L'esperienza di Castel Volturno

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Castel Volturno (CE): un albero che cade o una foresta che cresce?

Impressioni dopo un breve campo di lavoro.

 

C’è un bel paese non molto lontano da qui, dove vivono bambini di tanti colori: neri, marroni, rosa, qualcuno più chiaro, altri più scuri; molti di loro parlano più di una lingua perché vengono da Paesi lontani. Questi bimbi crescono tutti assieme e giocano tutti assieme nello stesso posto e con la stessa palla; alcuni hanno la famiglia, altri no, altri ancora non lo sanno…

Per arrivare in questo paese si deve attraversare un pezzo di terra, gran parte del quale viene utilizzato per la coltura di pomodori e di pannocchie. Immaginatevi distese immense di campi, attraversati da strade e punteggiati qua e là da qualche piccolo e triste agglomerato di case poco curate; in mezzo un lungo fiume che sfocia nel mare e lungo la costa una bellissima e infinita pineta.

Questa pineta è abitata giorno e notte. Ma non dagli animali del bosco, non da insetti, neppure  da folletti o gnomi! Qui vivono tanti ragazzi di tutte le età alcuni dei quali non hanno dove stare, non hanno un lavoro, non hanno una casa, qualcuno ha una famiglia lontana che non vede da anni e che  probabilmente mai rivedrà.

Io ci sono stata in questa pineta!

Era un giorno d’agosto, il primo giorno del campo di lavoro al quale stavo partecipando; il caldo era terrificante ed io sudata, stanca ed affamata (erano le 12) mi inoltrai nella pineta accompagnata da cinque amici (tre padri comboniani e due compagne).

All’inizio niente ci sembrò particolarmente insolito anzi, non potevamo che trovare sollievo per il fresco offerto dagli alti pini. Ad un certo punto p. Giorgio mi chiese: “Hai mai visto l’inferno?”

Effettivamente no – pensai – e neanche me lo immagino! Ora però ne ho un’idea!

Mi prese sottobraccio e con lui mi avviai all’interno della pineta: ecco cosa vidi, cosa videro le mie amiche e i miei amici, cosa ha cambiato le nostre vite perché da allora non possiamo più prendere decisioni senza prima pensare se può giovare o distruggere queste persone!

Fin da subito notai molte siringhe piantate sui tronchi dei pini che ci diedero il benvenuto. La natura ha dotato alcuni alberi di spine per proteggersi da chi tenta di far loro del male; le “spine” che ho visto piantate nei pini sono, invece, il segno di un male che sta nel cuore dell’uomo, nel cuore della nostra società.

Ai miei piedi un tappeto infinito di siringhe non mi permetteva di muovermi senza calpestarne alcune… sembrava mi invitassero, come succede dei film horror, e mi dicessero “vieni, vieni, ti stavamo aspettando”. A parte la paura di essere, per sbaglio, punta, provavo uno strano imbarazzo… come potevano essercene così tante?

Improvvisamente si sentirono delle urla… qualcuno corre… qualcuno lo insegue… altri dietro lo chiamano… c’è un gruppetto di giovani… ci avviciniamo a loro… p. Giorgio tenta: “Venite a mangiare, abbiamo portato del riso!”… “Dopo gra… dammela forza!”… si passano la siringa… un po’ di eroina spruzza verso di noi… lei ha finito e ci guarda contenta… sta guardando  verso di noi ma non ci vede… la siringa cade a terra… qualcuno non è contento perchè è arrivato in ritardo…

Torniamo dagli altri.

Non erano quattro ragazzi, e nemmeno dieci, e nemmeno cento… non li abbiamo contati. Ma dall’ingresso della pineta continuavano ad entrare e uscire.

Chi sono questi ragazzi?!?

I cittadini di questo paese dicono che tutti sono “potenziali abitanti della pineta” e per riconoscerli basta guardare le scarpe, perché sotto la pineta non ci sono solo siringhe ma anche sabbia. E le scarpe le guardi a tutti, anche ai vicini e agli amici!

Portammo loro da mangiare per dieci giorni e loro venivano da noi; arrivavano tutti, italiani e extracomunitari, disoccupati e lavoratori, ragazzi e ragazze, qualche papà e qualche mamma, qualcuno con la speranza di vivere, altri di morire. E arrivavano già drogati, con ancora l’eroina o il sangue che scendeva dal buco sul braccio, sul mento, sul petto… ho visto una ragazza che piangeva, un altro che mi sorrideva… uno mi ha persino offerto una sigaretta (che abbiamo fumato assieme).

QQQQQ

Qualcuno non capisce e forse mai capirà perché lo abbiamo fatto.

Quella pineta è stupenda e orribile! A vederla dall’esterno sembra il paradiso… invece è l’inferno!

Quel primo giorno uscii dalla pineta con gli occhi lucidi…

Nel tragitto verso casa guardai fuori dal finestrino cercando di trattenere le lacrime e vidi una ragazza africana – bellissima! – che sorrideva. Poi si fermò una macchina e lei salì, non sorrideva più.

