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Vivere al piano terra

Volti. Un’estate intensa di incontri e di storie. Popoli in cammino e speranze condivise. Dall’insanguinata Cacoal, terra di martirio nella

verde foresta amazzonica, alle coste atlantiche africane del Togo-Benin da cui partirono e partono le navi cariche di schiavi e schiavitù;

dalle immense invasioni dei pueblos jovenes dell’amata periferia di Lima, all’isolata Barbiana terra di contraddizione e di libertà; dalle

mense Caritas di Colle Oppio a Roma alla fame cronica intrisa di silicosi e di lotta del popolo minatore di Cerro de Pasco (Perù - 4.380

m.s.m.); dalle favelas di São Paulo e dei suoi meninos de rua, all’utopia dell’”insieme agli altri” della Comunità di Capodarco (Ap); dall’oasi

di pace-preghiera-ecumene di Taizé alla violenza ingiustificata e devastatrice di Genova che ha violentato la resistenza pacifica e non-violenta

delle “mani bianche” della Rete di Lilliput… e tutto perché non basta più il click virtuale, ma bisogna creare reti di solidarietà

concreta e internazionale (Imola ci ha aiutato!).

È giunta l’ora di scegliere con più decisione. È tempo di schierarsi, è Tempo di scelte *! II popolo che vive al piano terra, quello che hai incontrato “fuori dalla porta”, quell’umanità  pellegrina che cammina instancabile per i crocicchi più sconfinati

di questa nostra terra, ci obbliga a Osare il futuro per una vita in pienezza per tutti.

Ormegiovani continua a camminare con noi con alcune novità.

– La riflessione sarà curata da p. Efrem Tresoldi dal Sudafrica. Missionario comboniano, ex direttore di Nigrizia e attualmente impegnato a

Pretoria nella commissione Giustizia, pace e salvaguardia del creato.

– Un grandissimo grazie a p. Daniele per tutto ciò che ha condiviso con noi e soprattutto per la sua disponibilità alla missione. Continuerà il

cammino con noi, ma da Korogocho… è il suo Osare il futuro.  Grazie Daniele, compagno, amico e fratello nel cuore di Dio e nella prassi del Regno e del Vangelo.

Ormegiovani cambia casa ma non contenuto. Ringraziamo già da ora p. Fernando, p. Stefano e sr. Bruna per aver accettato di coordinare

da Vengono Superiore (Va) questa stupenda avventura di credere nella vitalità sempre nuova e imprevedibile della forza evangelica dei

giovani.

Buon cammino Ormegiovani, buon cammino a voi e… osiamo insieme il futuro.

SR. ANNAMARIA, P. DARIO & P. MOSÈ

 

* ci riferiamo alla nuova videocassetta Tempo di scelte - dalla globalizzazione dei

profitti alla globalizzazione dei diritti.

Per informazioni consulta il sito www.giovamemissione.it

 

 

Riconciliazione e perdono: amate i vostri nemici

Luca 6, 27-36

Pensavo di sapere che cosa volesse dire perdono e riconciliazione.  Mi pareva di avere poco da imparare dopo anni di studi di teologia e molti di più di esperienza nell’amministrare il sacramento della riconciliazione. Le mie sicurezze sono entrate in crisi quando ritornando in Sudafrica nel 1998 ho iniziato a sentirmi coinvolto, con la testa e con il cuore,  nel cammino di riconciliazione di questo paese. Quanto è difficile – questo almeno mi è dato di capire - fare i conti e liberarsi dagli orrori e dalle sofferenze causati dal passato regime dell’apartheid. Le ferite fisiche e interiori sono ancora aperte nella maggior parte delle persone che sono state vittime di violenza e di gravi violazioni dei diritti umani. Come si può perdonare chi ti ha distrutto la vita o tolto per sempre una persona cara? Sono perdono e riconciliazione la stessa cosa?

Sentii dire un giorno che ci si può riconciliare senza perdonare.  L’affermazione mi lasciò sconcertato quando la udii  per la prima volta e mi fece riflettere. Ne avevo percepito il senso soprattutto ascoltando la testimonianza di Michael Lapsley, un militante anti-apartheid, che è rimasto senza mani e privato della vista ad un occhio in seguito all’esplosione di una lettera bomba inviatagli nel 1990 da agenti del regime razzista.  Michael oggi si è riconciliato con il suo passato.  “Sono una persona migliore – dice di sé. La mia storia, il mio dolore, la mia tragedia personale sono stati riconosciuti, accolti con rispetto e riverenza da molti in Sudafrica e da altri in varie parti del mondo. Ed è stato attraverso  l’amore, il  sostegno e la preghiera di tante persone che Dio ha saputo trasformare la lettera bomba che mi ha dilaniato in un evento di redenzione nella mia vita”. Michael  è un sacerdote anglicano ed ha scoperto una missione nuova nella  sua vita: aiutare  altri che hanno subito violenza, traumi e ingiustizie a ritrovare la pace dentro di loro. Dirige un’organizzazione chiamata Healing of Memories (Guarire la memoria) e da tempo conduce infaticabilmente seminari un po’ ovunque in Sudafrica e all’estero per permettere alle persone di raccontare la loro storia, in un’atmosfera di fiducia e rispetto. “E’ nell’esperienza di sentirsi ascoltati, di vedere riconosciuta la propria storia di dolore e di sentirsi dire che ciò che ti è capitato è un torto commesso nei tuoi confronti,  che una persona  comincia a compiere il primo passo verso la guarigione e la ricostruzione della propria esistenza”. 

