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La guerra narcotizzata

Le trattative di Pace: il ruolo dei religiosi e l'informazione

Intervista a Javier Giraldo

di Guido Piccoli

Ormai è un anno che il gesuita Javier Giraldo è costretto a vivere lontano dalla sua Colombia. Oltre a dirigere «Justicia y Paz», un organismo di religiosi e laici che si occupano di diritti umani, da tempo Giraldo capeggia le liste dei condannati a morte, che vengono recapitate ai diretti interessati e talvolta appaiono sui giornali. Condannati a morte non dallo Stato, quello visibile, che ha abolito da decenni la pena capitale, ma dalle cosiddette “forze oscure” dello Stato invisibile, che la pena capitale l’applicano tutti i giorni, più volte al giorno. A differenza di molti altri esuli – giornalisti, professori, sindacalisti e magistrati – che vagano spaesati soprattutto nelle capitali europee (la solidarietà è una merce che scade presto), Giraldo ha continuato, e forse incrementato, il suo lavoro di denuncia della barbarie colombiana, anche in Italia dove ha incontrato diverse personalità del governo e ha animato varie iniziative dell’associazionismo di solidarietà.

 

Che impressione ha avuto dai suoi incontri?

Ho constatato che la Colombia non è più un pianeta sconosciuto. Politici e alti funzionari del governo italiano mi sono apparsi più che informati sulla situazione del mio paese. Non ho mai avuto bisogno di dilungarmi in spiegazioni: conoscevano bene personaggi e avvenimenti che citavo. E si sono mostrati molto interessati: non ho mai avuto l’impressione che volessero abbreviare i tempi degli incontri. La mia analisi, che a qualcuno – come agli esponenti dei sindacati confederali – è apparsa pessimista, è stata ascoltata con attenzione e profonda preoccupazione.

 

Come spiega questo atteggiamento dei sindacalisti italiani?

Hanno partecipato al recente congresso nazionale della Cut (Central Unitaria de Trabajadores) e ne hanno tratto la sensazione della forza del sindacato. Hanno saputo delle manifestazioni per la pace che si sono svolte il dodici ottobre e hanno intuito la vivacità della cosiddetta società civile. Io credo che facciano l’errore di fermarsi alle apparenze. Lo stesso errore di quelli che sostengono che in Colombia c’è la democrazia perché ogni tanto si svolgono le elezioni.

 

E invece...?

In Colombia il terrorismo di Stato non è stupido e generalizzato, ma raffinato e selettivo. È vero che la Cut ha realizzato il suo congresso a Bogotà in piena libertà, ma è anche vero che negli ultimi dieci anni, secondo la stessa Cut, in Colombia sono stati ammazzati più di tremila sindacalisti. Interi direttivi di categoria, come quelle dei braccianti, degli edili e dei maestri, sono stati sterminati, un dirigente dopo l’altro. Chi non è stato eliminato è finito in galera con l’accusa di terrorismo, come è successo ai sindacalisti del settore petrolifero. Lo stesso sterminio sistematico è stato realizzato con la vera società civile, come le comunità di resistenza degli indigeni e dei neri o i comitati degli sfollati dalla violenza. O con la Union Patriotica, della quale si è salvata per miracolo, dopo un attentato con bazooka in pieno centro di Bogotà, solo la parlamentare Aida Abello, adesso esule in Svizzera.

 

E la società civile di cui si parla?... i milioni di colombiani che hanno votato la scheda per la pace e che hanno marciato il ventiquattro ottobre?

È quella parte di popolazione che, nelle ultime elezioni, ha risposto affermativamente alla scheda che poneva la generica domanda «vuoi la pace?». E quella che ha manifestato il ventiquattro ottobre, rispondendo ad un appello dei principali giornali, proprietà delle grandi famiglie, prime responsabili dell’ingiustizia sociale della Colombia, e della Fundaciòn Pais Libre, diretta da Francisco Santos, della famiglia Santos del quotidiano «El Tiempo», una fondazione che si preoccupa principalmente del sequestro di persona, perché colpisce i ricchi, e non dice una parola sulle sparizioni forzate degli oppositori o sui massacri dei contadini. L’unica richiesta precisa di quelle manifestazioni era il disarmo della guerriglia. Un discorso più arretrato di quello dello stesso presidente Andres Pastrana che, in una recente intervista ad un giornale argentino, ha sostenuto che lo Stato colombiano non ha l’autorità morale di chiedere ai capi guerriglieri di abbandonare le armi, visto che ogni volta che l’hanno fatto sono stati uccisi.

 

Quindi questo negoziato andrà avanti nel mezzo della guerra?

È triste, ma inevitabile.

 

Secondo lei quanto potrà durare il processo di pace?

