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giubileo per un nuovo tempo

c’è chi annuncia un Natale di fine millennio strepitoso, indimenticabile, sfarzoso, eccentrico, unico… Ma questo

è un annuncio fittizio, costruito con parametri economici, artificiali, che cerca il piacere per il piacere, una felicità momentanea, artificiale, fatta di compere e… di vendite. È un Natale per pochi, per alcuni, per certi…

un Natale di esclusi.

Ma l’annuncio di gioia, degli angeli ai pastori, è per tutti: «Vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il

popolo: oggi è nato nella città di Davide un Salvatore che è Cristo Signore». È un annuncio senza esclusi.   È un annuncio che sa di umanità, di storia, di popolo.

Oggi, per la nostra storia, questo annuncio si è fatto grido. È facile adorare quel Cristo che tace, ma è difficile accettare quel Cristo che oggi urla nelle nostre periferie, sotto i ponti delle nostre città, nelle fabbriche abbandonate, nelle interminabili code di extracomunitari fuori dalle nostre questure; che bussa alle porte delle nostre case vestito da rom, da anziana kosovara, da venditore ambulante. Che grida ancora più forte nelle periferie del Sud del mondo, nei sotterranei della storia, nei turchi e kurdi ammassati nelle stive di vecchie navi, negli asiatici nascosti in container che asfissiano, nei latinoamericani costretti a falsificare passaporti, a cambiare nome e nazionalità per essere poi sfruttati nel continente dell’opulenza.

Celebrare Natale, accogliere nel nostro cuore il Dio della Vita, vuol dire fare resistenza contro gli  idoli del potere, il denaro, lo sperpero,  l’apparire, la violenza premeditata,  l’intolleranza come sistema, il godimento come scopo assoluto della vita, la monetizzazione in segno del sacro. Solo così torneremo ad esistere, potremo danzare con tutti i popoli della terra e costruiremo un "Millennio senza esclusi", dove tutti si siederanno sotto la tenda che Dio ha posto in mezzo a noi.

Allora sì sarà Natale: la nostra vita diventerà annuncio, il nostro impegno liberazione e la vita, fatta carne nel Figlio dell’uomo,  vincerà.

Buon Natale di gioia e felice inizio del nuovo millennio.

P. FERNANDO, P. STEFANO, S R. ENZA


Va'  e librera il mio popolo

dicembre 2000 dicembre 2000

mosè,dopo aver preso coscienza della realtà faraonica e aver cercato di reagire, era fuggito nel deserto dove si innamorò di una na che gli regalò tre figli. Mosè era sistemato: una moglie, tre figli, tante capre. La sofferenza del suo popolo oppresso era ormai una realtà lontana. Com’è lontano da voi il grido di sofferenza di 2 miliardi di uomini!

Mosè aveva tradito: era ritornato al business as usual, agli affari di ogni giorno, tanto il mondo nessuno lo cambia.

Ma non è così per Yahvè, nome misterioso che appare qui per la prima volta. Non sappiamo il suo significato etimologico. Forse sta per "Io sarò con te" (Ez. 3,1–12), essere con, dalla radicale ebraica HYH. Ma sono in molti oggi a sostenere che il nome Yahvè è il rifiuto di darsi un nome. Dio è libero, non lo si può ingabbiare, non lo si può monopolizzare. «Lui è un Dio con un nome particolare – scrive il biblista americano Bruggemann – che può essere pronunciato solo da Lui. 

È un Dio senza credenziali nell’impero, sconosciuto nelle corti reali, non accetto nel tempio. E la sua storia incomincia prestando attenzione al grido degli emarginati».

È questa la grande rivoluzione religiosa:Dio non è il Dio del Faraone, dei re della città–stato di Canaan. Dio è libero e, proprio perché libero, è il Dio degli oppressi, degli schiavi, dei marginalizzati,dei crocifissi della storia. «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto – dice Yahvè a Mosè –. Ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Es 3,7). ÈYahvè che prende per il cravattino quel "fighetto" di Mosè, comodamente insediato nel "deserto".

