvare delle vite umane, anche a rischio di farsi passare per traditori e a volte subire la sorte di coloro che aiutano a salvarsi (3 agosto 1994). Bisognerebbe distinguere un hutu da un membro delle milizie della morte e della guardia presidenziale che vuole mantenersi al potere attraverso il genocidio; distinguere un tutsi da certi membri dell'FPR che vogliono impadronirsi del potere con la forza e eliminare ogni opposizione (3 agosto 1994). I veri autori del genocidio dormono in pace mentre ci si accanisce su coloro che sono stati manipolati e su quelli che sono solo delle vittime. La loro giustizia si accontenta semplicemente di fare il gioco di coloro che vogliono mantenere l'idea che tutti gli hutu sono degli assassini (24 agosto 1995).
      • Si vuole stabilire la pace del cimitero (3 agosto 1994). All'inizio siamo stati scioccati dal "genocidio" dei tutsi, ma oggi il mondo sembra tacere sul "genocidio" degli hutu. Sembra che si sia d'accordo che una minoranza armata, per mantenersi al potere, stermini una maggioranza non armata. Che logica! (28 aprile 1995).
      • Mi sembra indispensabile che gli organismi d'aiuto usino di tutta la loro influenza per esigere dal nuovo governo di Kigali, una soluzione politica negoziata che garantisca a tutti la giustizia e la pace (19 settembre 1994). Non c'è altra soluzione pacifica a questo dramma che quella di un incontro di tutti i ruandesi in vista di una soluzione politica negoziata ed equilibrata. Molto lavoro e contatti personali permettevano, nel novembre scorso, di sperare questo incontro. Questa speranza è stata distrutta da un aiuto finanziario di certi paesi occidentali al governo di Kigali. Bisogna interrogarsi sull'aiuto dato a una minoranza che ha conquistato il potere con le armi. Si aiuta il Rwanda ma si dimenticano i rwandesi che marciscono nei campi, in grande avvilimento morale e senza avvenire....Lasciare deperire in Zaire due milioni di Rwandesi è pure un crimine contro l'umanità (16 gennaio 1995).
      • La soluzione di questo problema sarà solo politica. Da qui l'appello che faccio a una riflessione politica sulla situazione del Rwanda. Mi permetto di esprimere le seguenti raccomandazioni:

        • impegnare un dialogo tra rappresentanti dei rifugiati rwandesi e del potere di Kigali;
        • assicurare nei campi un rifornimento regolare e sufficiente;
        • trovare una soluzione accettabile per l'esercito rwandese in esilio;
        • mettere fine al commercio delle armi che arrivano nella regione;
        • colpire con mandato d'arresto i vari colpevoli dei genocidi e della purificazione etnica e giudicarli;
        • mettere fine alla politica degli arresti arbitrari, delle disparizioni, degli assassini e dello spopolamento;
        • incoraggiare, infine, i negoziati politici e il rispetto dello spirito di Arusha (15 maggio 1995).
      • Ci si chiede, non senza ragione, se non esista un disegno ben studiato e nascosto da qualche parte in studi oscuri (3 agosto 1994). Bisogna notare i legami che uniscono i poteri politici del Rwanda, Burundi e Uganda, come pure la reale collaborazione tra gli eserciti di questi tre paesi nelle sevizie subite dai rifugiati (15 maggio 1995). In Burundi dall'ottobre '93, grazie a pseudo inchieste, non si sa ancora chi è stato il cervello dell'assassinio del Presidente Ndadaye; il piano è stato messo in esecuzione dai militari, ma chi l'ha pensato, chi ha dato gli ordini, chi ha pagato l'azione, chi ha confuso le piste delle inchieste e per quali interessi? (3 agosto 1994).
      • Lo Status quo attuale, sottoscritto dagli stati, non potrà che portare, prima o poi, a una guerra ancor più sanguinosa (28 aprile 1995). Mi sembra che questa soluzione (il rientro dei profughi entro la fine dell'anno) rischi di non essere che un impasse che trascinerà la regione dei Grandi Laghi nella guerra (6 ottobre 1995).

      Bologna, 14 settembre 1998 Rielaborazione di un testo di R.B.

      Da
      www.peacelink.it, leggi anche:  Le Nazioni vogliono servirsi dell'Africa dei Grandi Laghi?"

      Caro diario - Scrivono i volontari...