E il perdono? Padre Michael non è nuovo a questa domanda che sovente gli viene rivolta dai suoi interlocutori. “Per ora non rientra nel mio orizzonte. Non conosco il nome del mio attentatore perché nessuno finora ha rivendicato la paternità del gesto criminale.  Non capisco come si faccia a perdonare in astratto.  Ma se quest’oggi qualcuno suonasse alla mia porta di casa e dicesse: ‘Sono io quello che ti ha inviato la bomba, ti chiedo di perdonarmi’, gli porrei prima una domanda: ‘Fai ancora lettere bomba?’. Se la risposta è no sarei felice di dirgli che lo perdono. E se mi dice che lavora, ad esempio, in un ospedale preferirei che continuasse a svolgere il suo servizio a favore degli ammaliati piuttosto che finire dietro le sbarre.  Chiederei infine al mio attentatore di aiutarmi con il salario che prende a pagare la persona che mi assiste, dal momento che non sono più autosufficiente”.

Esamino attentamente le parole di padre Michael e le confronto con una definizione di perdono: ‘Perdono è il superamento di pulsioni negative: rabbia, odio, risentimento, desiderio di vendetta. E avviene quando ad esse subentrano emozioni positive: compassione, benevolenza, e anche amore ‘. Qualcun altro lo ha definito così: ‘Il perdono si realizza quando la vittima non nutre più dentro di sé risentimento o odio verso chi le ha fatto del male e sperimenta nei suoi confronti un certo grado di fiducia ’. Senza voler forzare il significato della testimonianza di padre Michael mi appare chiaro che nelle sue parole sono già presenti gli  elementi  necessari al perdono e che volendo, implicitamente,  conoscere il volto del suo attentatore desidera poter ristabilire finalmente una nuova relazione con lui.

Esperienze come quelle di padre Michael  insegnano che non ci sono scorciatoie sulla via del perdono e che perdonare è un cammino lungo, molto faticoso e doloroso. Ma è l’unico percorso certo che porta alla liberazione del male e impedisce alle vittime di inaridirsi e morire dentro.

In Sudafrica negli ultimi anni oltre ventimila persone hanno raccontato la loro storia di dolore, di violenza subita durante gli anni dell’apartheid davanti alla commissione per la Verità e Riconciliazione guidata dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu. Sono persone che sono state torturate, che sono rimaste ferite in attacchi brutali o che piangono i loro cari uccisi da agenti del sistema razzista. Nella stessa sede circa settemila autori di gravi crimini hanno fatto la loro confessione nella speranza di ottenere l’amnistia. Pochi  però sono stati i casi in cui le vittime hanno perdonato ai loro aguzzini dopo averli incontrati. Tuttavia  la commissione per la Verità e Riconciliazione ha rappresentato un momento importante nella vita di tanti uomini e donne che per la prima volta hanno potuto raccontare la loro storia di dolore,  e sono stati ascoltati con rispetto e riverenza. Il sacrificio da loro compiuto è stato riconosciuto quale contributo alla causa della liberazione del Sudafrica e in parte hanno potuto recuperare quella dignità umana che era stata vilipesa da un sistema malvagio.

Alla luce di queste esperienze mi rendo conto di come a volte anche noi preti rischiamo di considerare con troppa fretta e superficialità l’invito di Gesù ad amare i nostri nemici. E’ un ideale difficilissimo, che richiede gradualità, solidarietà di persone amiche e una totale apertura al dono di Dio che ci è padre e madre. Occorre la preghiera, certamente. Senza dimenticare però l’umanità ferita di chi ha subìto violenza o un torto, che ha bisogno di grande attenzione e di canali di espressione nel cammino che porta alla liberazione dal male, al perdono e alla riconciliazione.

Carissimo giovane, qual è la tua esperienza di perdono? Hai provato a raccontare ad un amico, amica o al tuo confessore la storia di un'offesa o un torto da te ingiustamente subìti? Con quale esito? Come vedi il ruolo della preghiera per giungere alla liberazione dal risentimento e da sentimenti di odio? Coraggio, continuiamo a camminare insieme. Auguri.