Anni. Chiunque parla di mesi non capisce la complessità dei problemi da risolvere (e questo può essere un errore di alcuni governi europei). O sta barando, perché punta le sue carte sulla soluzione di forza, come credo abbiano scelto il governo di Washington e il vertice dell’esercito colombiano. Una pace qualsiasi può essere firmata anche domani, ma sarebbe falsa o di facciata, una pace senza giustizia come quelle raggiunte in Salvador o Guatemala, dove c’è la stessa violenza di prima. Anche se sembriamo e siamo così lontani, in Colombia siamo più vicini ad una pace vera.

 

Perché?

Perché finalmente non solo la guerriglia, ma anche il governo e gran parte della società che conta, compresi i maggiori poteri economici, sostengono che la guerra è originata principalmente dall’ingiustizia sociale. In verità lo sosteneva anche il conservatore Belisario Betancur, presidente dal 1982 all’86, ma la sua era un’opinione quasi isolata (mentre l’oligarchia, l’esercito e perfino la gerarchia ecclesiastica consideravano i guerriglieri come dei delinquenti). Le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) gli diedero credito e contribuirono a fondare il movimento di Uniòn Patriotica, che venne sterminato al ritmo di un militante al giorno. L’altro modello di pacificazione fu quello adottato dai presidenti liberali Barco e Gaviria che portò l’M-19, ormai decimato, la maggioranza dell’Epl (Ejército popular de liberación), e altri sei piccoli gruppi a consegnare le armi in cambio di amnistia, indulto, soldi per piccole cooperative e qualche seggio in parlamento e un po’ di posti in qualche ambasciata all’estero. Apparentemente quella pacificazione fu un successo, in realtà la violenza nel paese non fece altro che aumentare, anche perché quel negoziato non eliminò nessuna causa della violenza stessa. L’unico risultato che produsse fu una Costituzione rimasta ovviamente lettera morta.

 

Dopo il riconoscimento del legame tra guerra e ingiustizia, o tra pace e giustizia, resta da realizzare una nuova società. Com’è possibile che ciò avvenga in Colombia, un Paese tra i più ingiusti e violenti del mondo?

Lo scetticismo è più che comprensibile. Ma anche se siamo solo agli inizi di un cammino lungo e impervio, possiamo dire di essere sulla strada giusta. Il governo e le Farc hanno concordato un’agenda di quarantasette punti in discussione, che toccano tutte le grandi questioni del paese. Ognuno di questi quarantasette punti può apparire un ostacolo insormontabile. Oltre tutto sono già cominciati a fioccare i primi veti come quello dell’Andi, l’associazione degli industriali, sulle privatizzazioni e sull’integrità delle forze armate. Ma non ci sono scorciatoie. E soprattutto non ci sono alternative a questo negoziato.

 

Come le appare il comportamento delle Farc?

Sincero, ma velleitario. I comandanti guerriglieri pongono in discussione problemi veri, ma spesso sembrano incapaci di dare soluzioni credibili che vadano al di là degli slogan. È la conseguenza della scelta di questi ultimi anni delle Farc di privilegiare la crescita militare a discapito di quella politica. Credo che la guerriglia, in questo negoziato, abbia molto bisogno di aiuto e consigli politici.

 

Il presidente Pastrana ha dichiarato di puntare, sulle trattative, al Piano A, ma di non escludere l’opzione bellica, il Piano B. Secondo lei è in buonafede?

È una domanda che mi sento fare continuamente dai rappresentanti dei governi europei. Non ho nessuna risposta al riguardo. Pastrana è diventato presidente promettendo la pace e spesso è sembrato in un vicolo cieco, combattuto tra gli impegni presi e le pressioni delle Forze Armate e degli Usa. È certo comunque che mentre la scelta della pace è caratterizzata negli ultimi tempi da molti discorsi e da pochi fatti (questo governo si comporta con la stessa arroganza dei precedenti con qualunque forma di protesta operaia o popolare), la scelta della guerra, o il Piano B, riceve sempre più vigore. Quasi ogni giorno si festeggia la nascita di un nuovo battaglione di controguerriglia o l’arrivo di qualche elicottero statunitense.

 

Ritiene fondata l’ipotesi di un’internazionalizzazione del conflitto con un coinvolgimento diretto degli Usa?

La cosiddetta invasiòn gringa per ora è una fantasia che nasconde una realtà altrettanto grave: l’incremento costante e quotidiano della presenza degli Stati Uniti nella nostra guerra civile. In Colombia agiscono più di mille consiglieri militari e nel futuro questa cifra è destinata ad aumentare visto che l’80% dei 1600 milioni di dollari, stanziati dal governo Clinton per la Colombia, è destinato all’armamento, con l’obiettivo di ristabilire la sovranità dello Stato colombiano sulle due regioni del Sud, il Caquetà e il Putumayo, che sono le roccaforti delle Farc e dove si estende la zona smilitarizzata per i dialoghi di pace. Fino a pochi anni fa tutte queste cose sarebbero state coperte dal segreto. Invece adesso, con la scusa e la maschera della War on Drugs (guerra alle droghe), tutto avviene alla luce del sole. Le nostre informazioni sulla presenza statunitense in Colombia si basano sulle inchieste di Ignacio Gomez, un bravo giornalista del quotidiano «El Espectador».