      Speranze da Bukavu

      Siamo ritornati in Africa, a Bukavu. Quanto lo abbiamo desiderato! Ogniqualvolta ci giungevano notizie di soprusi, saccheggi e devastazioni, avremmo voluto essere al fianco delle tante persone che, negli anni del progetto del Mulume Munene, con noi avevano condiviso pesanti fatiche, ma anche grandi speranze per un futuro migliore che sembrava, almeno per loro, ormai prossimo. Avremmo voluto essere presenti per rincuorare gli oltre duemila piccoli allevatori che nella Coopem (Cooperative petits éleveurs Mulume) avevano trovato lo strumento per assicurare alle proprie famiglie la vittoria sulla fame.


      Siamo giunti a Bukavu a metà giugno: di tutto quello che era stato realizzato negli anni '88-'94 non è rimasto nulla... Gli eserciti e le bande che si sono susseguiti e che tuttora si spostano nella zona, hanno fatto piazza pulita. Il governo è assolutamente assente: strade impraticabili, scuole che funzionano solamente se i genitori provvedono allo stipendio degli insegnanti, assistenza sanitaria nulla. Da tre anni il Congo vive questa situazione: la guerra o guerriglia ormai endemica si alimenta da sé con i proventi della vendita delle preziose materie prime, anzitutto il coltan, di cui il Congo ampiamente dispone.


      Esiste, a questo proposito, un rapporto consegnato il 16 aprile 2001 a New York, frutto di un'inchiesta condotta da cinque esperti, su mandato dell'Onu. Secondo il rapporto, dal saccheggio si è passati allo sfruttamento sistematico delle ricchezze congolesi, assicurando in tal modo il mantenimento dei comandanti militari e delle varie armate più o meno liberatrici sia del Congo sia dei paesi confinanti, Rwanda, Burundi e Uganda, ormai stabilizzatesi anche al di qua delle frontiere. Ovviamente non mancano intrecci con privati africani e occidentali e trasferimento di ricchezze immense, talvolta persino di intere industrie, all'estero.


      In questa situazione la popolazione è veramente vittima: le ricchezze del paese anziché permettere sviluppo e benessere creano insicurezza, conflitto, morte (le uccisioni sono oltreché frequenti, spesso inspiegabili). L'attività nei campi è bloccata. Tutto sembra irrimediabilmente perduto. In questo clima di desolazione scopriamo inaspettatamente qualcosa di positivo che ci sorprende: la gente, quella gente africana che spesso abbiamo giudicato troppo rassegnata e sfiduciata è qui, viva e presente, soprattutto la componente femminile, e dice "basta". Lo grida con i mezzi che ha, non escluso il silenzio, com'è avvenuto durante il sequestro del vescovo, nell'iniziativa "la ville morte". Lo ha gridato con infinita riconoscenza agli organizzatori e partecipanti alla manifestazione "Anch'io a Bukavu". Lo abbiamo colto persino nella pagina di un umile giornalino distribuito fra le mamme del gruppo Muzire Bwacire: "sentiamo in noi una forza che ci rende capaci di continuare a lottare perché la vita prosperi, perché i nostri figli crescano bene. Sì, noi non siamo più le stesse".
      In questi anni bui, la chiesa congolese è rimasta accanto alla gente, pagando il generoso e costante impegno con il sacrificio di molti suoi figli, primo fra tutti il vescovo Christophe Munzihirwa assassinato davanti alla cattedrale di Bukavu il 30 ottobre '96.


      Periodicamente la Conferenza episcopale ha lanciato messaggi di incoraggiamento e di invito alla pace, non nascondendo la riprovazione per taluni comportamenti. Anche di recente, in occasione dell'ingresso nella diocesi di Bukavu del nuovo vescovo Charles Mbogha, il cardinale Frédéric Etsou, presidente della Conferenza episcopale congolese, ha pronunciato un discorso fortissimo, condannando apertamente quanto avviene in Congo, complici le autorità, e indicando i nuovi comportamenti che devono essere assunti dai responsabili per assicurare l'integrità del territorio nazionale e la salvaguardia dei diritti della persona.
      Alla popolazione, il cardinale ha voluto esprimere la sua gioia nel constatare che "nonostante le tristissime condizioni in cui vive, essa mantiene viva la speranza".


      Perché questa speranza che ha avuto una gestazione tanto difficile possa rafforzarsi e concretizzarsi, siamo partiti da Bukavu convinti una volta di più che l'impegno da parte nostra deve continuare, nonostante le vicende umane sembrino demolire quanto si va faticosamente costruendo.

      Franca e Dante Fugazza volontari Mlfm
      Bukavu (Congo), giugno 2001

      BUKAVU: IL GRIDO DEL MARTIRE 

      Il 29 ottobre 1996, mons. Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu, in Congo RD, veniva assassinato, per mano di alcuni miliziani rwandesi.

      E’ ritenuto il Romero dell’Africa, per le tre caratteristiche che contraddistinguono i due martiri: la profezia, la fraternità, il martirio.

