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Fraternitè

Articolo dal campo di Ventimiglia

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C’era una giovane donna di nome Etty Hillesum che, durante la seconda guerra mondiale, in un campo di concentramento si interrogò sul fatto che ognuno di noi è chiamato a dare la sua personale risposta quando la marea dell’ingiustizia travolge l’umanità, a cercare di condividere - per quel che è concesso e ognuno secondo le sue possibilità - una sorte che anche se di alcuni riguarda tutti, riguarda tutto il mondo: “si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite” scrisse.

Siamo partiti da città diverse dell’Italia per ritrovarci dal 18 agosto al 26 agosto 2021 a Ventimiglia: un gruppetto di tredici giovani alla frontiera di uno dei territori più attraversati dai migranti, provenienti sia dalla rotta balcanica che da quella mediterranea, verso l’Europa. Per la comunità dei Comboniani ci hanno accompagnato due fratelli attualmente di sede a Venegono (VA) e un padre che risiede a Padova, con cui abbiamo condiviso le giornate di missione nello spirito comboniano e l’organizzazione quotidiana delle attività, oltre ai momenti di preghiera. Alcuni tra noi avevano già vissuto dei periodi più o meno lunghi all’estero in terra di missione, ma ognuno è partito con le proprie idee sull’argomento delle migrazioni, ognuno con il desiderio di predisporsi a conoscere personalmente - al di là del mainstream - qualcosa di più sui viaggi delle sorelle e dei fratelli migranti, ognuno aperto a lasciarsi raggiungere da qualcosa di forte.

Ed eccoci, abbiamo detto il nostro sì a questa esperienza e ci siamo ritrovati immersi in una umanità in cammino, in transito, bisognosa delle cose più essenziali per vivere: cibo, acqua, vestiti, una coperta per scaldarsi, cure mediche, un luogo in cui trovare riparo, un sorriso di solidarietà e vicinanza. Le attività sono partite da subito con il servizio alla Caritas di Ventimiglia, per metterci in aiuto in cucina nella preparazione del cibo quindi nella distribuzione dei pasti per il Centro Caritas, dove ogni giorno centinaia di fratelli e sorelle migranti vengono per trovare aiuto materiale, informazioni legali e sanitarie, un sorriso di umanità. A volte le persone arrivano anche alla ricerca di un familiare disperso lungo la rotta in un campo della Libia o dell’Europa dell’Est, stremate dopo l’ennesimo tentativo di attraversare un’ingiusta frontiera che respinge. Una Europa che non accoglie abbastanza, dentro la quale ogni giorno avvengono discriminazioni e violazioni dei diritti umani. Avvenimenti che spesso sprofondano nel silenzio, ma camminando tra le montagne o lungo i binari della ferrovia risuona forte un grido: che venga riconosciuta l’umanità di questi fratelli e sorelle in viaggio dai paesi più colpiti da guerre e calamità naturali, diseguaglianze economiche e discriminazioni nell’accesso all’istruzione e alle cure mediche più basilari. Un confine inesistente per i cittadini europei, un confine aspro che per i nostri fratelli e sorelle spesso costa la vita e si rivela invalicabile a causa del colore scuro della pelle. Proprio lo scrittore Enzo Barnabà, custode del “sentiero della morte”, ci ha raccontato le vicissitudini storiche locali e come i migranti cerchino di attraversare la montagna italo-francese, lasciando lungo il percorso fogli di via, biglietti del treno, vestiti, oggetti e tutto ciò che non è essenziale per continuare il viaggio verso la libertà. Gli Scout del posto hanno tracciato lungo alcune pietre del sentiero dei segnavia con il simbolo del sole che sorge, ribattezzando questa strada impervia tra i monti “cammino della Speranza”. Tutte testimonianze toccanti che il gruppo ha visto e raccolto percorrendo un tratto del famoso sentiero.

Il servizio si è svolto, inoltre, presso la parrocchia di Bordighera dove abbiamo dato il nostro aiuto materiale per le necessità parrocchiali e dove il parroco Don Rito Alvarez, sacerdote originario della Colombia, ci ha calorosamente accolto, provocandoci positivamente con la sua storia e la sua testimonianza di accoglienza verso i migranti, dal periodo della manifestazione nel 2015 sugli scogli a Ventimiglia, per la libertà di attraversamento dei confini, ad oggi. Da quel momento Don Rito ha accolto molti migranti, aprendo letteralmente le porte della chiesa di Sant’Antonio per dare un tetto e una sistemazione dignitosa a centinaia di profughi.