 

Quindi lei non prevede un intervento armato statunitense?

È difficile dirlo, anche perché gli Usa, di solito, decidono di scatenare o meno una guerra in base a criteri di politica interna, di immagine o di convenienza personale del loro presidente. Comunque mi sembrerebbe stupido che lo facessero ora in Colombia: produrrebbero una inevitabile reazione anti-imperialista, senza ottenere nessun risultato decisivo rispetto alla guerriglia. Oltre tutto non hanno bisogno di intervenire direttamente perché stanno ottenendo buoni risultati, armando fortemente le Forze Armate colombiane e soprattutto utilizzando a meraviglia lo strumento paramilitare, progettato e realizzato insieme allo Stato colombiano.

 

Quindi i paramilitari non sono una parte autonoma del conflitto?

Assolutamente no, “la teoria dei tre attori” - Stato, guerriglia e paramilitari - è la principale menzogna sulla guerra in atto. I paramilitari non sono nati per caso, ma come necessità dello Stato di commissionare ai civili la guerra sporca per evitare di essere condannato internazionalmente per le violazioni dei diritti umani. Quella paramilitare è una strategia raccomandata da documenti ufficiali della Cia (Central Intelligence Agency) alla fine degli anni sessanta, che ha trovato una legittimazione parlamentare con una legge, la 48 del 1968, che consentiva all’esercito di armare i civili per la difesa nazionale e dell’ordine costituito. Ma, al di là della storia, conta la realtà quotidiana: chiunque può verificare il connubio tra paramilitari e esercito. In buona parte del Paese non è possibile neppure distinguerli. Fanno i posti di blocco e pattugliano i villaggi insieme e soprattutto realizzano, con un rituale che si ripete ogni giorno, la guerra di terrore contro i contadini accusati di convivere con la guerriglia.

 

Pastrana continua però ad assicurare che i paramilitari vengono combattuti come la guerriglia.

È una bugia spudorata. L’utilizzazione dei paramilitari viene realizzata alla luce del sole. Le racconterò solo un episodio, quasi ridicolo, capitato l’anno scorso al vescovo di Apartadò andato nella tenuta di Carlos Castaño (nella foto), il capo delle Auc (Autodefensas unidas de Colombia). Castaño, teoricamente pluriricercato per stragi e narcotraffico, riceve decine di persone al giorno, politici e giornalisti, ma soprattutto gente che intercede per la vita di qualche sequestrato. In certi periodi è quasi una processione, anche perché quella applicata dai paramilitari è l’unica giustizia che funziona, quasi sempre con le condanne a morte. Alla fine dell’incontro, il vescovo temeva di intraprendere la strada del ritorno per via del volo radente di un paio di elicotteri dell’esercito sulle colline del Paramillo, nella regione di Cordoba. E Castaño, come atto di cortesia, non fece altro che chiamare col suo cellulare il comandante del vicino battaglione di controguerriglia per chiedergli di richiamare gli elicotteri. Cosa che ovviamente accadde immediatamente.

 

Il suo è un quadro a tinte fosche. Cosa può fare la comunità internazionale per non fare morire le ridotte speranze di pace?

Occorre dare forza e soprattutto tempo ai negoziati con le Farc, invece di rafforzare le macchine di guerra, come stanno facendo gli Usa. E bisogna che le istituzioni internazionali costringano lo Stato colombiano a disfarsi dei paramilitari e a smetterla di continuare la sua politica dei massacri. Non è possibile accontentarsi ancora di promesse che hanno il sapore di una burla.

 

E cosa possono fare le forze della solidarietà?