      A sette anni dalla morte, risuona ancora più forte il suo messaggio alle chiese e all’intera umanità. Ecco uno stralcio:

      “Per la ricostruzione del Paese sarà necessaria una lunga pace degli spiriti: essa è frutto di dialogo e riconciliazione permanente e richiede un lungo processo di negoziazioni, condotte da uomini coscienti degli interessi comuni.

      Una nazione è prima di tutto un accordo di ogni giorno di voler vivere insieme, dimenticando le ombre del passato, adoperandosi per evitare la dittatura, sia della maggioranza che della minoranza.

      La guerra è sempre la demenza di un individuo o di un gruppo che provoca la violenza per arrivare al potere o per rimanervi.
      Occorre che le armi tacciano; allora chi ha perso la testa potrà avere il tempo di riprendersi e le persone sane percepiranno le loro convinzioni più profonde per il servizio del bene comune, per fare germogliare una nuova democrazia, culturalmente inserita nella nostra realtà dell’Africa centrale.
      Devono cessare le demagogie nei nostri paesi e i giochi d’influenza internazionali ed emergere dei governi che rispecchino delle scelte il più possibile coscienti e libere, formulate da popolazioni ridivenute serene.
      "La storia ha delle lezioni da darci: in certi momenti il perdono e la riconciliazione sembrano impossibili, ma si giunge sempre a constatare che senza di essi la vita rimane infernale.
      In realtà, ci sono delle cose che non si possono vedere come conviene, se non con occhi che hanno pianto.
      Che il Signore asciughi le nostre lacrime con il dono della pace”.

      http://www.saveriani.bs.it/


      NOTE:

      1. - Il Kivu est una delle nove Province storiche della RDC. La città di Bukavu ne è stata sempre il capoluogo. Nel passato il Kivu era una provincia unica; con il regime di Mobutu è stata divisa in tre province: il Nord Kivu ( con capoluogo Goma), il Sud Kivu (con capoluogo Bukavu) e il Maniera (con capoluogo Kindu).


      2 - IL Kivu nelle sue frontiere storiche al fine di comprendere sempre di più il ruolo socio politico che tutta questa regione gioca con la Repubblica del Rwanda:

      Il Rwanda col pretesto di combattere i genocidari del 1994 rifugiatosi in Congo e con la complicità di forze congolesi e straniere vorrebbe potersene impossessare. In verità altri motivi egemonici di tipo politico e finanziario si nascondono dietro quelli detti ufficialmente.

      Il Kivu è limitato: al Nord dalla Provincia dell’Alto Congo, al Sud dalle Province del Katanga e del Kasai Orientale, all’Owest dall’Alto Congo e del Kasai Orientale, all’est dal Rwanda, il Burundi e la Tanzania.

      La popolazione del Kivu è stimata a 9.898.200 abitanti, cioè il 18,33% della popolazione globale della repubblica Democratica del Congo. Il Kivu è la regione più popolata di tutto il paese; è anche quella che ha più densità con i suoi 23,3 abitanti per Km2 contro i 4,5 abitanti al Km2, la media per l’insieme del paese._

      3 - Nel 2002, il 68% della popolazione del Kivu aveva meno di 30 anni. Ed il tasso annuale di crescita era al di sopra del 4%. Il Kivu ha molte potenzialità economiche, date soprattutto dalla sua posizione geografica e da un clima eccezionale e benefico.: vi si praticano culture alimentari (banane, fagioli, manioco, mais, sorgo, patate, legumi, riso, tubercoli di tutte le specie, frutta, ecc…) , cultura per l’esportazione (caffé, thé, chinina... ) , l’allevamento di bovini, d’ovini, del pollame e la pesca nei laghi vicini . Il Kivu dispone anche d'importanti risorse minerarie e di gas metano . Il Nord e il Sud Kivu sono Province molto montagnose : la loro altitudine varia tra 350 m e 2.500 m ;

      4. - "Mons Munzihirwa si era formato in Rwanda e conosceva molto bene l'ambiente ruandese. Era tra le poche persone che all'Est parlano la lingua del luogo, perchè ha vissuto a lungo nella provincia orientale dell'Africa Centrale. Aveva una visione globale dei problemi della Regione dei Grandi Laghi. Da tempo si era reso conto che le potenze occidentali anzicchè favorire la riconciliazione e una equilibrata redistribuzione del potere tra i due popoli, giocano ad appoggiare di volta in volta i diversi gruppi etnici a seconda delle esigenze del momento e ha denunciato questa politica che mira unicamente al controllo dell'Africa Centrale. Si è così trovato ad avere numerosi nemici tra i Tutsi che ritenevano la sua attività a favore della riconciliazione e della pace una minaccia. Gli Hutu invece non gli perdonavano la denuncia, forte e chiara, del genocidio del 1994 e di chi l'aveva materialmente eseguito. Ha avuto conflitti e dissapori con gli americani che hanno più volte mandato il loro ambasciatore per trovare punti di accordo. Mons.Munzihirwa era l'unico a criticare l'ambasciatore americano. Si era collocato al centro dei conflitti ed era probabile che un giorno o l'altro avrebbe pagato con il martirio il suo appello per la pace, quella vera." in Balcani d'Africa in Narco Mafie dicembre 1996;

