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Amo la Chiesa che ama i poveri

Intervista a Gustavo Gutierrez

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Aiuterebbe molto la comprensione, riprendere i due testi di Eduardo Arens: "Perchè il mondo creda:  evangelizzazione a partire dal Vangelo" e "Informazione elementare sulla Bibbia", oltre che ad un'intervista allo stesso Gustavo Gutiérrez: "Come la povertà sfida l'annuncio della fede"


Al "Colegio Jesús Obrero", in avenida Repúbblica del Perù, una parallela dell’avenida Tupac Amaru a Lima, tutti stanno aspettando padre Gustavo Gutiérrez. Lui non si fa attendere molto. Arriva, un po’ claudicante, un uomo piccolo di statura. La gente riconosce subito il fondatore della Teologia della liberazione. Deve tenere una conferenza sulla figura di monsignor Oscar Romero. Gutiérrez ne parla senza esitazione ed evidenzia tutta la forza del messaggio del vescovo salvadoregno. Lo definisce un «impressionante testimone di solidarietà. Un martire della Chiesa, della Chiesa latinoamericana per quello che ha fatto, non perché è stato ucciso. Romero non si è limitato a denunciare la povertà, ma ne ha cercato le cause». Gutiérrez ne parla come se fosse ancora vivo: «Il suo messaggio è più attuale che mai».

Padre Gustavo, terminata la charla, la chiacchierata tra amici, ne accetta un’altra con un giornalista europeo. «Romero lo conoscevo bene, molto di più di quanto abbia detto qui... ma questo è un altro discorso». Vuole tagliare corto. «I sermoni di Romero erano storici, duravano più di un’ora. La gente era incollata alle panche della chiesa. Se uno qualsiasi di noi predicasse per così tanto tempo, la gente prenderebbe la strada dell’uscita. Con Romero le cose andavano diversamente. Tutti lo ascoltavano, compresi i suoi "killer". Ciò che ha provocato l’ira dei suoi assassini è stato proprio il fatto che Romero abbia individuato le cause della povertà del popolo salvadoregno».

Per Gutiérrez è facile passare alle considerazioni più legate alla realtà in cui vive. «In Perú», racconta, «si tratta di ricostruire un Paese in cui la giustizia venga rispettata. Infatti, qui le differenze tra la gente si stanno acutizzando, la fossa tra ricchi e poveri si sta allargando drammaticamente. Lo stesso Giovanni Paolo II all’Avana andava dicendo: "Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba". Con questo ha voluto significare che le politiche economiche imposte dal Nord al Sud del mondo non fanno altro che aumentare le distanze tra ricchi e poveri. I ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Nella visita a Cuba, il Papa ha saputo collocarsi al livello della persona umana. Per questo considero questo viaggio estremamente interessante. Nei suoi discorsi c’era una domanda di libertà per Cuba e una dura critica al neoliberismo. Questa è una condizione da combattere».

  • Che cosa precisamente bisogna combattere?

«La situazione di fragilità rende il povero più vulnerabile a ciò che accade. Le distanze si vedono anche nelle cose concrete. Il fenomeno del Niño lo ha evidenziato benissimo: le strutture delle case, quelle dei poveri, sono tutto fuorché solide. La furia del Niño ha sommerso tutto ciò che poteva: la metà delle abitazioni precarie degli insediamenti marginali è stata distrutta. Il Niño, che non risparmia nessuno, ci ha fatto notare queste differenze. Il povero è distante e diverso. Ma la povertà non si evidenzia solo nella concretezza delle cose, ma ha una sua manifestazione ancora più importante e drammatica. Il povero è ai margini, non conta nulla. Senza la solidarietà, la fragilità non troverà mai risposta. In Perú si dice che l’economia funziona. Questo è un assioma che il Governo tenta di far passare nell’opinione pubblica e spesso ci riesce. Ciò che conta, ma è negativo, è che la solidarietà è considerata dall’economia di mercato una trave, un ostacolo. Come in tutto il mondo l’egoismo e l’individualismo stanno penetrando il mondo cristiano e questo accade anche nel nostro Paese. Per questo solidarietà vuol dire giustizia».

  • Giustizia significa anche diritto alla vita?

«Certamente. Basta guardare alla campagna di sterilizzazione in atto nel nostro Paese: questo è disprezzo nei confronti delle nostre madri. Oltretutto, spesso, la sterilizzazione è praticata con l’inganno. Tutto ciò lede i diritti fondamentali della persona umana. Nel nostro Paese il diritto alla vita è molto maltrattato. Povertà significa morte, morte ingiusta. È grave che il diritto alla dignità umana venga disatteso e, spesso, negato».

  • In tutto il mondo il nome di Gutiérrez è sinonimo di Teologia della liberazione...

