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I fatti del mese di settembre hanno portato scompiglio nell'Occidente, e di riflesso nel mondo; anche se per molti popoli nel mondo le cose non sono cambiate molto: sempre in lotta per la sopravvivenza, e forse ormai "abituati" alla precarietà della vita hanno vissuto con meno incertezza e paura gli attentati alle torri gemelle di New York.

Le reazioni nel mondo "civile" sono state molto diverse e a volte un po' sconcertanti. Ore e ore di diretta Tv, commenti, tutto il mondo davanti al televisore per avere notizie di tante vittime innocenti, messaggi di condanna e di cordoglio da parte di tanti capi di stato, la società e lo sport che si fermano, minuti di silenzio in tutte le città; e poi mercati che crollano, crisi finanziarie, il panico sembra aver preso il commercio mondiale (ma se tutti vendono, chi compra e chi guadagna?).

Nei giorni che seguono, oltre alle condanne si fanno sempre più forti le voci di guerra, vendetta, "giustizia infinita", aumento delle spese militari. Accanto al dolore per tante vittime, ci viene da chiederci: "Ma chi piange i sudanesi che in questi anni sono morti e muoiono sotto le bombe degli aerei di Khartoum, chi fa il lamento per gli oltre due milioni di morti per la guerra in Congo, chi si indegna per i bambini rapiti in Uganda, o per quelli costretti a combattere nelle tante guerre in Africa?". Forse che il valore delle persone si calcola dal conto corrente o dal Pil del loro paese? Di fronte a tutto ciò ci si può chiedere cosa si può fare, come essere segno visibile di un altro modo di vedere di pensare, come portare avanti la nonviolenza che ci chiede il Vangelo e creare un mondo dove ci si  possa incontrare per parlare anche delle nostre diversità.

A chi pubblicizza la guerra su tutte le reti Tv, come può la nostra debole voce farsi sentire? Dicette o' pappece nfacce a noce «Damme tiempo ca te spertoso»

(disse il verme alla noce: «Dammi tempo e ti perforerò»).

Osare il futuro è saper avere la volontà di andare anche contro delle "noci" dure, ma con la convinzione che piano

piano anche la forza della nonviolenza, la voce dei dimenticati sarà ascoltata grazie alla nostra perseveranza.

P. FERNANDO, P. BAKANJA, SR. BRUNA

TRENTO


Disarmare i cuori e le mani:il Vangelo della nonviolenza

Luca 9,51-62

A Genova presi parte anch’io alla manifestazione di pace  quel giorno, sabato 21 luglio, durante il summit dei G8. Mi ci

volle una settimana buona per sbollire la rabbia che mi prese in seguito a tutto ciò che era accaduto nel corso di quella giornata e nella seguente. Confesso  di aver provato sentimenti di vendetta, perfino di odio, fino al punto di pensare che se qualcuno avesse compiuto qualche gesto scellerato contro le forze dell’ordine ne avrei gioito. Ero furibondo. Personalmente non ero stato menato dalla polizia– me l’ero cavata solo con un bel po’ di paura – ma avevo raccolto le testimonianze dirette di manifestanti che erano stati picchiati selvaggiamente dalla polizia senza aver commesso nulla. La notte di quello stesso giorno, poi, le forze dell’ordine avevano fatto irruzione nel Media Centre del Genoa Social Forum distruggendo attrezzature, computer e menando i malcapitati che si trovavanodentro. Ad aggiungere "benzina al fuoco" della mia rabbia furono le testimonianze di manifestanti condotti nella caserma di Bolzaneto dove erano stati insensatamente picchiati e insultati per il solo "torto" di aver partecipato alla manifestazione.

Nei giorni seguenti al G8 avevo perfino smesso di guardare la televisione e di leggere i giornali di simpatia governativa: non reggevo più la faziosità e falsità di reportage che facevano passare le vittime per aggressori e viceversa. Ripensando all’esperienza personale di quei giorni sono ancora sorpreso di me stesso, forse un po’ scandalizzato, per aver provato dentro di me, e non solo per la durata di qualche momento, sentimenti negativi così intensi. Ma ne è valsa la pena passarci dentro. È meglio rendersi con- to di quello che si è veramente senza finzioni né moralismi, piuttosto che chiudere gli occhi di fronte alla realtà ed essere meno preparati a gestire i propri istinti quando ci si sente attaccati o feriti dentro.