      5. - la città di Bukavu è a 1.550 m. d’altezza. Bukavu è la capitale della provincia amministrativa del Sud-Kivu. La città é situata sui bordi del lago Kivu, é costruita su cinque piccole penisole (la più conosciuta quella chiamata “la botte”) addossate alle montagne alte di più di 2000 metri.. La città è à 207 km da Goma, 128 km d’Uvira, 538 km da Kalemie, 145 km da Bujumbura ( Burundi), 300 km da Kigali (Rwanda) e 956 km da Kinsangani.

      6. - La popolazione del Kivu è composta da diverse tribù, che vivono in perfetta intesa ed armonia. Accanto alle lingue di ogni tribù, la popolazione parla « Swahili » divenuta lingua regionale e il francese. Ma la maggior parte delle scuole secondarie e superiori adottano anche l’Inglese come seconda lingua. Il Kivu dispone di un grande numero di scuole secondarie, concentrate, in grand parte, nella città di Bukavu. Le scuole superiori più conosciute sono l’Università Cattolica di Bukavu (UCB), l’Università del Graben a Butembo (UGB), l’Istituto Superiore di Pedagogia di Bukavu (ISP), l’Istituto Superiore per lo Sviluppo Rurale di Bukavu (ISDR) e l’Istituto Superiore di tenniche medicali di Bukavu (ISTM). L’Istituto Superiore Pedagogico di Bukavu è stato fondato e costruito dai Saveriani e attualmente è frequentato da circa 3.000 studenti provenienti da tutto il Congo.

      7. - La grande maggioranza della popolazione del Kivu si dice cristiana, principalmente cattolica.
      L' animismo é abbastanza diffuso. I Mussulmani, molto presenti nel Maniera e nel Sud Kivu sono quasi inesistenti nel Nord Kivu.

      8. - Sul piano socio-politico il Kivu vive dal 1994 la sua pagina più nera della sua storia, fatta di afflusso massiccio di rifugiati ruandesi, di guerre, di saccheggi, di violenze. Un immenso fardello di morti, stimato a circa 4 milioni morte a causa di queste guerre dette di liberazione. Tra i morti ricordo i due Vescovi : Monsignor Cristoforo Munzihirwa e Monsignor Emanuele Kataliko, i numerosissimi preti, religiosi e religiose, e i tantissimi laici. La città di Bukavu è la città martire della resistenza ed è quella cha saputo lottare contro tutte le mire egemoniche del Rwanda. Creduta asfissiata ancora una volta dagli avvenimenti del maggio/giugno 2004, la città si è ancora messa in piedi, grazie soprattutto all’azione della Chiesa Cattolica e della sua Radio “Maria Malkia wa Amani (Regina della Pace), che senza orpelli né finzioni ha saputo denunciare alla nazione e all’opinione internazionale i progetti destabilizzanti del Rwanda. La Chiesa Cattolica e la sua Radio furono tacciate dai Ruandesi/Banyamulenge come “predicatori di odio” e “fomentatori di un genocidio contro i Banyamulenge”.

      9. – La situazione sociopolitica che viviamo attualmente non è affatto buona. Questa è caratterizzata da un forte scontento popolare, che aumenta sempre di più a causa delle molteplici sofferenze che il popolo continua a sopportare. Le promesse fatte alla nazione dal luglio 2003 dagli attori della transizione contrastano terribilmente con la realtà che si vive oggi sul terreno. Le violazioni dei diritti umani continuano ad essere d’attualità in alcune regioni del paese: Ituri, Nord-Kivu e Sud-Kivu. Le deviazioni del denaro pubblico proseguono a grande scala toccando cifre impressionanti. Gli stessi finanziamenti della Banca Mondiale, destinati ad alleviare la miseria delle popolazioni sono stati anch’essi deviati. I politici si perdono in querele inutili sia nello spazio presidenziale, come in quello del governo, del Parlamento e del Senato al punto che tutti non sperano che per la prolungazione della transizione per mantenere il potere acquisito. Di fatto tutto è stato messo in opera per far passare i 24 mesi della transizione che avrebbero dovuto condurci a delle elezioni generali libere proprio nel giugno scorso 2005. Tutti si gettano la palla l’un contro l’altro, e i più abili ne approfittano e cercano di ricuperare l’occasione per gridare ai ladri e continuano a mettere il paese a fuoco e sangue. Siamo dunque intrappolati dalle fobie e dalle strategie dei politici e il futuro non ci sembra affatto molto rassicuranti. C’è una certa psicosi nel paese che non ci aiuta affatto a usufruire di questo periodo di preparazione alle elezioni in maniera serena.

