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La Colombia di Uribe

Una rondine non fa primavera

Gira e rigira le belle notizie dalla Colombia si fermano all’ultimo fine settimana dello scorso ottobre, quando il referendum voluto da Alvaro Uribe Veléz non raggiunse il quorum necessario e quando Lucho Garzón, alla testa di un rappezzato movimento progressista, chiamato Polo Democratico, conquistò il municipio di Bogotà, sterminata megalopoli dove vive un colombiano su cinque.

Nel maggio 2002, per evitare un rischioso ballottaggio, ad Uribe era bastato ottenere il voto del 25% del corpo elettorale. E la stessa percentuale gli sarebbe bastata anche per far passare un referendum su 15 punti, col quale pensava di modificare la Costituzione e di spianare la strada per una sua eventuale rielezione nel 2006. Il quorum del 25% era dato per sicuro da Uribe e da tutti i suoi sponsor, l’oligarchia nazionale, la grande stampa, il vertice delle forze armate e l’ambasciata Usa a Bogotà. Da quando era diventato presidente, i sondaggi realizzati da Gallup e simili attribuivano ad Uribe una popolarità dell’80%, che tutti – in Colombia e fuori – prendevano per oro colato. La scarsa affluenza al voto di sabato 25 ottobre (nonostante le minacce agli astensionisti, la giornata di riposo pagato ai votanti da molte imprese pubbliche e private e le innumerevoli incursioni televisive di Uribe, che non aveva disdegnato neppure d’invadere il set del “Grande fratello” colombiano) dimostrò invece che tutte le bugie hanno le gambe corte, comprese quelle pseudo-scientifiche che i potenti seminano copiosamente (non solo in Colombia) e alle quali finiscono per credere soprattutto loro. 

 

 

 

L’altra Colombia

 

Mentre, nelle prime ore di domenica 26, cominciava a delinearsi la débacle di Uribe, gli elettori accorrevano alle urne in tutto il Paese per dare il loro voto preferibilmente agli uomini del Pd o comunque ai candidati indipendenti dal movimento di Uribe e dai partiti tradizionali, liberale e conservatore, da anni in grave crisi. E così, alla fine dell’eccezionale week-end, la Colombia si ritrovò con un presidente reazionario dimezzato e una mappa politica sconvolta: oltre a Bogotà, i progressisti e gli indipendenti uniti avevano conquistato anche Medellín e Cali, seconda e terza città del Paese, insieme con molti altri dipartimenti e centri urbani come, ad esempio, il porto petrolifero di Barrancabermeja sul rio Magdalena, espugnato dai paramilitari, dopo un’ininterrotta mattanza di sindacalisti e militanti di sinistra realizzata in collaborazione con esercito e polizia.

Bastarono quelle 48 ore per far parlare a molti di vittoria dell’altra Colombia, dei democratici e degli emarginati. Pur non nascondendo la clamorosa sconfitta di Uribe, la grande stampa volle interpretare la tornata elettorale anche come un severo monito verso i guerriglieri delle Farc. Scrivendo che "i voti hanno mostrato di contare più delle pallottole" si sosteneva che la Colombia fosse una democrazia matura che, come ha garantito il successo di Garzón, avrebbe potuto consentire anche l’attività politica di Tirofijo e degli altri guerriglieri, se solo si fossero decisi ad abbandonare le armi e i loro antiquati sogni di conquista del potere. Ragionamento semplice, ma perlomeno prematuro. Un secolo e mezzo di storia dimostra semmai il contrario, e cioé che tutti i rappresentanti dell’altra Colombia (compresi generali demagoghi o leader populisti, liberali o di sinistra), che hanno tentato di entrare a Palacio Nariño sfidando i poteri forti, sono stati sistematicamente ammazzati o, nel migliore dei casi, bloccati da elezioni fraudolente. E che l’unico tentativo fatto dalle Farc di sperimentare la democrazia colombiana terminò nel genocidio politico dell’Unión Patriótica, movimento sterminato in sette anni al ritmo di un morto ogni diciannove ore. 

 

 

Carnefici legalizzati

 

Dopo il successo di Garzón, va quindi onestamente detto che, anche a Bogotà e dintorni, una rondine non fa primavera.