Ne vidi un’altra, ancora più bella, anche lei salì su una macchina con un signore che, ci tiene a precisare, è cattolico, sposato con bambini! Non abbiamo contato nemmeno le ragazze di strada che abbiamo incontrato in questi giorni ma erano tante, e molto giovani.

Tornai a casa distrutta. Davvero. Erano le 13. Pranzai  con i miei compagni. A tavola ci raccontarono alcune cose, io ve ne segnalo solo tre:

v     Dovunque, anche dal macellaio, puoi trovare chi ti vende scatole di siringhe!!!

v     Tutti gli edifici, anche quello in cui eravamo ospiti noi, sono abusivi, privi di permesso, di fondamenta, di fogne, compreso il locale presidio dei Carabinieri!

v     Anche le suore nigeriane che collaborano con i padri comboniani ( in un anno sono riuscite ad aiutare dieci ragazze ad uscire dal giro di prostituzione! J ) hanno avuto offerte di lavoro sulla strada perché su quella strada, la Domitiana, “tutto è concesso”, anche chiedere ad una suora, ad una mamma con bambino, a una donna che torna con le borse della spesa, a chiunque… di “fare un giro”.

Per non parlare di tutte le donne che vengono maltrattate o che trovano il modo di abortire per riuscire a lavorare di più, guadagnare di più e pagare il riscatto al loro protettore che le tiene schiave tramite promesse, contratti, riti voodoo!

Dopo aver ascoltato andai a letto - Chissà, magari se mi sveglio mi accorgo che è un brutto sogno! –  Questo, dopotutto, è solo un paese come tanti altri, non molto lontano da qui!

Nutro nel Y la speranza che quello che stanno facendo nel loro piccolo tutte le associazioni di volontariato, la Caritas, le forze dell’ordine, seppur poco ( veramente troppo poco!) possa portare più che buon frutto. Qualcuno ha detto “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”… credo che in questo paese sia stata piantata una foresta, un’altra “pineta”, che a fatica e silenziosamente sta crescendo, anche se è difficile vederla…

 

… e penso che questa foresta sia fatta di tanti bambini, figli di prostitute e figli di commercianti, figli di drogati e figli di politici, che stanno imparando a crescere assieme nel paese dove vivono e dove forse, un giorno, riusciranno a sradicare i vecchi alberi rinnovando con la nuova pineta questo bel paese…

 

Michela (GIM Vengono)


UN GRIDO D'AIUTO

 Estate 2001, solo una giornata di treno ci separa da Castelvolturno, un piccolo paese del casertano, un piccolo paese dove sono concentrati grandi problemi, un paese da cui si levano molte grida d’aiuto, le stesse che nelle nostre città riescono a rimanere inascoltate ai più, qui si amplificano e si fanno sentire.

Gran parte del territorio del comune è occupato da una stupenda pineta, ma Castelvolturno e la pineta non sono la stessa cosa. Fuori il caldo cocente, dentro la fresca ombra dei pini marittimi belli e slanciati. Ma la realtà umana è un’altra: dentro una specie di inferno, fuori un’instabile tranquillità.

Entriamo, a prima vista sembra una bel posto solo poco curato, sporcizia ovunque, il letto di aghi di pino è coperto di bianco, carta, plastica, ma servono solo pochi secondi per notare l’incredibile quantità di siringhe, incappucciate o con l’ago in vista, sporche di sangue o vecchie e logore e ancora siringhe conficcate nella corteccia dei pini. Sembra regnare la quiete, solo osservando attentamente si notano tra i tronchi alcune figure umane, alcuni si aggirano apparentemente senza meta, barcollando, altri camminano velocemente verso una qualche direzione. Ci addentriamo, e inizia a sentirsi un vocio, il numero delle persone aumenta, sono radunati in gruppetti, rincorrono chi ha la roba, comprano, si preparano e si bucano. Mano a mano che osservi, lo spettacolo diventa sempre più agghiacciante, un ragazzo si conficca una siringa nel braccio: fa male e fa paura vederlo. Altri si muovono con siringhe in mano o tenute sopra l’orecchio, non si capisce cosa stiano cercando mentre aspettano di bucarsi.

Queste sono le immagini più chiare che rimangono nella mia testa, ogni volta che penso alla pineta, sono visioni che scioccano e che ti costringono a pensare, a chiederti che cosa non va. Ma poi altre immagini affiorano e penso al Ducato rosso con il quale ci addentravamo, al pentolone di pasta o riso da offrire ai quei ragazzi che al di là dei motivi per cui sono caduti in questo incubo, hanno un immenso bisogno di esserne aiutate ad uscirne. Con un piatto di riso non si può fare molto, ma è l’inizio, e così si inizia a instaurare un rapporto con alcuni di loro, con quelli che hanno voglia di fermarsi a parlare, italiani alcuni, ma soprattutto immigrati. È disarmante il modo in cui molto di loro ti parlino liberamente di quello che stanno vivendo, quasi capiscano da tuoi occhi che ti stai domandando il perché di tutto ciò. Alcuni ci chiedono se conosciamo delle comunità, altri speriamo non ce lo chiedano, non c’è risposta per loro: per tutti quegli immigrati finiti lì dentro non c’è nessuna risposta, nessuna comunità li potrebbe accogliere, devono farcela con le loro forze e questo vuol dire che non ce la faranno mai.