      10.-"I Banyamulenge sono in maggior parte ruandesi di origine Tutsi che a cavallo tra il 1800 e il 1900 sono scappati alla morsa del regime particolarmente crudele di un re Tutsi e hanno chiesto asilo alla tribù dei Bavira e a quella dei Bafulero che vivevano presso la la collina di mulenge dalla quale i rifugiati hanno poi preso il nome. Quindi l'etnia Banyamulenge non esiste nello Zaire. Si tratta di Tutsi che hanno preso un nome diverso per testimoniare il fatto che sono stati accolti dalla popolazione dei Mulenge. Il gruppo di Banyamulenge è molto piccolo, ma a seguito dei conflitti in Rwanda altri Tutsi si sono aggiunti a quelli che vivevano sulla collina di Mulenge e nell'altopiano di Itombwe. Il problema è sorto quando tutti gli altri Tutsi arrivati nel corso delle successive ondate hanno reclamato la nazionalità zairese. Ciò ha innervosito la popolazione locale che li aveva accolti ma anche le autorità locali perchè essi richiedevano la doppia nazionalità." o.c.


      11. L’attuale presidente ruande­se, Paul Kagame, non cessa di perseguitare gli hutu, e di istigare all’odio contro di loro, come se tutti avessero partecipato al genocidio, per fare in modo che il suo regime duri eternamente. Dice che «bisogna eliminare la canna con tutte le radici». Si dimentica che moltissimi nostri fratelli hutu, che abitavano a Buymba, Kibungo e Ruhengeri, furono massacrati dal FPR negli stessi giorni del genocidio. Ad essi bisogna ag­giungere le migliaia di hutu inseguiti e massa­crati dal FPR nella Repubblica Democratica del Congo, ex-Zaire, a partire dall’ottobre del 1996. Il regime di Kigali continua a inviare, nella par­te orientale della Repubblica Democratica del Congo, degli hutu con la «missione» di com­piere atrocità: essi costituiscono il nucleo dei Rasta, che continuano a terrorizzare la popola­zione dei villaggi, nei dintorni delle foreste che circondano Bukavu, rubando, saccheggiando, violentando, sequestrando e massacrando la popolazione, con l’aiuto dei banditi congole­si. Alcuni di questi hutu provengono dalle pri­gioni ruandesi, dove sono rimasti a lungo con l’accusa di genocidio; altri sono membri delle Forze democratiche di liberazione del Ruan­da (FDLR) che, rientrati dal Congo in Ruanda, sono stati riciclati per ritornarvi come Rasta. A volte collaborano in loco con hutu rifugiati corrotti. Sostenuti da Kagame, inviano a loro volta in Ruanda i minerali preziosi che estrag­gono o estorcono alla popolazione. Lo scopo di questa sporca impresa è quello di infangare, agli occhi dell’opinione pubblica internazio­nale, la reputazione degli hutu che si trovano ancora in Congo, massacrare la popolazione congolese e spingere il Congo a far rientrare a forza in Ruanda gli hutu rifugiati, per esse­re riciclati e rinforzare le file dell’esercito per nuove avventure militari in Congo. (tratto da "Solidarietà Internazionale")

      LA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

      Situato al Centro dell’Africa, l’antico Congo Belga è diventato Repubblica del Congo (RC) dopo la sua indipendenza nel 1960. Cambio di nome sotto il regno del presidente Mobutu che lo chiamera “Repubblica dello Zaire (RZ)”. Il paese prenderà il nome di « Repubblica Democratica del Congo (RDC) nel 1997, in seguito al rovesciamento del regime Mobutu per mezzo di Laurent Désiré Kabila, detto il “mzee” (= vecchio).
       È la nazione più estesa del Centro Africa tra il 5° parallelo Nord e il 14° parallelo Sud. Le sue frontiere sono delimitate nel Nord e nell’Ovest dal bacino del fiume Congo, mentre nell’Est dalle zone dei Grandi Laghi, e nel Sud con l’Angola e lo Zambia.

