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Un'esperienza missionaria con la gente del Kenya

Frat. Paolo Rizzetto

Alla fine di un primo servizio missionario nella prima missione di Matany (Uganda), per un periodo prolungato (2 anni), per praticare la professione medica la Direzione Generale mi ha inviato a Nairobi, al Centro Internazionale Fratelli, dove i Fratelli Missionari Comboniani, nel periodo dei Voti Temporanei sono chiamati a seguire un programma formativo particolare che integra la loro professione nel campo della promozione umana. Questo periodo formativo viene a costruire l’integrazione ministeriale della nostra vocazione religiosa e missionaria. La Comunià Comboniana è costituita prevalentemente da Fratelli che studiano al Tangaza College nell’Istituto di Social Ministry, con la possibilità di ottenere un diploma, un baccalaureato o un Master in materie concernenti la promozione umana, i diritti umani, i temi della giustizia e della pace e la Dottrina Sociale della Chiesa.  Allo stesso tempo, con la vita comunitaria e lo studio, si cerca di vivere un’esperienza di servizio in realtà di marginalizzazione. Io ho svolto un servizio in un progetto di terapia domiciliare, per persone con HIV/AIDS, nella baraccopoli di Korogocho. Il progetto è gestito dalle Suore Missionarie Comboniane. I comboniani sono presenti con una Comunità dentro la baraccopoli e seguono il progetto da un punto di vista pastorale.
 
Non ho conosciuto molto del Kenya se non la realtà complessa e variegata della sua Capitale, Nairobi, una città con quasi 4 milioni di abitanti di cui almeno 2 milioni vivono in baraccopoli. Ce ne sono 200 in tutta Nairobi. Esiste un grande problema di disoccupazione e l’inflazione è molto alta. Questo ha creato un grande divario tra i più ricchi (pochissimi) e coloro che vivono in condizioni di povertà estrema. C’è il problema della corruzione a vari livelli, ma anche tanta voglia di riscatto da parte della popolazione, che nel 2010 ha ottenuto una nuova Costituzione.

La realtà dello slum è ricca di contraddizioni e purtroppo, per quanto riguarda l’HIV, è un ambiente dove la comparsa di nuove infezioni è più frequente e la progressione della malattia verso i suoi stadi più avanzati (AIDS) è più rapida. Tutto questo va a braccetto con povertà (non solo materiale) e violenza. Una stima di questo a Korogocho viene data dai risultati delle campagne di screening della popolazione su base volontaria: vine chiamato “test porta-a-porta”. I villaggi  dove si sa esistere più violenza o più alcolismo sono quelli con la più alta prevalenza di infezione, tra quelli che formano Korogocho: talvolta le stime raggiungono il 16-20% della popolazione visitata.

Oltre alla provvisione di servizi di diagnosi cura e prevenzione, una componente importante del progetto è quella formativa. Gli Agenti di Salute volontari sono l’anello di congiunzione tra i servizi del Progetto e le persone infette ed affette. Senza di loro non si potrebbe fare niente. Essi sono gli artefici del primo contatto: sono loro a stabilire ed accrescere la fiducia e la speranza della nostra gente. Queste persone ricevono una formazione che permette loro di riconoscere i principali sintomi delle affezioni della gente e quindi di offrire un primo supporto. Essi imparano come riconoscere situazioni che richiedono l’attenzione di un professionale e stabiliscono il necessario contatto.

Un altro aspetto del Progetto è la formazione degli agenti di salute “familiari”. Parlando di una malattia cronica, è necessario, soprattutto in un ambiente come Korogocho, poter garantire che le persone ammalate siano seguite a casa, riducendo i ricoveri in ospedale, che comunque sarebbero un peso per la famiglia. Nella maggior parte dei casi, chi si prende cura dei malati a casa sono bambini/e dagli otto ai sedici anni che sono accolti nel progetto e ricevono un minimo di formazione infermieristica che permette loro di provvedere, nei limiti del possibile ai bisogni degli ammalati o almeno di riconoscere quando è necessario riferire l’ammalato all’attenzione di mani più esperte o all’ospedale. Ciò che colpisce è vedere bambini/e e ragazzi/e prendersi cura dei propri genitori, con grande amore e spirito di servizio.