Niente, infatti, fa ora pensare che il leader del Pd (nel caso di una sua candidatura con probabilità di successo alle prossime elezioni presidenziali) possa arrivare vivo al voto, scampando alle cosiddette “forze oscure”, camuffate da paramilitari o sicari del narcotraffico, che da decenni s’incaricano di eliminare tutti i nemici dell’oligarchia, tra i quali soprattutto esponenti della sinistra, ma anche sindacalisti, giudici, avvocati e giornalisti scomodi e attivisti dei diritti umani. L’hanno fatto nel passato remoto e prossimo, lo continuano a fare indisturbati nel presente ed è più che probabile che continuino a farlo nel futuro. Le ragioni del pessimismo sono varie e consistenti. Non c’è soltanto l’impunità di tutti gli omicidi politici avvenuti in passato, prima e dopo quello di Jorge Eliécer Gaitán, che inaugurò il 9 aprile 1948 l’attuale guerra civile: tranne qualche killer abbandonato o qualche capro espiatorio, più o meno noto come Pablo Escobar, nessuno ha mai pagato per la sistematica carneficina politica. Da ora c’è una ragione in più, inquietante e oscena. Rispettando un patto con i più attivi dei suoi grandi elettori, Alvaro Uribe Veléz (Auv) sta legalizzando i macellai parastatali delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc). Quello che viene spacciato internazionalmente come un atto di pacificazione teso ad eliminare il maggiore protagonista della “guerra sporca” è in realtà una farsa in cui il mandante (lo Stato colombiano con Auv presidente) assolve il suo agente (le Auc), di cui si è ampiamente servito per quasi vent’anni allo scopo di eliminare non la guerriglia – contro cui i paramilitari non hanno mai cercato una sola battaglia – ma i suoi collaboratori presunti, cioè decine di migliaia di oppositori sociali e politici. 

 

 

Impudenti impuniti

 

Il più sincero commento alla legalizzazione in atto è venuto proprio dal leader delle Auc, Carlos Castaño, che con un’espressione creola colorita ed efficace ha dichiarato: "Adesso passiamo dallo stato di amante a quello di sposa". Non si sa quanti siano i paramilitari in procinto di abbandonare le armi (dall’elezione di Uribe, il loro numero è continuato ad aumentare in vista di un processo di pacificazione dai benefici così evidenti). È certa però l’intenzione di Uribe di arruolarli nella guerra in atto, sotto forma di cooperantes o soldados campesinos. Ne consegue che i protagonisti della guerra sucia saranno in futuro non solo più numerosi, ma ancora più impudenti, vista l’impunità che Uribe pensa di garantire loro per legge.

Dopo un anno e mezzo di presidenza, è ormai chiara la sostanza del fortunato slogan elettorale di Auv, “Mano dura e cuore grande”. La mano dura è indirizzata alla popolazione che sta sprofondando da anni in uno stato di miseria incredibile, mentre il cuore grande è usato con l’oligarchia e le multinazionali, alle quali viene fatto ogni tipo di concessione. E ovviamente, mano dura e cuore grande sono previsti, a seconda dei casi, per quelli che difendono, o credono di difendere, la popolazione, come ad esempio i sindacati e la guerriglia, e quelli che difendono l’oligarchia e le multinazionali, come l’esercito e i paramilitari.

 

 

Robin Hood alla rovescia

 

Alvaro Uribe agisce, servile fino all’inimmaginabile, come il messo imperiale Paul Bremer nell’Iraq occupato, tanto che al suo cospetto tutti i precedenti presidenti colombiani appaiono populisti e nazionalisti. Mentre, baciata da Dio per quante ricchezze dispone, diventa l’ideale terra di conquista per qualunque multinazionale (si veda a proposito l’analisi fatta da Antonio Mazzeo sul sito http://www.terrelibere.org), la Colombia si sta trasformando, allo stesso tempo, in un inferno per la classe media, in via d’impoverimento e soprattutto per la stragrande maggioranza della popolazione che, priva di ogni tutela, si affanna ogni giorno per sopravvivere. La pratica da Robin Hood all’incontrario, che ruba ai poveri per dare ai ricchi, è talmente sfacciata da preoccupare persino il quotidiano "El Tiempo", che pur rappresentando da sempre la voce dell’oligarchia, ricorda spesso che "senza il consenso popolare" o "senza riforme sociali, tanto profonde quanto le ingiustizie sociali delle quali soffriamo" non si potrà mai battere la guerriglia. Gli esempi dell’iniquità eletta a sistema dal governo Uribe sono innumerevoli e spesso paradossali. Mentre, ad esempio, per gli umani si amplia per decreto la normale giornata lavorativa di cinque ore, portandola dalle cinque di mattina alle nove di sera, si largheggia generosamente persino con i cani dei servizi di vigilanza (arruolati ipso facto nella lotta al terrorismo), concedendo loro un riposo di trenta minuti ogni ora di lavoro. Gran parte delle ristrutturazioni vengono fatte licenziando sbrigativamente, da un giorno all’altro, tutto il personale, per poi riassumere, a condizioni nuove, soltanto coloro non sospetti di simpatie sindacali. 