      · Ha una Superficie di 2.344.860 Kmq

      - Con foreste abbondanti nel Centro Nord e con un altopiano nel Sud e nell’Est.
      - Con immense ricchezze minerarie nel sottosuolo: rame, zinco, stagno, oro, cobalto, uranio. Attualmente le miniere di cassiterite e coltan rendono il paese desideratoardentemente da tutti.
      · Ha una popolazione di 54.000.000,
      - con il 65% di giovani dai 0 ai 30 anni;
      - con una crescita annua del 4% ;
      - con una mortalità infantile del 12,8%;
      - con un alfabetismo del 77%;
      - con una scolarizzazione del 23%
      - e con una stima per l’anno 2015 nettamente quasi duplicata di 90.000.000 di abitanti.

      Il centro ed il nord del paese, coperti da foreste, sono poco popolati.

      La popolazione urbana corrisponde al 40% degli attuali abitanti.

      La RDC conta circa 350 etnie che vivono una certa armonia da parecchie decenni. Si parlano diverse lingue, che possono essere classificate in tre categorie:

      - Le lingue etniche che si limitano spesso allo spazio geografico abitato dalla stessa etnia.
      - Le 4 lingue nazionali, di cui qualcuno è parlata al dilà della RDC: il Lingala e il Kikongo nel Owest e nel Nord-Owest, il Tshiluba nelle province del Kasai e lo Swahili nel Katanga, nel Kivu e nell’Alto Congo.

      – Il Francese: lingua officiale e lingua per l’insegnamento.

      Piccola legenda:

      APR: Esercito Patriottico Ruandese

      FPR: Fronte Patriottico Ruandese

      CDR: Directorate of Military Intelligence (Servizi segreti)

      MDR: Movimento Democratico Ruan­dese

      FDLR: Fronte Democratico Liberazione Ruandese

      MINUAR: Missione delle Nazioni Unite per il Ruanda

      RCD: Repubblica Democratica del Con­go


      VOCABOLARIO: PRECISARE DI CHI SI STA PARLANDO

      Chi parla di Ruanda, Burundi e dintorni, spesso adopera troppo genericamente i termini hutu e tutsi, come se ciascuno dei due avesse un proprio contenuto univoco.
      In realtà, bisogna distinguere bene.
      a. Se con hutu e tutsi si vuol indicare la base popolare, allora è necessario sapere che sia hutu che tutsi abitano lo stesso territorio, mescolati tra loro da qualche secolo almeno; parlano la stessa lingua, hanno la stessa cultura e le stesse tradizioni sociali e religiose; l'unica distinzione tra loro consiste nell'attività tradizionalmente più ricorrente: gli hutu del popolo sono in genere contadini; i tutsi pastori. Questi ultimi costituiscono certamente una minoranza della popolazione.
      b. Se con hutu e tutsi si intende parlare dei due gruppi dirigenti che si contendono il potere in Ruanda, si sappia che si sta parlando di èlites numericamente molto ristrette, all'interno delle quali ci sono persone che sanno vivere e pensare "all'occidentale", perché hanno potuto godere del privilegio di frequentare l'università, spesso in Europa o negli Stati Uniti.
      c. Se si parla di genocidio degli hutu e dei tutsi in Ruanda, allora si tratta o degli eserciti o dei miliziani (civili organizzati militarmente; più o meno armati).
      Nella primavera del '94 l'esercito hutu e i miliziani hutu - da tempo addestrati in tutto il paese - hanno messo in atto un folle progetto di sterminio di tutti i tutsi abitanti in Ruanda, riuscendo ad ucciderne circa la metà (cioè almeno mezzo milione).
      A partire dall'estate del '94, preso il potere, si può dire che l'esercito tutsi sta attuando un genocidio selettivo degli hutu; in questo è certamente sostenuto dal gruppo dirigente al potere, che - cosciente di aver a che fare con una maggioranza di popolazione hutu, sta puntando ad eliminare solo i suoi leader, o i leader potenziali.
      In entrambi i casi è quindi gravemente scorretto dire che gli hutu e i tutsi si stanno uccidendo a vicenda; chi uccide, fa parte di categorie ben precise di persone (gli eserciti e i miliziani); i mandanti, ovviamente sono i rispettivi gruppi dirigenti.

