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Faccia a faccia con Camille Chalmers

di Mauro Castagnaro

26/04/2007  

Intervista / Faccia a faccia con Camille Chalmers
di Mauro Castagnaro

Camille Chalmers, docente di Economia all’università statale di Port-Au-Prince, è segretario esecutivo della Piattaforma haitiana di sostegno a uno sviluppo alternativo (Papda). Economista di fama internazionale, guida un coordinamento di organismi sociali impegnati nella tutela dei diritti umani e delle donne. Collabora con diversi media internazionali, in virtù della sua competenza, ma anche per la capacità di analisi della complessa situazione haitiana, mantenendo una visione equilibrata e indipendente. Mondo e Missione lo ha incontrato ai margini del Forum sociale mondiale di Nairobi.


Professor Chalmers, può delinearci il quadro dell’attuale situazione sociale ed economica di Haiti?


L’economia del Paese ha subìto negli ultimi anni un costante deterioramento, ben rappresentato dalla svalutazione del gourde, la moneta nazionale, nei confronti di quella statunitense: nel 1994 ne servivano 7 per acquistare un dollaro, oggi 35. La disoccupazione supera il 70 per cento della popolazione economicamente attiva e l’apertura commerciale e finanziaria ha reso fiorente il settore bancario, ma ha portato al collasso interi settori produttivi. Il Paese è divenuto ancor più dipendente dall’estero, tanto che oggi importa l’80 per cento del proprio fabbisogno di riso, mentre nel 1972 era autosufficiente, e sono stati persi altri 800 mila posti di lavoro. Questa crisi è legata alla transizione politica iniziata nel 1986 con la cacciata del dittatore Jean-Claude Duvalier e mai giunta a compimento a causa del conflitto tra le spinte democratiche del movimento popolare e la volontà degli Stati Uniti e dell’oligarchia locale di mantenere il controllo sul Paese. A questo scopo, Washington cerca di presentare quello haitiano come uno Stato «in bancarotta», al fine di giustificare un proprio intervento per la difesa della democrazia e la ricostruzione del Paese, naturalmente garantendo contratti miliardari alle imprese transnazionali. In questo senso la Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti (Minustah) è di fatto una nuova formula di occupazione militare, che si inserisce in una lunga storia di scontro tra la volontà indipendentista del popolo haitiano, che con la rivoluzione nera del 1804 mostrò la possibilità di una rottura radicale col sistema mondiale di dominazione, e quella delle grandi potenze di tenere il Paese sotto tutela.

Ma la presenza della Minustah non serve a garantire la sicurezza della popolazione?

Nelle aree rurali si vive una relativa tranquillità, mentre a Port-au-Prince la situazione è molto peggiorata dopo la cacciata, nel 2004, del presidente Jean-Bertrand Aristide da parte degli Stati Uniti, anche per l’ulteriore impoverimento della popolazione provocato dalle riforme neoliberiste varate dal primo ministro ad interim Gerard Latortue. L’assenza dello Stato nei quartieri poveri ha favorito lo sviluppo di organizzazioni di tipo mafioso, che amministrano la violenza ma, in un certo senso, forniscono anche «servizi» alla popolazione. Senza contare che ogni mese gli Stati Uniti rimpatriano un centinaio di criminali di origine haitiana, che hanno un ruolo chiave nell’aumento di sequestri e omicidi. La Minustah non ha fatto nulla per disarmare le bande paramilitari, tanto quelle legate ad Aristide quanto quelle vincolate all’oligarchia; anzi, ha compiuto stragi di civili, come quella del 22 dicembre scorso, che ha provocato 19 morti, tra cui 2 bambini, senza contare i casi di stupro, rimasti impuniti perché nei confronti dei «caschi blu» è stato fatto valere il principio dell’extraterritorialità. La Minustah è stata presentata come un’iniziativa di «cooperazione Sud-Sud», perché è composta da circa diecimila militari e poliziotti in maggioranza latinoamericani, sotto la guida del generale brasiliano Carlos Dos Santos Cruz. Ma in realtà sono Stati Uniti, Canada e Francia a controllarla, perché nello Stato maggiore, composto da una dozzina di membri, oltre al comandante in capo, c’è solo un argentino, mentre gli altri sono militari delle grandi potenze. Quindi la Minustah rappresenta piuttosto un ostacolo alla soluzione dei problemi di Haiti e la popolazione si oppone alla sua presenza.