 

 

Esercito polivalente

 

La realtà delle campagne è ancora peggiore: per sottomettere contadini e braccianti vengono usati più i massacri indiscriminati che quegli omicidi mirati che da anni fanno della Colombia il cimitero dei sindacalisti, senza che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro si commuova più di tanto. Lungo i corsi dei grandi fiumi come il Magdalena, nelle sterminate pianure degli Llanos Orientali, nelle foreste dell’Amazzonia e del Chocò e sulle tre Cordigliere, le multinazionali non ammettono ostacoli, dopo aver comprato dai governanti di Bogotà ogni diritto di sfruttamento. Eserciti pubblici e privati compiono, lontano dalle città, le nefandezze peggiori per permettere la costruzione di dighe, strade e canali e per proteggere trivelle e oleodotti, miniere e coltivazioni intensive. In più di un’occasione, Castaño ha giustificato l’uccisione di sindacalisti e indigeni sostenendo che si opponevano ai “progetti di sviluppo”. Con una misura che in Colombia è apparsa singolarmente normale, ad esempio, il governo di Washington ha finanziato per 98 milioni di dollari l’addestramento di un battaglione dell’esercito, predisposto alla difesa della tubatura che ogni giorno porta centomila barili di petrolio dal pozzo petrolifero di Caño Limón al porto atlantico di Coveñas. E che porta soldi nelle casse delle società dei Bush, Cheney, Condoleeza Rice e tutti gli altri attuali potenti della Casa Bianca.

 

 

Contraddizioni progressiste

 

Questa è la Colombia attuale, prostrata ad un grado di violenza e d’ingiustizia sociale che non hanno fatto che aumentare dopo un anno e mezzo di “mano dura e cuore grande” di Uribe. Di fronte a questa realtà, due sono, schematicamente, le interpretazioni e le conseguenti strategie. C’è chi sostiene che la violenza dipenda dall’ingiustizia e richiede, propone, implora riforme sociali al governo di Bogotà e chi, d’altro canto, sostiene che l’ingiustizia e la miseria dipendano dalla violenza, intesa soprattutto come violenza guerrigliera, e parteggia per la ricetta Uribe, che prevede guerra totale. Non solo alla guerriglia (che dimostra comunque di sapersi difendere molto bene, forte di un’esperienza quarantennale), ma soprattutto all’indifesa opposizione sociale, attraverso l’approvazione di leggi straordinarie, come il cosiddetto statuto di “Sicurezza democratica”, che contribuirà a fare della Colombia una specie di Argentina ai tempi di Videla e Massera.

Che fare per fermare questa deriva alla barbarie, accelerata con Auv presidente? Sostenere le opzioni democratiche come quelle di Garzón, ma anche la vera società civile, e non solo quella che si mobilita sull’unico delitto che sembra importarle, vale a dire quello dei sequestri di persona a scopo estorsivo (l’unico, d’altronde, che colpisce anche e soprattutto la classe più abbiente). E poi sostenere i sindacati, i popoli indigeni, spesso in mezzo tra i due fuochi, le organizzazioni umanitarie, colombiane e non, come Amnesty International, che, pur non potendosi garantire una sede a Bogotà per ragioni di sicurezza, continua a denunciare la sistematica violazione dei diritti umani nel Paese. E poi le Ong che lavorano per le popolazioni oppresse (ce ne sono anche varie che partecipano attivamente al Plan Colombia e altre ancora create dalle Auc). Non è un sostegno facile, visto che Uribe ha più volte additato questa “società civile”, colombiana e internazionale, come spalleggiatrice della sovversione; ma è una solidarietà più possibile di quanto lo fosse ai tempi del golpe in Cile o della repressione in Argentina, anche grazie al ravvicinamento del mondo operato da Internet. Gli ostacoli non mancano. Derivano da una guerriglia che trova molte ragioni di esistere nella pantomima di democrazia colombiana, ma che non dimostra affatto di essere immune dall’imbarbarimento della guerra civile. E derivano anche dalla disinformazione sulla Colombia, fatta di sensazionalismo e bugie, che alberga anche nella cosiddetta stampa progressista. Soltanto così si spiega come mai le delegazioni di parte della sinistra italiana, in visita nell’area andina, si trovino più a loro agio a Bogotà che, ad esempio, a Caracas. O si capisce l’invito ufficiale a tenere un comizio al parlamento europeo ai primi di febbraio, proposto niente di meno che dal capogruppo dei socialisti europei, lo spagnolo Enrique Barón. Che è riuscito disinvoltamente a dimenticare di essere stato fino a pochi anni fa un sindacalista, come quel paio di centinaia di uomini, meno fortunati di lui, che ogni anno finiscono al cimitero o nel nulla, grazie alle pallottole delle solite “forze oscure” che Alvaro Uribe continua a proteggere.