Una grande attenzione è posta sull’aspetto spirituale: un equipe è incaricata di accompagnare pastoralmente gli ammalati e mettersi in contatto con la Comunità dei Missionari o delle guide spirituali di altre denominazioni per assistere gli ammalati con la Preghiera ed i Sacramenti

Quando sono entrato nel progetto, mi è stato chiesto in quale settore volessi operare. Ho scelto di stare nel Programma dei bambini (Huduma ya Afya) e di visitare i pazienti a casa accompagnando gli Agenti di salute. Queste due attività danno la possibilità di comprendere la realtà dello slum da una prospettiva unica: quella del cammino fianco a fianco.

Dall’inizio del 2010, sono stato più coinvolto nelle visite a domicilio. Forse sono l’aspetto del nostro servizio che mi appassiona di più. Ci danno la possibilità di incontrare la nostra Gente in maniera molto familiare. Per me è anche un'occasione per camminare con qualcuno dei nostri infermieri, lavorare fianco a fianco con loro e imparare a conoscerli più a fondo. La presenza dello staff e degli Agenti di Salute mi aiuta molto. In più mi è piaciuto camminare come una piccola comunità itinerante per i viottoli di Korogocho.

 Visita domicilaire di fratel Paolo

Sono entrato in un progetto sanitario già ben avviato e il mio contributo è stato piccolo, rispetto all’impegno di tanti agenti di salute volontari e professionali che stanno con i malati nella baraccopoli tutti i giorni.
In particolare, sono stati proprio i volontari –solitamente “mandati” dalle piccole comunità cristiane a prendersi cura dei malati- a colpire di più la mia attenzione. Alcuni di loro sono malati essi stessi. Ciò che mi ha stupito è stata la compassione mostrata, l’intensità dei momenti di spiritualità vissuti assieme alle persone ammalate e la bellezza di un un contatto umano, una carezza o un abbraccio a chi e da chi per tanti versi è stato emarginato, lasciato ai bordi della società.
Una nostra volontaria, di nome Marren, ha testimoniato di essere stata motivata a divenire agente di salute quando lei stessa, così ammalata da non potersi alzare dal letto, era stata accudita dai volontari. “In quel momento –ci disse- decisi di diventare anch’io un’agente di salute: volevo essere anch’io come le persone che mi avevano curato!”
Alla fine del mio percorso di studi ho potuto raccogliere altre testimonianze di persone servite o operanti nel contesto della terapia domiciliare. Riporto qui di seguito alcune tra le testimonianze più significative che ho potuto raccogliere durante le interviste.
 
"A volte ci sentiamo come se le nostre vite non avessero alcun significato. Ci sentiamo come se fosse meglio se fossimo già morti. Dio conosce ciascuno per nome e Lui ha un piano per ognuno di noi; siamo speciali ed unici per lui. Dio non si dimenticherà mai di noi (Isaia 49:13-14). Il nostro futuro è assicurato in Gesù Cristo (Giovanni 1,11-12 e 10:28-29). Gesù conosce le nostre sofferenze (Ebrei 4:12-15)" [un paziente].

"Non è mio desiderio servire, ma è dono dello Spirito Santo. Dio, che è Gesù Cristo, mi ha permesso di vivere e di accettare Lui nella mia vita. Pregate  Gesù Cristo e Lui vi invierà lo Spirito di pazienza anche con l’HIV/AIDS,  e vi darà la saggezza per conoscere l'importanza di prendere la terapia antiretrovirale propriamente" [un familiare di una persona ammalata].