Non è cambiato nulla con il ritorno alla presidenza della Repubblica di René Préval?

Le elezioni presidenziali del febbraio 2006 sono state organizzate molto male, con pochi seggi quasi solo nelle città. In ogni seggio avrebbero dovuto votare fino a ventimila elettori! Tuttavia la popolazione ha partecipato in maniera massiccia, a dimostrazione della propria coscienza civile. La scelta di Préval, che rappresentava il candidato meno gradito agli Stati Uniti, considerato «il gemello» di Aristide, indica la volontà degli haitiani di affermare la propria sovranità e l’aspirazione a un progetto popolare. Finora comunque il nuovo governo è stato molto timido e allineato con Washington.

Qual è la situazione del movimento popolare, che ha suscitato grandi speranze all’inizio degli anni Novanta, ma non è riuscito a rendere concreta un’alternativa?


Il movimento popolare haitiano vive una fase di ricomposizione, dopo aver subìto una dura persecuzione e aver attraversato momenti di confusione. L’occupazione militare ha un effetto unificante e i settori alleati alle forze straniere - gran parte del ceto politico tradizionale e dei movimenti controllati dall’oligarchia, come il «Gruppo dei 184» - stanno perdendo credibilità. 
La vittoria di Préval alle presidenziali è molto legata alla mobilitazione di parte del movimento contadino, memore del fatto che quando era stato presidente tra il 1996 e il 2001 aveva avviato una riforma agraria. Questa, però, non compare nel suo programma e finora il governo non ha sviluppato nessuna politica agricola nuova. Alcuni gruppi, in passato vincolati al movimento Lavalas, si stanno riorganizzando. Il Movimento contadino di Papaye (Mpp), che aveva partecipato molto attivamente al «Gruppo dei 184» e alle presidenziali aveva appoggiato con scarso esito un candidato di destra, Charles Henri Baker, vive una grossa crisi interna. Al contempo sono sorte nuove piattaforme, come il Coordinamento nazionale di rivendicazione contadina, che punta a creare un movimento nazionale, capace di unificare i contadini attorno a rivendicazioni chiare. Questo processo suscita molto interesse nell’Unione dei piccoli contadini haitiani (Tet kole ti payizan ayisien), l’altra principale organizzazione storica dei braccianti, ma le scelte dell’Mpp l’hanno ostacolato. Comunque, in tutti i settori popolari pesa ancora la divisione tra sostenitori e oppositori di Aristide. Il golpe del 2004 ha rafforzato le componenti fedeli all’ex presidente, che conserva un consenso considerevole nel Paese.

Che ruolo ha svolto la «questione Aristide» ad Haiti? 