Efrem Tresoldi

p. Raffaele di Bari

 

Voce coraggiosa e profetica

Un anno fa, p. Raffaele Di Bari, missionario comboniano originario di Barlet-ta,

veniva aggredito e ucciso, in Uganda, dai ribelli dell’Esercito di resisten-za

del Signore (Lra), costituito da fanatici abituati ad ogni genere di atrocità

e che hanno ben poco da spartire con la religione, anche se i suoi membri

combattono con il rosario al collo. Il loro obiettivo è portare in Sudan i bam-bini

per trasformarli in soldati, usando il metodo delle sevizie.

Padre Raffaele aveva denunciato la violenza che colpisce il nord dell’Ugan-da,

in particolare gli abusi perpetrati dall’Lra. Per la sua opera di evangeliz-zazione

e promozione umana era già stato aggredito altre volte, ma non

aveva mai desistito dal continuare con la sua gente, condividendone le sof-ferenze

fino al dono supremo della sua vita.

La sua storia è come quella di tanti uomini e donne che, lasciandosi conqui-stare

dal Signore e provocare dalla missione, fanno della loro vita un dono

per i più poveri. Fin da giovane ha sempre mostrato un forte amore per

l’Africa, dove arrivò nel 1959 e vi rimase, salvo alcuni periodi di servizio in

Italia, fino al giorno della sua morte, mostrando continuamente una predi-lezione

per coloro che soffrono a causa delle malattie, della povertà, delle

guerra e dell’ingiustizia.

È stato continuamente impegnato in Uganda, una nazione che, dopo l’indi-pendenza

dall’Inghilterra nel 1962, ha visto un susseguirsi di guerre, di col-pi

di stato, di carestie e di epidemie che l’hanno trasformata in un inferno.

Attualmente continua ad essere decimata dall’aids e negli ultimi anni è

comparsa anche l’infezione di ebola.

Padre Raffaele era un uomo entusiasta della sua missione e in nessun mo-mento,

anche se era stato minacciato più volte e aveva subito due attentati,

ha mai pensato di abbandonarla nonostante fosse consapevole del perico-lo

che andava incontro. Nel Signore trovava la forza e il coraggio per andare

avanti e per questo in una lettera scrive: «Ci affidiamo a Gesù, nostro vero

liberatore, salvatore e consolatore e lo invochiamo chiedendo che aumenti

la fede e la speranza. La tregua pacifica è durata solo pochi mesi. Ora, con il

ritorno dei banditi dal Sudan, si vive di nuovo in continue angosce. Si molti-

plicano le vittime dovute anche alle mine e non si contano più i sequestra-ti

e i deportati. In questo doloroso calvario, senza perderci d’animo e con

l’aiuto dello Spirito divino che ci dà forza, coraggio e conforto, rimaniamo

solidali con questo popolo così tanto provato».

Perché p. Raffaele è stato ucciso? La risposta la dà lui stesso con una tele-fonata

alla Misna pochi giorni prima di essere ucciso: «In tanti anni di

Africa, la missione più grande che abbia ricevuto dal Signore è stata quella

di dare voce a questa gente, denunciando al mondo le atrocità che i ri-belli

commettono quasi quotidianamente contro i vecchi e soprattutto

le donne e i bambini che per colpa di questa guerra vengono rapiti, dro-gati,

trasformati in soldati e assassini e anche usati per la pedofilia o per

il commercio di organi».

Padre Raffaele è morto, ma la sua opera non è stata vana perché il seme

che cade nella terra, anche se muore, vive nei frutti che produce. Luca Cri-spino,

in rappresentanza dei giovani di Barletta, durante i funerali disse:

«Proviamo dolore e sgomento per l’uccisione di p. Raffaele… Noi manife-stiamo

tutta la nostra ammirazione nei confronti di queste figure, sia che

provengano dal mondo religioso come da quello laico… Uomini che han-no

deciso di impegnare totalmente la loro vita in favore delle popolazioni

dei paesi svantaggiati… Il nostro auspicio è che, da questa tragedia, la

comunità internazionale tragga un monito e si assuma le proprie respon-sabilità

nei confronti dei paesi come l’Uganda».

Due cose aveva chiesto p. Raffaele: la salvezza della propria anima e la

pace in Uganda. Se la prima gli è garantita dal martirio dopo una vita

totalmente dedicata ai più poveri, la seconda sarà il frutto del suo sacri-ficio

e della sua intercessione, ma anche del nostro impegno a rifiutare

ogni forma di violenza, abuso, ingiustizia e a lavorare insieme, nella dife-sa

dei più deboli, per costruire un mondo più vivibile, dove ci sia vita in

abbondanza per tutti.