«Sì, ma non tutti sanno che la mia prima preoccupazione è il lavoro pastorale. Da 17 anni lavoro nella stessa parrocchia, in una zona vecchia e molto povera di Lima. Non sono mai stato professore in alcuna Università del Perú. Non ho insegnato teologia in alcuna facoltà. All’Università Cattolica ho tenuto solo brevi corsi a gruppi di cristiani e laici. In altri termini, il lavoro intellettuale non è la mia principale preoccupazione. Finché persiste in America Latina la grande sfida della povertà, che "interroga" la coscienza cristiana, la Teologia della liberazione conserva la sua attualità».

  • Teologia della liberazione, cioè sfida evangelica alla povertà?

«La Teologia della liberazione è nata dal confronto tra la fede cristiana e la povertà. Questa situazione è sempre presente. La povertà è presente nel mondo e la Bibbia, la fede cristiana e il messaggio evangelico hanno una parola da dire su questo. Se la povertà è là, allora in questo caso la Teologia della liberazione ha senso. Cosa è importante? L’opzione preferenziale per il povero. Oggi si chiama così, ma l’idea è molto vecchia. Questo è il centro della Teologia della liberazione. La preferenza di Dio per i poveri e gli abbandonati si manifesta lungo tutta la Bibbia. Nel Vangelo è il caso dei più deboli e bisognosi, dei malati, dei pubblici peccatori, delle donne e dei bambini».

  • Tutto ciò non è in contrasto con la dottrina sociale della Chiesa?

«No. Il tema del Giubileo è piuttosto una conferma di questa prospettiva. L’America Latina è strangolata dal debito estero. Questo è solo un aspetto, ve ne sono tanti altri, ma questo è fondamentale. Il linguaggio del Papa, in vari testi, è molto chiaro. Il tema del Giubileo parla della liberazione dalla servitù, parla di giustizia, del diritto a possedere i mezzi necessari per vivere con dignità, del perdono vicendevole. Parla anche di aprire la mano al povero. Tutto questo fa parte di un tempo dedicato a Dio, di un Anno santo. Ciò che è davvero importante, comunque, è la Bibbia, e il Giubileo è un’occasione per leggerla nuovamente. Se facciamo questa lettura nuova, nella prospettiva del Giubileo, possiamo incontrare molti punti presenti nella Teologia della liberazione. La centralità del povero è l’affermazione fondamentale della Teologia della liberazione. Ma noi non abbiamo fatto altro che ricordare l’affermazione della Bibbia».

  • Lei è stato criticato aspramente, anche di recente, dalla gerarchia ecclesiastica vaticana proprio per la sua "ecclesiologia". Non ha mai pensato di "uscire" dalla Chiesa?

«No, perché amo la Chiesa, perché è il mio popolo, è la mia vita. Non l’ho mai pensato, nemmeno nei momenti difficili, anche se ho sofferto molto. È la mia vita e la mia vita è la gente che sta qui. Voglio dire che è una riflessione che viene dalla Chiesa e non da alcuni teologi. La dottrina sociale della Chiesa tratta della morale sociale. La Teologia della liberazione raggruppa tutti i temi che corrispondono e formano una teologia: Dio, Cristo, la spiritualità, eccetera. Però è chiaro che l’insegnamento sociale della Chiesa è una delle fonti della Teologia della liberazione, con in primo piano i contributi di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Insomma non è un’idea capricciosa. Credo anche che nella Chiesa sia possibile comprenderla, aprendosi alla correzione e senza pensare di avere il valore assoluto della verità. Io ho imparato molto da questa discussione sulla Teologia della liberazione».

  • Dunque non tornerebbe indietro, oppure scriverebbe in modo diverso, più ortodosso, la Teologia della liberazione?

«Le rispondo con un episodio. Molti giornalisti mi hanno chiesto: se lei dovesse riscrivere la Teologia della Liberazione ora, la scriverebbe nella stessa maniera? Se avessi risposto "no", mi avrebbero detto che ritratto tutto. Se avessi risposto "sì", mi avrebbero detto che non ho imparato nulla. La risposta che ho dato a quel giornalista è stata questa: "Sei sposato?", mi ha risposto sì. "Lei scriverebbe una lettera d’amore alla sua sposa come quando non era sposato o all’inizio del fidanzamento?" Lui mi ha risposto no. Ebbene, per me scrivere della Teologia della Liberazione è scrivere una lettera d’amore al Dio in cui credo, alla Chiesa che amo, al popolo a cui appartengo. Le lettere non possono essere tutte uguali, ma l’amore è lo stesso. La teologia, per me, è una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa di cui faccio parte, al mio popolo».

 a cura di Angelo Ferrari

 

 

 

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