 

 

Europa - Colombia: teatrino o dialogo tra sordi?

 

Luglio 2003. Sponsorizzato dal governo Blair, si tiene, nella sede del Foreign Office, l’incontro tra il governo Uribe e i rappresentanti di mezzo mondo: gli Usa, l’Unione europea, il Giappone e alcuni Paesi latinoamericani, oltre all’Onu, il Banco Mondiale, il Fondo Monetario ed altre istituzioni. È una riunione decisiva per capire come, e a quali condizioni, la comunità internazionale aiuterà la Colombia ad uscire dalla sua crisi. Bogotà spedisce a Londra la sua faccia più presentabile, il vice-presidente Francisco Santos, ex giornalista che ha, tra l’altro, la delega sulla spinosa problematica dei diritti umani. Le Ong colombiane cercano di proporre un’analisi del conflitto diversa da quella di Uribe. Dopo dieci ore di discussione a porte chiuse, viene firmato un documento che sembra lasciare tutti contenti. Il governo Uribe incassa un appoggio più convinto e sostanzioso di quello ottenuto, quattro anni fa, dal suo predecessore Pastrana. Gli Usa non possono che essere soddisfatti. L’Europa può dichiarare di finanziare il governo di Bogotà sulla base dell’impegno del vice-presidente Santos a rispettare 24 raccomandazioni – in materia soprattutto di diritti umani – formulate dall’Onu. Proprio per questo le Ong, presenti fuori dal Foreign Office, sebbene incredule, non possono che mostrare una relativa soddisfazione.

A Bruxelles vengono sbloccati molti finanziamenti verso la Colombia, comprese decine di milioni di euro, proposte da settori di Cooperazione decentrata italiana, che prevedono l’istituzione in cinque zone del Paese di altrettanti “Laboratori di pace”, da realizzare in collaborazione col governo Uribe. Anche il responsabile degli affari con la Colombia per l’Unione europea, l’italiano Nicola Bertolini, condiziona questa cooperazione al rispetto delle raccomandazioni dell’Onu da parte governativa: "Nel caso contrario, gli aiuti sono destinati a saltare", afferma sulla stampa colombiana, aggiungendo che bisognerà attenersi, per ogni decisione, "solo ai fatti e non alle parole".

Nulla però in Colombia fa pensare ad una svolta di Uribe, in materia di diritti umani. Anzi, durante la discussione in parlamento della cosiddetta “Legge di Sicurezza democratica” (in seguito approvata), che contrasta palesemente con varie delle 24 raccomandazioni dell’Onu, il rappresentante governativo definisce “inconsulta” e priva di valore la firma apposta da Francisco Santos a Londra.

Bruxelles e tutte le persone coinvolte nel flusso di denaro verso la Colombia non fanno una piega. Sentendosi chiamato in causa, l’Onu pubblica in dicembre uno studio sull’attuazione delle sue raccomandazioni: riguardo 10 punti il governo ha fatto il contrario di quello che ha firmato, riguardo 17 non ha fatto niente e solo riguardo 7 ha fatto qualcosa, ma comunque in maniera parziale. A gennaio esce allo scoperto anche Francisco Santos. Di fronte al commissario europeo per gli Affari esteri, Chris Patten, che si azzarda a ricordare il rispetto delle famose 24 raccomandazioni, l’uribista dal volto umano manifesta improvvisamente "una divergenza profonda con alcune di queste raccomandazioni", frutto – sostiene – di "una concezione neo-coloniale della Colombia", della sua giustizia e della sua democrazia.

E l’Europa che fa? Come se non fossero stati presi in giro abbastanza, i vertici europei invitano Uribe a parlare nella sessione plenaria del parlamento, attribuendogli un onore che nessun presidente latinoamericano – compreso Lula, più vicino alla linea del dialogo e delle riforme, che l’Europa dice di sostenere – ha mai avuto.

Dialogo tra sordi? O teatrino?

Fonte: WWW.NARCOMAFIE.IT

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