Per cercare di avvicinarci il più possibile a quello che vivono i migranti, in una calda giornata di fine agosto abbiamo preso il treno da Ventimiglia fino alla prima stazione francese di Menton-Garavan (noi privilegiati abbiamo potuto proseguire poi fin verso Nizza). In questa piccola stazione ferroviaria è presente un grande dispiegamento di polizia, specialmente una volta varcato il confine. A Menton-Garavan il treno si ferma per far salire un nutrito gruppo della gendarmeria francese, che in perlustrazione si assicura non vi siano migranti all’interno dei vagoni. Qui non conta quanto hai sofferto, chi sei o per cosa stai lottando, qual è il sogno che ti porti dentro, qui si viene discriminati in base al colore della pelle: se sei nero è facile che verrai respinto, talvolta anche se sei minorenne non fa differenza. Lo stesso vale per le giovani madri e per i figli che dimorano tra le loro braccia, talvolta bagnati dalle lacrime di un genitore che incassa il duro colpo della discriminazione razziale, talvolta bagnati dalle piogge torrenziali sotto le quali sono costretti a imboccare a piedi la via del ritorno dopo il respingimento alla frontiera. Questo avviene nella completa inadempienza delle leggi sull’ accoglienza. Al rientro da Nizza, abbiamo incontrato Martine, referente dell’Ong Amnesty in Francia, che ci ha raccontato molto delle problematiche che riguardano questa frontiera e di come agisce la polizia francese e italiana nei confronti dei migranti. Esiste un sistema di norme studiate apposta per tutelare, eppure quanto stride con ciò che abbiamo osservato alle stazioni ferroviarie di Ventimiglia e Menton, ai bordi dell’autostrada, sui sentieri che scavalcano la montagna su cui si snoda il filo spinato del confine, e sotto il viadotto eletto a dormitorio dei migranti lungo il fiume Roya.

Uno dei momenti più intensi di questa esperienza è stato quando ci siamo recati nei pressi del cimitero di Ventimiglia, dove si trova un grande piazzale e al di là di questo un viadotto sotto il quale vivono accampate centinaia e centinaia di persone in condizioni di vita davvero precarie. In questa area avviene la distribuzione serale del cibo, portato dalla Caritas e da altri movimenti di solidarietà locali, con il contributo di un gruppo autogestito che porta un generatore per la corrente in modo che i migranti possano ricaricare il telefono e collegarsi al wi-fi per dare notizie di sé ai propri cari. In quella sera al piazzale del cimitero di Ventimiglia abbiamo visto come anche nelle situazioni più disperate possa germogliare sempre umanità e solidarietà, come ci sia sempre voglia di rinascere e di ricominciare in queste persone, attraverso gesti semplici come quello di ritrovarsi a giocare una partita di pallone insieme a alcuni di noi, oppure nella disarmante bellezza di una volontaria del luogo che si china a fasciare i piedi distrutti di un uomo che ha attraversato un intero continente per arrivare fino a Ventimiglia, mosso dalla speranza e dalla determinazione di costruire un futuro migliore per la propria famiglia.

Nella pressoché totale mancanza di collaborazione da parte delle istituzioni statali, quello che ci ha colpito ancora una volta è come la storia si possa fare dal basso, come il volontariato e le associazioni locali di solidarietà siano composti da persone comuni che ogni giorno si spendono gratuitamente per i fratelli e le sorelle migranti, a partire da gesti semplici e nascosti, come donare un sorriso o una parola di aiuto, un piatto caldo, la ricarica di corrente per il cellulare. L’esperienza di servizio vissuta ci ha coinvolto in profondità, stimolato a interrogarci ancora una volta grazie agli incontri avvenuti. Al termine di una giornata di lavoro, durante una condivisione di gruppo, abbiamo sentito che ognuno di noi è un volto diverso della stessa umanità. In esempi come quello di Delia, titolare del Bar Hobbit a Ventimiglia, che ha offerto il suo locale per dare sollievo e riparo momentaneo a tante persone e famiglie migranti, stanche da un lungo viaggio, scontando in prima persona i pregiudizi di una fetta della popolazione locale e delle istituzioni. Persone che mettono a disposizione chi il proprio tempo, chi la casa, la chiesa, l’auto, le ferie, le energie, la propria competenza professionale e pure la propria incolumità per prendersi cura di questi viaggiatori in cerca di un futuro migliore. E migranti che, senza vincoli di parentela né di conoscenza pregressa, prendono sotto la propria ala donne e bambini rimasti soli, connazionali che hanno perso la lucidità mentale o neoarrivati che ancora non si sanno orientare e rischiano di finire nelle mani del passeur sbagliato.

 

Caterina, Gabriele, Miriam per il Gruppo

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