Il primo compito è quello di far capire cosa sta veramente succedendo in Colombia, contrastando la disinformazione che si basa su varie teorie. Ho già parlato della teoria falsificante dei “tre attori”. Insieme a questa si utilizza la cosiddetta “teoria della simmetria”, che assimila la violenza dei paramilitari a quella della guerriglia. È una grande menzogna. Prima di tutto perché le motivazioni sono radicalmente diverse: la violenza della guerriglia è tesa a colpire uno status quo che si regge sull’ingiustizia, quella dei paramilitari lo vuole difendere. E poi, anche nella barbarie, c’è una differenza: tutti gli attori del conflitto – esercito, guerriglieri e paramilitari – violano le norme del Diritto Internazionale Umanitario (comunque confuse per una guerra civile come quella colombiana), ma sono i paramilitari, e quindi la faccia mascherata dello Stato, a dedicarsi quasi esclusivamente ai massacri di civili indifesi, secondo le statistiche di tutte le organizzazioni umanitarie e della Defensoria del Pueblo, un organismo consultivo della presidenza della Repubblica. La terza teoria usata dalla disinformazione è quella della “caotizzazione”, che consiste nel descrivere la realtà colombiana come un groviglio di violenze incomprensibili, occultando in questo modo soprattutto la responsabilità primaria dello Stato. L’utilizzazione dei metodi più raffinati, oltre che più selvaggi, del terrorismo complica certamente lo scenario della guerra (quanti attentati o quanti omicidi attribuiti ai narcos sono stati in realtà realizzati dalle polizie segrete?), ma qualunque osservatore imparziale può interpretare e informare correttamente sulla Colombia.

 

E la droga non serve più a mistificare la realtà colombiana?

Con l’uccisione di Pablo Escobar e lo smantellamento dei grandi cartelli è venuto meno o almeno è diminuito questo strumento. Quando venne ucciso il boss di Medellin, un famoso editorialista colombiano intitolò la sua rubrica: «E adesso a chi daranno la colpa?». Ma la narcotizzazione della guerra continua soprattutto per precisa volontà degli Usa, che mascherano il loro interventismo “antisovversivo” con una presunta azione anti-narcotraffico. È una strategia di disinformazione che si avvale anche della pigrizia mentale di molti giornalisti, che continuano a banalizzare il conflitto in atto, valutando la droga come sua causa prima e principale.

 

Serve denunciare all’estero le violazioni dei diritti umani commesse in Colombia?

Credo che sia lo strumento più efficace contro l’impunità eletta a sistema. Forse l’unico che rimane. È da tempo che «Justicia y Paz», che raccoglie le denunce sulla gran parte dei crimini di natura politica, ha rinunciato a rivolgersi alla giustizia colombiana. Era non soltanto inutile, ma anche rischioso, se non letale, per i testimoni dei fatti. Il meccanismo dell’impunità in Colombia è perverso. La stragrande maggioranza dei giudici, spesso per paura, evita di far svolgere la benché minima indagine su questi crimini, sapendo di avere a che fare con killer statali, e lascia ai testimoni tutto il carico della prova, esponendoli così ad essere eliminati. La perversione raggiunge talvolta livelli incredibili. In alcuni casi i giudici hanno avuto la faccia tosta di denunciare i parenti delle vittime, accusandoli di essere i responsabili dell’impunità. L’impunità soprattutto sui crimini di natura politica non dipende, come vanno dicendo per il mondo i ministri del governo Pastrana, dalla mancanza di mezzi economici o dall’inesperienza dei giuristi e dei magistrati: non mancano né i soldi, né le competenze tecniche e umane. All’origine dell’impunità c’è la più totale separazione tra etica e giustizia. In Colombia non si fa giustizia perché il potere non vuole fare giustizia.

 

E allora cosa si può fare?

Rivolgersi alle corti internazionali, in alcuni casi - come in quello dell’assassinio di Giacomo Turra - iniziare dei processi all’estero e moltiplicare i Tribunali internazionali di opinione.

 

La dimensione della tragedia colombiana spinge molti gruppi all’estero a cercare di fare qualcosa di concreto per alleviare le sofferenze delle vittime della guerra. Che aiuto si può dare, ad esempio, agli sfollati per la violenza, abbandonati a loro stessi?

Secondo la stime della Conferenza episcopale i profughi interni sono ormai due milioni. Cioè, in questi anni, un colombiano su venti ha dovuto abbandonare la sua terra e tutti i suoi averi a causa della guerra civile: un altro record mondiale della Colombia. Spesso è gente disperata, abbandonata e presa in giro dallo Stato. Dopo avere lavorato anni con i cosiddetti desplazados, i religiosi e i laici di «Justicia y paz» sono arrivati alla conclusione di volere evitare l’assistenza fine a sé stessa: non farebbe che agevolare la desertificazione di buona parte del Paese, quasi sempre attuata da militari e paramilitari per conto dei grandi gruppi economici colombiani o delle multinazionali. Noi non vogliamo risolvere i problemi causati dai carnefici, ma amplificarli per bloccare la loro strategia criminale. È per questo che abbiamo deciso di appoggiare le Comunità di resistenza, quei desplazados che si mantengono uniti e lottano per ritornare nelle loro terre e sono disponibili ad allargare la loro lotta portandola nelle città e soprattutto nella capitale, come sta avvenendo in queste settimane. Non è una scelta facile, implica entrare in prima persona nel conflitto in atto, ma è inevitabile. Non soltanto la pace, ma anche la carità deve essere associata alla giustizia.

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