      LO SCONTRO ETNICO NON E' LA CAUSA DI QUESTA GUERRA

      Spiegare la guerra con l'odio tribale è come spiegare un incendio doloso col grado di infiammabilità del legno da costruzione, e non col fiammifero gettato da qualcuno. Un simile approccio è deliberata volontà di non capire, quindi complicità col piromane" (Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti 1996). Quello che un giornalista intelligente ha scritto per la guerra nell'ex Jugoslavia, vale certamente anche per l'Africa dei Grandi Laghi. Anche perché esistono diverse ricostruzioni storiche riguardanti gli abitanti del Ruanda (teniamo presente che, fino agli inizi di questo secolo, non esisteva storia scritta in quell'area, semplicemente perché la scrittura è stata introdotta dai bianchi !):
      a. c'è quella che parla di successive sovrapposizioni di tre gruppi etnici: prima i pigmoidi (batwa), poi i bantù (bahutu) e infine i nilotici (batutsi: sì, i watussi !); sovrapposizioni compiute comunque almeno da tre secoli, con la formazione di una società di tipo feudale a predominio tutsi.
      b. un'altra ricostruzione storica nega l'esistenza delle etnie; tra gli storici europei c'è chi preferisce parlare di qualcosa di simile alle caste indiane (Kapuscinski) o semplicemente di "comunità" compattate sulla base della paura del nemico (Franche).
      E' di fatto problematico, nella prima ricostruzione, spiegare come mai i vincitori abbiano assunto lingua, cultura e religione dei vinti; o come mai in ogni punto del paese le percentuali di hutu e di tutsi siano grosso modo costanti.
      Di certo le autorità coloniali belghe nel 1931 hanno riaperto il solco dell'eventuale differenza etnica in Ruanda introducendo una legge che determinava - là dove se ne erano perse le tracce - l'appartenenza etnica sulla base del numero di mucche possedute: chi ne aveva più di 10 era classificato come tutsi, chi ne aveva meno di 10 come hutu. Teniamo presente che i belgi stavano vivendo al proprio interno lo scontro tra fiamminghi e valloni (due lingue e due territori distinti, però!).


                                                                                                                               Luigi Consonni


      Appello all’opinione pubblica

      Canisius Kaiyuru, hutu ruandese in esilio in Congo

      «Vogliamo informare l’opinione internazionale, soprattutto le grandi potenze, che è tempo di pensare alle sofferenze che patiscono gli hutu, sia al di fuori del Ruanda, che in Ruanda. Il genocidio è reciproco, e quello dei tutsi contro gli hutu continua, sotto forma di gacaca, dove oltre un milione di hutu è stato già accusato di aver partecipato al genocidio. Il gacaca è stato istituito solo per giudicare gli hutu e poterli meglio sterminare, al riparo di una cosiddetta giustizia, ma nessun hutu è autorizzato ad accusare i tutsi, che hanno diretto il genocidio contro gli hutu a partire dall’1 ottobre 1990, quindi tutti quelli che sono al potere a Kigali, cioè il Fronte Patriottico Ruandese (FPR) e l’Armata Patriottica Ruandese (APR), il suo braccio armato, con Paul Kagame in testa, dopo la morte di Fred Rwigema, il 6 ottobre 1990. E tuttavia, i tutsi hanno perpetrato un vero genocidio contro gli hutu fino ad oggi, nel quale i «superstiti» sono diventati le spine più forti contro gli hutu che li avevano protetti durante i reciproci genocidi. Gli hutu sono accusati anche dagli autori del genocidio (gli hutu già condannati, o non ancora condannati, che hanno chiesto perdono), corrotti, costretti dal FPR a inserirli nelle loro liste, sperando come ricompensa la liberazione. Il genocidio continua tuttora attraverso i gacaca, i rapimenti e gli arresti arbitrari. Gli hutu, che hanno perso la guerra, non benefi ciano di alcun sostegno e stanno morendo fisicamente e moralmente in ogni angolo del Ruanda, e in ogni parte del mondo. Per questo abbiamo deciso di scrivere questa testimonianza per la comunità internazionale.