       Quello dei tossici di Castelvolturno resta uno dei problemi maggiori da affrontare da parte di chiunque, da parte delle autorità che vogliono liberare il territorio da questa scomoda presenza, da parte di p.Giorgio e p.Franco che stanno cercando di capire come intervenire, ma come dicono loro «è ancora tutto da studiare». E anche nelle nostre menti l’esperienza lascia le domande più difficili, domande che sembrano non trovare risposte, ma che devono costringerci a riflettere, a non nasconderci semplicemente di fronte al fatto che il problema è fuori dalla nostra portata.

Viviana

 


L'AFRICA IN ITALIA

Forse anche tu in questo momento sei affaticato, come hai fatto mille volte, alla finestra di camera tua. E guardi la tua città. E scorgi solo palazzi, villette, grattacieli, solo cemento. E come me non riesci a trovare un motivo per essere felice. Poi mi sovvengono alla mente le immagini di un paesello campano conosciuto quest’estate: Castelvolturno. Non lasciarti trarre in inganno dal nome: è pura Africa in Italia Africa a casa nostra! 27 chilometri di costa, lungo la via Domiziana, che il cemento e l’avidità dell’uomo hanno strappato a Madre Natura.

Rimane la pineta, vastissima. Ultimo rifugio di un immenso stormo di uomini e donne, senza casa e senza meta, ma in perenne movimento. Tutti in ricerca di quella sostanza che solo può ancora fargli spiccare il volo. Sarà questa la loro nuova casa? Non molto distante «Pineta Mare « attira come l’incanto di un’oasi migliaia di villeggianti che si godono questo paradiso abusivo.

5 chilometri di case, alberghi, bar, ristoranti e negozi, e sabbia finissima, e lunghe file di ombrelloni, e mare finalmente balneabile. Riccione? Se plagio c’è stato l’imitazione è mal riuscita! Qui nulla è legale. Tutto ammassato addossato arroccato, senza l’ombra di una benché minima razionalità. Tutto concesso da uno Stato impotente. Tutto accentrato nelle mani di una sola potentissima famiglia…ma, sss… di questo non si può parlare! Omertà e Mafia si intrecciano in una sola cosa che tutto paralizza. Si gode di una calma piatta, una pace irreale. Sconvolgente.

Dall’altra parte della città sorge il piccolo borgo, il nucleo originario. E lì il castello, ormai decrepito. E poi i resti di un antichissimo ponte romano, il primo sul Volturno, opera di un grande imperatore. Ma ormai la Storia ha impolverato tutto e il Presente cancellato ogni memoria. E proprio la città sembra quasi costruita a questo scopo. Una via diritta, lunghissima, senza ricordi. Percorrendola in macchina ti accorgi che la segnaletica stradale è praticamente inesistente: dei tre semafori rimasti in piedi uno solo funziona, chissà con che diritto poi, dato che rosso e verde non fa differenza. Ma su questa via, da sempre fulcro degli illeciti di quest’area, è un’altra la vergogna che cattura l’attenzione. Sfilze di ragazze, quasi tutte africane, passeggiano lungo i lati della strada, si fermano, chiacchierano un po’. Le più «fortunate» vengono rimorchiate da un auto in transito. Ti potresti forse far ingannare dalle borse della spesa che qualcuna porta con sé  proprio per questo scopo. Ma no, è tutto chiaro. Sono prostitute. Schiacciate da una tratta che, catapultandole dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia, le rende schiave.

Proseguendo in macchina ci avviciniamo ai Reggi Lagni. Qui ti assale una puzza densa, spugnosa, che ti penetra nelle narici, nella bocca… e tu rimani così, allucinato, immerso in un silenzio che si fa totale, rotto solo dal battito lento e grave del tuo cuore. I Reggi Lagni, un paradiso d’acqua limpida dove i bambini fanno il bagno divertiti. Se chiudi gli occhi puoi quasi sentirli ridere. Forse l’aria conserva la memoria, che ne so, perché questo avveniva solo ai tempi dei Borboni. Oggi nel fango oleoso e puzzolente di questo canale che conduce al mare gli scarichi di 148 comuni, si muovono impacciati solo una mezza dozzina di uccellacci grigi. Più in là una casa diroccata fa da tetro sfondo a questa immagine degna di un film horror. Il sole che cala a oriente non preannuncia nulla di buono per la notte che verrà.

Forse, in un luogo così, non c’è spazio per la Speranza!

Poi mi sono guardato indietro e su questa lunga via ho visto i volti delle persone che ho incontrato, conosciuto, amato. Ed è allora che ho scorto nei loro occhi la scintilla d’Amore con cui incendiare il mondo. E ho finalmente trovato un motivo per sorridere.

Marcello