 È Yahvè che chiama quell’imboscato di Mosè. La chiamata stessa è narrata seguendo moduli e simboli comuni alla tradizione d’Israele. Il roveto ardente (fuoco!) segno del Mistero. Il luogo dell’incontro con il Mistero è "terra santa". Dove, per rispetto, ci si toglie i sandali e ci si "vela il viso". Il tutto si riassume in quelle due parole: «Mosè! Mosè!»

A questa interpellanza personalissima, l’uomo può solo rispondere:

«Eccomi!». E l’impegno è chiaro: «Ora va’! Ti mando da Faraone! Fai uscire il mio popolo dall’Egitto» (Es 3,10). Yahvè non può accettare che il suo popolo viva in schiavitù. Nè può accettare che Mosè dorma sonni tranquilli mentre i suoi fratelli soffrono. Yahvè soffre: c’è sofferenza nel cuore di Dio. «Yahvè, a differenza dei suoi luogotenenti, è uno la cui persona è presentata – afferma di nuovo Bruggemann – come passione e pathos, volontà di interessarsi, capacità di piangere, energia di lamentarsi, ma anche di gioire». «Chi sono io per andare da Faraone e far uscire dall’Egitto Israele?»

(Es 3,11). Mosè emerge qui in tutta la sua fragilità davanti ad un compito quasi impossibile. «Io sarò con te!» (Es 3,12) è l’unica risposta di Yahvè. Mosè che «pascolava il gregge» è convocato da Dio a mettersi da pastore alla guida di una ciurma di schiavi per ridare loro la dignità di figli.Per fare questo Mosè ha dovuto incontrareYahvè sul monte Horeb (ricordiamo sullo stesso monte l’esperienza del profeta Elia in lotta contro il re Acab).

Anche tu giovane, immerso nel cuore dell’impero, sei chiamato ad andare al monte, ad incontrarti con Yahvè che accoglie nel suo cuore l’immenso clamore degli oppressi, dei diseredati. Scoprendo Yahvè, scopri gli impoveriti! È un binomio inscindibile! Yahvè non è il dio dell’Impero (da Faraone a Clinton!) nè il dio dell’ordine costituito! «Quando Dio è trasformato in guardiano dell’ordine – ci ricorda il domenicano V. Cosmao nel suo stupendo libretto Changer le Monde, tradotto in italiano Chiesa e sviluppo dei popoli – l’ateismo diviene la condizione del cambiamento sociale». Oggi infatti il problema non è l’ateismo, ma l’idolatria (la nostra è una società idolatrica!). «Se solo Dio è Dio, tutto il resto è compito, tutto il resto è da fare, tutto è sempre da ricominciare – ci ricorda Cosmao –. Dio rende liberi o non è Dio. Chi l’ha intravisto un istante, chi ha inteso parlare di Lui con  "conoscenza di causa", non teme più alcun potere, non temendo più la morte. Sa per esperienza che la sua sicurezza può nascere solo dalla paura,dall’angoscia superata ogni giorno in una perpetua nascita! Quando si moltiplicano questi "credenti", gli imperi tremano».

È stata questa la fede di Mosè che ha fatto tremare l’impero faraonico, è stata la fede di Gesù che ha fatto alla fine crollare l’impero romano, la fede di Gandhi che ha scosso l’impero britannico. Caro giovane, oggi anche tu hai davanti a te l’impero del denaro che uccide con la fame (30-40 milioni di morti per fame all’anno), con armi (conflitti, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente (morte ecologica). Mosè ha accettato la sfida: «Va’ e libera il mio popolo!»

E tu?

P. ALEX ZANOTELLI

E tu? E tu? E tu? E tu?