Alla luce di questa esperienza leggo il brano evangelico suggerito per questo mese e vorrei trarre alcune indicazioni per una spiritualità della nonviolenza. L’episodio narrato in Luca 9,51-62 si può ridurre in sintesi a questo: gli apostoli sono arrabbiati con gli abitanti di un villaggio della Samaria che hanno rifiutato l'ospitalità a loro e a Gesù perché diretti a Gerusalemme, la città invisa ai  Samaritani.

«Signore, vuoi che diciamo al fuoco di scendere dal cielo e di distruggerli?», reagiscono immediatamente Giacomo e Giovanni. Se fosse stato Pietro  ad esprimersi con tale veemenza non ci saremmo stupiti. Conosciamo il suo carattere focoso, capace di accendersi come un fiammifero appena viene provocato. Ma stavolta si tratta di Giacomo e Giovanni, quest’ultimo poi è una persona equilibrata, sensibile e riflessiva. Da lui non ci saremmo aspettati tanta aggressività. Gesù rimprovera Giovanni e Giacomo per la loro reazione violenta ed eccessiva: la distruzione dell’intero villaggio come punizione per una cortesia negata.

La prima cosa che voglio sottolineare è che anche i miti, come Giovanni, sono capaci di intolleranza e aggressività. La violenza è radicata nel cuore di ogni uomo e donna, non è un tratto peculiare di caratteri focosi. Essa è dentro di me, dentro di te, in uno stato latente magari, come fuoco sotto la cenere, ma pronta a scattare ogniqualvolta ci si sente offesi, ingiustamente denigrati o sottoposti a violenza fisica e psicologica.

Riconoscere di provare sentimenti di violenza  e di essere capaci di violenza è comunque imbarazzante e penoso da ammettere. Come posso dirmi cristiano/a, operatore/trice di pace – verrebbe spontaneo chiedersi – se provo sentimenti di odio verso le persone che mi fanno del male?…

oppure se, per molto meno, divento irascibile e intollerante nei confronti di altri automobilisti quando sono imprigionato nel traffico?… o se provo risentimento verso una persona che non la pensa come me e apertamente dissente da me?… C’è chi si scandalizza e si sente un cristiano fallito, ponendosi domande simili a queste. Sarebbe un grave errore giungere a tale conclusione.

C’è una storia che racconta di un tale appassionato di giardinaggio e molto fiero del suo giardino.

Una mattina si sveglia e con sua sorpresa vede che nel prato sono cresciute tante piantine di tarassaco.

L’uomo si mette subito all’opera per estirpare quest’erba infestante, ma ogni suo tentativo fallisce. Scoraggiato, alla fine decide di chiedere consiglio alla Facoltà di agricoltura dell’Università della sua città e in chiusura alla lettera scrive:

«Non so più cosa tentare, ditemi voi cosa devo fare a questo punto». Dopo poco tempo arriva la risposta: «Le suggeriamo di imparare ad amare le piante di tarassaco».

Mary Lou Kownachi, una veterana del movimento pacifista nord-americano, commenta così l’aneddoto: «Sono arrivata a capire che maturità spirituale vuole dire imparare ad amare tutte le piante di tarassaco che vivono in Mary Lou. È soltanto quando posso dire di sì a me stessa, così come sono con le mie de- bolezze, che Dio può lavorare in

me. Altrimenti sono solo di inciampo a Dio». «La spiritualità della nonviolenza – conclude la Kow-nacki – ha il modesto obiettivo di invitarci all’autoconsapevolezza e di farci compiere il salto verso  l’auto-accettazione. Questo vuol dire sperimentare la profondità dell’amore di Dio per me. Soltanto allora potremo compiere il primo passo come operatori/trici di pace».

Amico/amica carissimo/a, non ti fare ingannare da facili prospettive di superamento della violenza che è dentro ciascuno di noi tramite generici appelli  ad essere in pace con tutti o a scontati richiami a un "basta volersi bene". Il cammino della non-violenza è arduo, fatto di successi e di errori che siamo chiamati ad ammettere con onestà e senza paura. Al tempo stesso, la consapevolezza di sentirti avvolto dall’amore paterno/materno di Dio non ti porti mai a sopprimere l’indignazione che nasce dentro di te di fronte alle ingiustizie, all’oppressione del forte sul debole, alla violenza gratuita, alla violazione dei diritti umani.

Mantieni vivo questo fuoco, è la carica di passione che Dio ti sta trasmettendo per farti strumento di una

umanità nuova.