Aristide emerse come un’espressione autentica del movimento popolare. Ma dopo il suo rientro in patria nel 1994 - aveva lasciato Haiti in seguito al golpe del generale Raoul Cedras nel 1991 - commise errori fondamentali: invece di favorire l’espansione e il consolidamento delle molteplici organizzazioni popolari esistenti, dando loro maggiore potere, attraverso un effettivo decentramento amministrativo, scelse di creare una forza politica centralizzata, costruita attorno alla sua persona e senza un programma con obiettivi chiari. In economia, Aristide accettò la liberalizzazione finanziaria e commerciale, che diede un colpo molto forte all’economia popolare. Tuttavia respinse la privatizzazione di alcune imprese pubbliche, come quella telefonica, ma non ne utilizzò i profitti per creare strutture che beneficiassero i settori più poveri della popolazione. Dal 1994 Aristide trasformò molte organizzazioni di base che avevano lottato per la democrazia in una cinghia di trasmissione del suo potere, svuotandole dai loro legami con la popolazione. Nel 2001, quando ritornò alla presidenza, dopo elezioni male organizzate e con una scarsa affluenza alle urne, non sviluppò alcuna politica innovativa. In questa contraddizione sta il nocciolo della crisi: c’è un movimento che esige una rottura col tradizionale sistema di dominazione, ma nessuno dei governi succedutisi al potere ha mostrato la volontà di promuoverla. C’è una distanza crescente tra la mobilitazione popolare e l’azione dei leader politici, compresi Aristide e Préval. Inoltre nei due anni seguiti al golpe del 29 febbraio 2004 le forze dominanti hanno ulteriormente disarticolato lo Stato, che oggi è più debole e meno capace di intervenire nella società. Perciò una delle sfide ora consiste nella ricostruzione di spazi di sovranità.
Qual è oggi il quadro delle forze politiche sorte dal movimento Lavalas?
La coalizione La speranza, con cui Préval è stato eletto, è una piattaforma elettorale costruita in fretta, senza una visione politica condivisa né un programma chiaro, per cui non penso abbia futuro. L’Organizzazione politica Lavalas ha deluso la popolazione. Durante la lotta contro il golpe del 1991 era effettivamente vicina ai movimenti di base e i suoi quadri avevano una relazione molto positiva con la gente. Non a caso, nel ’95-’96, esprimeva il primo ministro, metà dei ministri e due terzi dei parlamentari. Però assunse il ruolo di esecutore della politica degli Stati Uniti, appoggiando le privatizzazioni. Da allora si è allontanata sempre più dalle masse, alleandosi con ex duvalieristi, e nel 2006 il suo candidato presidenziale ha raccolto il 3 per cento dei voti. È un peccato perché ha quadri esperti, che potrebbero contribuire a moralizzare e rinnovare il sistema politico. La Famiglia Lavalas (Fl) è lacerata da un’interminabile lotta interna tra singole personalità che si attribuiscono la rappresentanza di Aristide. Così non riesce nemmeno ad approfittare della lotta contro la presenza militare straniera per porsi come il partito della resistenza. Neppure la Fusione dei socialdemocratici, che riunisce le formazioni aderenti all’Internazionale socialista, dà prospettive, perché ha basi popolari modeste e le mancano proposte che possano mobilitare la gente. Penso che vedremo scomparire molte strutture politiche e nascerne di nuove, speriamo più solide.
Durante la dittatura di Duvalier, la Chiesa cattolica ebbe un ruolo importante nel favorire la mobilitazione sociale. Negli ultimi anni i settori che si erano mobilitati attorno ad Aristide hanno perso forza, mentre i vescovi hanno assunto una posizione più cauta…
In realtà non fu la Chiesa come tale, ma alcuni suoi settori, soprattutto di base, in un certo momento egemoni, a favorire la mobilitazione sociale negli anni Ottanta, insieme a militanti che usarono le strutture ecclesiali come ombrello per fare attività politica, perché durante la dittatura non c’erano altri spazi. A partire dal 1986, l’ala più conservatrice della gerarchia cercò di riprendere il sopravvento, dando alla Conferenza episcopale un orientamento reazionario, allontanando i preti legati alla Teologia della liberazione (Aristide era tra questi), depotenziando la Conferenza haitiana dei religiosi e ridimensionando le Piccole comunità ecclesiali, che non si esprimono più sul piano politico. Oggi la Chiesa cattolica ha una presenza molto minore nella lotta politica ed è tornata ad appoggiare i settori conservatori. L’ala progressista si è di sgregata, alcuni suoi esponenti di spicco sono morti o sono stati assassinati, come padre Jean Marie Vincent nel 1994 e padre Jean Pierre Louis nel 1998, altri hanno un ruolo più defilato e si dedicano all’educazione.

Economista e attivista

Camille Chalmers, docente di economia all’Università statale di Port-Au-Prince dal 1983, è segretario esecutivo della Piattaforma haitiana di sostegno a uno sviluppo alternativo (Papda), una delle più importanti organizzazione del Paese, impegnata nella tutela dei diritti umani. Responsabile dal ’93 al ’94 dello staff dell’ex presidente Jean Bertrand Aristide, Chalmers si è dimesso dal suo incarico a motivo del dissenso rispetto alle scelte politiche e alle interferenze internazionali. Arrestato e brutalmente picchiato nel corso degli anni Novanta dal regime militare, oggi è un economista di fama internazionale.

Fonte: www.missionline.org

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