La letteratura come resistenza

Ngugi Wa Thiong’o nasce il 5 gennaio 1938 a Limuru, a pochi chilometri da Nairobi. La sua famiglia appartiene all’etnia Kikuyu. Frequenta un istituto scolastico gestito dal movimento per l’indipendenza Kikuyu, chiamato "Karinga". Qui impara a considerare il colonialismo  come forza d’oppressione e prende coscienza che è necessario opporsi a questo fenomeno con la forza della propria cultura. Si laureerà nel 1964 all’università di Makerere, a Kampala (Uganda) e proseguirà gli studi a Leeds, in Inghilterra.

Durante gli anni di Makerere incontra le nuove letterature dell’Africa e dei Caraibi; tale incontro lo segnò per tutta la vita: aveva incontrato finalmente un genere di letteratura che analizzava il mondo a partire da un centro diverso dall’Europa. «Il mondo moderno è il prodotto sia dell’imperialismo europeo, sia della resistenza che vi hanno opposto i popoli dell’Africa, dell’Asia e del Sud America. Dovremo forse guardare il mondo attraverso le risposte europee all’imperialismo dei Ru-dyard

Kipling, dei Joseph Conrad o dei Joyce Cary il cui lavoro, in termini di soggetti, luoghi o atteggiamenti adotta la realtà e l’esperienza dell’imperialismo?»

In lavori come A grain of wheat (Un chicco di grano, 1977) e Petals of blood (Petali di sangue, 1978) Ngugy affronta il tema della frustrazione  dei dimenticati della terra sognando anche, però, un loro improvviso riscatto. La stesura di Petali di sangue avverrà in esilio a Milwaukee dove fu costretto a ritirarsi per avere protestato contro la violazione della libertà accademica; resterà negli Stati Uniti due anni.

Nei successivi lavori ( The trial of Dedan Kimanthi, The black heremit, This time tomorrow) Ngugy si pone il problema dell’uso della lingua inglese sostenendo in questo modo la necessità di poter scrivere per tutti e la necessità di ritrovare la radice culturale comune a tutta la gente del Kenya. La svolta avverrà il 2 ottobre 1977 con l’allestimento dell’opera teatrale Ngaahika Ndeenda (Mi sposerò quando vorrò) in cui userà esclusivamente la lingua del suo popolo: il kikuyu. L’opera susciterà allarme all’interno dell’ establishment governativo tanto che ne verrà vietata la rappresentazione, l’autore verrà anche arrestato e tenuto in carcere per l’intero 1978 senza il beneficio di un processo.

Da questo momento scriverà tutte le sue opere in kikuyu, nonostante l’esilio che lo porterà prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti con incarichi come professore di letteratura nelle università di Yale, Smith,  Amherst e New York. Ngugy Wa Thiong’o è il testimone di un modo di fare letteratura che tenta di fuggire la prigione linguistica in cui il colonialismo l’aveva incatenata, ricercando invece le proprie radici genuine nelle lingue e nei ritmi di vita della maggioranza di sfruttati.

Solo in questo modo la letteratura africana potrà tornare veramente a casa, fra le masse africane che hanno sempre lottato per fuggire all’alienazione. Dice Ngugy: «… ma se il kiswahili o qualsiasi altra lingua africana dovesse diventare la lingua del mondo, ciò simboleggerebbe l’alba di una nuova era nelle relazioni umane fra le nazioni e i popoli dell’Africa e quelli di altri continenti. Per queste ragioni, per mio conto vorrei proporre il kiswahili come lingua del mondo».

 

Scritti

I. Vivian, Interpreti rituali. Il romanzo dell’Africa nera, Dedalo, 1978

S. Conte, Ngugy Wa Thiong’o. L’uomo, lo scrittore, il patriota, Africa n. 23, 1994

P. Trigona, Ngugy Wa Thiong’o, da fede a rivoluzione, Edizioni scientifiche Italiane, 1992

Per saperne di p