Ma non chiedere a Dio scorciatoie al problema della violenza: il fuoco dal cielo per distruggere il villaggio dei cattivi. Chiedi di non desistere e di aiutarti a continuare per la via stretta e lunga della nonviolenza: la strada della fermezza delle tue convinzioni nel rispetto delle posizioni dell’altro, della forza di non rispondere al male con il male ma solo con il bene, del sapere gridare dai tetti il tuo dissenso nei confronti di politiche economiche ingiuste, del coraggio di chiamare per nome le cose come sono senza paludamenti. Prendi seriamente questo cammino, senza dimenticare di sorridere  di te stesso quando dovessi inciampare…

Dio non smetterà mai di amarti.

EFREM TRESOLDI


 

Un testimone scomodo

Graziella Fumagalli, nata in Brianza e cresciuta in una famiglia numerosa,

dove la preghiera, il lavoro, l’onestà e la responsabilità erano all’ordine del

giorno, vive un’infanzia serena come quella di tanti bimbi della sua ge-nerazione.

Frequenta le elementari, i tre anni di avviamento commercia-le

e a 15 anni entra a lavorare in fabbrica. Graziella, adolescente, cresce in

un ambiente in cui la fede è una componente naturale del panorama so-ciale.

L’orizzonte delle sue amicizie giovanili si inscrive nel panorama de-gli

oratori, ma ben presto in lei si fa strada la curiosità di orizzonti più ampi.

Nasce l’interesse e la passione per la montagna. Sa stare in compagnia,

ama ridere, scherzare, cantare e non le mancano i corteggiatori, ma chi le

è vicino si accorge subito che la sua vocazione autentica è l’impegno missionario

per i poveri.

È proprio questa passione che la spinge a lasciare il lavoro e a riprende-re

gli studi: prima il liceo scientifico, e poi si iscrive alla facoltà di medi-cina.

Graziella è coraggiosa e interpreta la vita non come un’avventura

da tentare, o un melodramma da soffrire o godere, ma come un dovere

da assolvere, un compito da sbrigare e un tempo da non sprecare. La sua

meta non è il benessere, il conto in banca, il riscatto economico o l’affermazione

sociale. Consegue la laurea in medicina e chirurgia, e negli

anni di preparazione, pratica e specializzazione, emergono in lei un bi-sogno

di carità, una ricerca di assoluto, un’aspirazione al sacrificio. A 45

anni parte per l’Africa e approda in Guinea-Bissau col desiderio di met-tere

la sua professionalità al servizio dei più poveri. Vi rimane sino agli

inizi del ’93 e dopo alcuni mesi passati in famiglia si trova catapultata

in Mozambico. Nel Marzo del ’94 scade il contratto, ma ormai la sua unica

passione è l’Africa, e così a luglio dello stesso anno giunge in Somalia,

con un progetto della Caritas, per continuare la sua missione e vi rimar-rà

fino al dono estremo della vita.

Qui le viene affidata la responsabilità di capo progetto e fin dall’inizio sente che non

 è facile gestire una situazione dove ci sono troppi intrighi, trattative

sotterranee, minacce velate, pressioni indirette e in tanti vogliono

approfittare. Ci sono anche interferenze di un gruppo di miliziani, dei leader

politici, dei circoli notabili locali, delle bande armate: tutti vogliono la

loro parte e il loro profitto. Graziella si sforza di non dare esca ad accuse

di favoritismo e di non lasciarsi intrappolare in relazioni pericolose e diventa

un testimone scomodo. Proprio per questo la mattina del 22 otto-bre

’95 viene freddata da 3 colpi sparati al volto: i colpevoli di questo delitto

non saranno mai arrestati. Lei ha pagato con la vita la fedeltà alla missione.

Sì, Graziella era missionaria con il suo semplice dedicarsi ai poveri,

ai malati, ai sofferenti. Missionaria senza voce, parlava con le mani, con il

cuore, con i gesti. Ha saputo testimoniare la verità della fede che non ha

difeso argomentandola, ma l’ha affermata vivendola e lasciandosene ve-rificare.

Unita a Cristo nella carità ha pagato questo legame, che le impo-neva

la cura dei fratelli più deboli e non il compromesso con quelli più

forti e arroganti, fino all’estremo sacrificio della vita. Aveva subìto intimi-dazioni

dirette e sapeva che la perseveranza nella carità e nella giustizia

la esponevano a un rischio reale, a una minaccia che non si poteva liqui-dare

con un’alzata di spalle. Lei decise di stare al fianco dei suoi malati

nonostante le minacce e le preoccupazioni… E ci rimase fino alla fine, per

morire martire della carità.

 

Scritti su Graziella Fumagalli:

Paolo Brivio, Ho nascosto il mio volto. Graziella Fumagalli medico e te-stimone

con la vita in Somalia, Emi, Bologna, 2000.