"Credo che siamo tutti uguali, agli occhi di Dio e non importa come viviamo e come siamo. Dio ha scelto ognuno di noi e quindi non dobbiamo guardare gli altri dall'alto in basso, dobbiamo aver cura l'uno dell'altro e trattare l'altro come uguale a noi. Le persone che hanno l'HIV sono nostri fratelli e sorelle e noi siamo colpiti alla stessa maniera. Quindi siamo collaboratori a cui la responsabilità è posta nelle mani e dobbiamo assicurarci, ad esempio, che l’HIV non si diffonda, perché sappiamo che le conseguenze e gli effetti che esso ha. Siccome diciamo che noi viviamo dello Spirito, camminiamo anche nel modo giusto per essere un esempio per gli altri" [un volontario].

"Nel periodo in cui sono stato in contatto con i malati, alcune delle persone che ho servito sono migliorate. Sono tornate da me per apprezzare ciò che ho potuto fare per loro. Questa conoscenza che c'è qualcosa che posso fare per migliorare la situazione di qualcuno, mi motiva e mi da la forza di continuare a servire il popolo di Dio, anche quando mi trovo di fronte a molte sfide“ [un membro dello staff].

"Una donna era malata e fu incoraggiata ad andare dal medico, che ha eseguito degli esami e le ha chiesto se lei fosse disposta a fare un test per l’HIV. La donna fu d'accordo ed il test risultò positivo. Suo marito era stato con circa quattro partners: tornò e passò l’infezione a lei. Lei non ne era a conoscenza. Dopo aver ricevuto il risultato, si convinse che sarebbe sicuramente morta presto e andò a letto, con il figlio neonato, attendendo di morire. Un fratello religioso amico, l'ha portata al nostro centro. Era molto ansiosa e timorosa di poter venire riconosciuta da qualcuno. Ha ricevuto dal team l'assicurazione che Dio è con lei e che lei avrebbe potuto vivere, insieme ai suoi figli. Ha ricevuto il trattamento e superato lo stigma e oggi dà testimonianza che Dio è vivo e l’AIDS non è una condanna a morte" [responsabile di un centro di salute].

Un ultima riflessione riguarda la condivisione di una persona: una lettura di una pagina della Parola di Dio molto particolare. In Ezechiele 37:1-2,11-14, dice il profeta,

<<La mano del Signore venne su di me, e ... mi depose in mezzo a una valle. Essa era piena di ossa. Mi condusse intorno a loro, erano molte che giacevano nella valle, ed erano molto secche ... Egli mi disse, “Mortale, queste ossa sono tutta la casa d'Israele. Dicono: ‘Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è perduta, siamo tagliati fuori del tutto’. Perciò profetizza, e dì loro: Così dice il Signore Dio, io vado ad aprire le vostre tombe e vi farò uscire dalle vostre tombe ... Porrò il mio Spirito dentro di voi, e voi vivrete.>>

Questo è il commento che una paziente ha fatto di questa lettura:
"Ho accresciuto la mia fede e so che io sono una persona importante agli occhi di Dio. Qualunque cosa accada, nella mia vita, accade per una ragione. Questo mi dà la forza di raccogliere le sfide nella mia vita. Il passaggio della Scrittura che mi ispira è Ez 37, 1-14. Ci fu un tempo in cui ero molto malata e stavo per morire. Avevo perso ogni speranza di vita. Ma quando ho letto questa Scrittura, essa mi ha dato forza, nel pensare che Dio può riportare in vita le ossa: anch’io avrei potuto vivere! E dopo aver preso gli Antiretrovirali  sono stata meglio. Da quando sono rimasta con questa Parola, non sono più stata così male, fino al punto di essere costretta a letto".