      Condizioni di vita dei prigionieri

       Per mantenere il potere ritrovato il 17 luglio 1994, il regime di Paul Kagame arresta hutu innocenti, che ammuffiscono nelle prigioni, unicamente a causa della loro appartenenza etnica; e molti di loro vi muoiono, a causa delle condizioni disumane cui sono sottoposti. Sono stipati nelle prigioni e devono passare la notte distesi per terra. Non ricevono cibo dal governo, ma solo dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, senza il quale sarebbero morti di fame. I prigionieri devono pagare personalmente le cure mediche, se pure ottengono il permesso di recarsi all’ospedale. Molte volte il direttore non concede il trasferimento chiesto dagli infermieri, per cui spesso dalle prigioni escono dei cadaveri. I prigionieri vengono regolarmente frustati e, a volte, persino uccisi con armi da fuoco. Nell’aprile del 2006 un cittadino tedesco è stato ucciso insieme con i sei prigionieri hutu con i quali cercava di scappare. L’hutu che riconosce la sua partecipazione al genocidio è condannato a morte o all’ergastolo. Le altre condanne sono a 40, 35, 25 e 20 anni. Chi riesce a beneficiare del perdono, dovrà scontare almeno 35 anni di carcere. Dove sono il perdono e la riconciliazione dopo 35 anni di carcere? Il condannato deve forse riconciliarsi con il carcere? Altri hutu sono uccisi per strada o, se sono fortunati, riescono a passare le frontiere e uscire dal paese. Noi chiediamo Chiediamo alle grandi potenze di chiede- re a Kagame di smetterla con le menzogne che sta diffondendo senza vergogna, e di smettere di sostenerlo economica- mente, politicamente, militarmente ecc., accrescendo in tal modo l’orgoglio del suo regime, che semina disordini nella regione dei Grandi Laghi, allo scopo di stabilire l’impero hima. Chiediamo alle grandi potenze, in collaborazione con le Nazioni Unite e l’Unione Europea, di imporre a Kagame, e al FPR, un’inchiesta sulla morte dei presidenti Juvénal Habyarimana del Ruanda e Cyprien Ntaryamira del Burundi, delle loro delegazioni e dei loro piloti. Erano esseri umani che avevano diritto di vivere.

      Noi chiediamo

      Chiediamo alle grandi potenze di co­stringere Kagame, coordinatore di varie sollevazioni nel Congo democratico, a smettere di seminare disordini nei paesi vicini, soprattutto nel Congo democra­tico, con il pretesto di perseguire gli ex-FAR Interahamwe, le ribellioni, le rivendicazioni dei diritti dei ruandofo­ni ma, in realtà, per imporre l’impero hima.

      Chiediamo alle grandi potenze di im­porre a Kagame di porre fine alla di­suguaglianza, alla segregazione e ad avviare un dialogo inter-ruandese, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, del­l’Unione Europea e delle grandi poten­ze, in un paese neutrale, per risolvere il problema del genocidio e della politica di esclusione.

      Chiediamo alle grandi potenze, in colla­borazione con le Nazioni Unite e l’Unione Europea, dal momento che il genocidio è stato reciproco, di imporre a Kagame l’amnistia generale, l’unico modo per fare rientrare tutti coloro che sono ancora in esilio, riconciliare i ruandesi e stabilire una pace duratura in Ruanda e nella regione dei Grandi Laghi. Basterebbe imporre una leggera punizione a coloro che hanno partecipato al genocidio, su entrambi i versanti, per indennizzare le famiglie delle vittime delle due etnie, porre fine ai conflitti etnici e alle disuma­ne condizioni in cui vivono i prigionieri, facilitare il ritorno in massa dei rifugiati ruandesi, riavviare la buona coabitazione etnica in Ruanda.

      Chiediamo alle grandi potenze di costrin­gere Kagame a sospendere i gacaca e gli altri tribunali contro gli hutu subalterni e il popolo, permettendo l’instaurazione di un tribunale neutrale delle Nazioni Uni­te, che giudicherebbe simultaneamente l’Alto Comando dell’APR e il Comitato esecutivo del FPR, nonché l’Alto Co­mando dei FAR e il governo «Abatabazi» del presidente Théodore Sundikabwabo e del primo ministro Jean Kambanda, che hanno amministrato il paese subito dopo la morte di Habyarimana. Occorre stabilire nel paese una vera giustizia, non manipolata dal FPR e dalla DMI.

      Chiediamo alle grandi potenze di co­stringere Kagame ad accettare il diritto di espressione in Ruanda, la sospensione degli arresti arbitrari, dei sequestri e del­le uccisioni degli hutu, che non accettano di adorare il suo potere, e a ritirare e riportare nei campi i militari, e i DMI che sono attualmente sparsi in tutto il paese per terrorizzare la popolazione.

      Chiediamo alle grandi potenze di costrin­gere Kagame a sospendere immediata­mente le nomine sotto intimidazione (le cosiddette elezioni) fatte dai militari, la DMI, i Comitati cellulari del FPR.

      Occorre organizzare nel paese elezioni libere e trasparenti e instaurare una democrazia indipendente, con la li­beralizzazione dei partiti politici, per instaurare in Ruanda un potere eletto democraticamente.

      Se Kagame e il FPR rifiutassero tutto questo, chiediamo alle grandi potenze, l’Unione Europea, in collaborazione con le Nazioni Unite, di prendere posizione contro di loro, soprattutto attraverso il sostegno economico, militare, politico, diplomatico delle forze di opposizione, sia politiche che militari, che lottano per rovesciare questo potere sangui­nario».



      JON JONES/SYGMA/CORBIS Solidarietà Internazionale, Novembre-Dicembre 2006


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