Questa riflessione mi ha colpito molto perché viene da una persona molto ordinaria, senza studi di teologia. Tuttavia questa persona ha saputo fare una lettura molto sapiente del brano considerato, probabilmente perché è riuscita a trascendere la sua condizione di malattia e a leggere la sua vita nella Parola di Dio. Forse è questo che come missionari siamo chiamati a testimoniare: che la nostra gente può trovare una Parola di Vita, sempre attuale e venire incoraggiata da essa.

La Direzione Generale ora mi invia in Sud Sudan. Sono molto eccitato ed onorato di andare nella terra dove la Missione Comboniana è cominciata, anche se sono anche un po’ preoccupato della difficile situazione sociale che si sta vivendo all’indomani dell'indipendenza del nuovo Stato, la Repubblica del Sud-Sudan.
Mi è stato chiesto un servizio di accompagnamento nella formazione di infermieri, in un progetto gestito in cooperazione con diverse Congregazioni Religiose.
Rimango nel campo della salute, ma più nel ramo della formazione. Formare agenti di evangelizzazione e promozione umana nella chiesa e società locali, faceva parte del piano di San Daniele Comboni, come anche l’interessamento di diversi agenti di pastorale missionaria. È tutto molto entusiasmante ma rimane l’incognita di quello che potrò fare concretamente. Credo molto in questo aspetto di formazione. Spero di fare la mia parte e di imparare ancora. So che non sarò da solo come sempre è stato nella mia seppur breve esperienza missionaria.

Sono molto felice di essere Fratello Missionario Comboniano. Al di là dei normali limiti ed ostacoli che vivo quotidianamente, cercando di essere fedele alla vocazione ricevuta (molti dei quali derivano dal semplice fatto di riconoscerci essere umani e talvolta dall’ostinazione di voler essere perfetti a tutti i costi…), sono felice dell’opportunità di poter condividere la Fede e la Fratellanza con altre persone e altri popoli. È un’esperienza che apre molti orizzonti e mi ha aiutato a conoscermi meglio.
Essere Fratello vuol dire per me stare con la gente nella quotidianità fatta di gesti, dinamiche e anche di lavoro e trovare in essi la presenza del Regno di Dio. È scoprire una Parola viva, che libera nella quotidianità. È la bellezza di appartenere a qualcosa di grande, anche se il mio contributo non è che una infinitesima parte di questo tutto. Eppure sono chiamato a credere che anche questo contributo è importante.
Questo cammino mi ha aiutato a guardare con più misericordia a me stesso ed ad imparare spesso dagli altri a perdonare e ad essere vicini a chi è rimasto indietro. Spero che tutto questo mi porti a capire e a vivere sempre di più quel “fare causa comune” che San Daniele Comboni ci ha lasciato come viva eredità.

C’è una Parola che da un po’ di tempo mi accompagna. È un passo del Profeta Michea dove si legge:
Ti è stato insegnato ciò che è bene e ciò che il Signore vuole da te: praticare la giustizia, amare con tenerezza e camminare umilmente con il tuo Dio (Mic 6,8)”.
Credo che queste parole si possano applicare tanto alla vita religiosa che a quella laicale. Esse descrivono uno stile di vita di sobrietà, condivisione e scoperta del progetto di Dio per l’umanità. Queste parole possono essere lette – e vissute - dal singolo e da una comunità. Nella prospettiva missionaria esse richiedono di mettersi in dialogo con un “Tu” che è altro, rispetto alla nostra esperienza. Questo può essere il cammino di una vita.
Tutti siamo chiamati a scoprire la strada. Non credo alla predestinazione ma credo che Dio non ci lascia soli, se lo cerchiamo come compagno di viaggio. È l’esperienza dei discepoli di Emmaus (Luca 24), di Maria Maddalena (Giovanni 20). E, questo nostro Dio, nell’esperienza di tanti popoli è Padre e Madre. Nelle parole di una teologa indiana, è “un Dio sorprendente, che si fa trovare in luoghi inaspettati”. E se quello che cerchiamo è questa relazione con Dio…  non ne vale forse la pena?


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